Declino dell'insegnamento universitario?
Salve a tutti, vi scrivo per condividere alcune mie impressioni relative al mondo universitario. Parlando con persone che si sono laureate 30-40 anni fa, ho avuto l'impressione che all'epoca i docenti tenessero ai loro corsi, e soprattutto agli esami e alle tesi di laurea, molto di più di quanto sembra ci tengano oggi. Queste persone mi hanno parlato, ad esempio, di esami che duravano ore o addirittura intere giornate, di tesi corrette minuziosamente, di esami di laurea rinviati fin quando la tesi non fosse soddisfacente, e così via. Gli aneddoti - anche crudeli - sugli esami si sprecano. Invece, la mia esperienza e quella dei miei coetanei con cui ho parlato è stata diversa. I corsi che ho seguito sono stati di varia qualità, ma gli esami orali raramente hanno superato la mezz'ora e non mi sembra che si dia tutta quest'importanza alle tesi di laurea. Addirittura, ci sono facoltà di ingegneria in cui l'esame di Analisi I si fa mediante un test a risposta multipla! Durante il dottorato, inoltre, ho parlato con professori di tutto il mondo, e la maggior parte parlava dell'insegnamento essenzialmente come di una scocciatura che toglie tempo alla ricerca. Non nego che all'inizio quest'atteggiamento mi ha lasciato piuttosto basito, in quanto prima ancora di interessarmi alla ricerca mi ero interessato molto all'insegnamento universitario.
Mi sono dato varie spiegazioni di questo fenomeno. Una delle possibilità è che, negli ultimi decenni, la popolazione studentesca è cresciuta a dismisura, e questo potrebbe aver portato (ma non ne sono sicuro) a un abbassamento della qualità media. Se così fosse, i professori potrebbero essere demotivati dal confronto con studenti non realmente interessati o portati per la materia. Sicuramente incide anche il fatto che oggi la ricerca è valutata quantitavamente, anzi in Italia (ma credo in tutta Europa) è l'unica cosa valutata per le progressioni di carriera, e questo porta necessariamente gli accademici a concentrare su di essa i propri sforzi. D'altra parte, ho l'impressione che ci siano cause di più ampia portata, che coinvolgono tutto il rapporto tra l'odierna istituzione universitaria e il resto della società. Che ne pensate?
Mi sono dato varie spiegazioni di questo fenomeno. Una delle possibilità è che, negli ultimi decenni, la popolazione studentesca è cresciuta a dismisura, e questo potrebbe aver portato (ma non ne sono sicuro) a un abbassamento della qualità media. Se così fosse, i professori potrebbero essere demotivati dal confronto con studenti non realmente interessati o portati per la materia. Sicuramente incide anche il fatto che oggi la ricerca è valutata quantitavamente, anzi in Italia (ma credo in tutta Europa) è l'unica cosa valutata per le progressioni di carriera, e questo porta necessariamente gli accademici a concentrare su di essa i propri sforzi. D'altra parte, ho l'impressione che ci siano cause di più ampia portata, che coinvolgono tutto il rapporto tra l'odierna istituzione universitaria e il resto della società. Che ne pensate?
Risposte
"xXStephXx":
[quote="hydro"][quote="pier.paolo"]
Ok, questa è un'ottima ragione alla quale non avevo pensato. In breve, l'università anche solo fino a 40 anni fa puntava a formare un'élite di cui dettava lo standard, l'università di oggi vuole essere il più possibile inclusiva. Il problema di quest'approccio è che non solo si laureano tantissime persone che non hanno appreso i concetti base della materia e sono pronte a dimenticare tutto il giorno dopo la discussione, ma che gli stessi voti sono spinti tantissimo verso l'alto. Questo va proprio a discapito degli studenti più brillanti, i quali non hanno davvero modo di mostrare ciò nel curriculum. In altre parole, se in una sessione di laurea la metà degli studenti prende 110 e lode (e ho visto cose simili di persona), come si fa a distinguere una potenziale medaglia Fields da chi ha semplicemente svolto il compitino?
Domanda super legittima a cui nessuno vuole prendersi la briga di rispondere seriamente.
[/quote]
Su questa penso di saper rispondere. Quello bravo non viene distinto dal 110 e lode però se vuole fare la carriera accademica i prof più vicini conoscono la sua bravura e scrivono lettere di raccomandazione migliori.
Se invece vuole lavorare da qualche altra parte purtroppo dovrà brillare al colloquio come tutti gli altri.[/quote]
Purtroppo mi sa proprio che è così...il bello è che si può anche decidere di far laureare tante persone, differenziando però i voti. Invece oggi non solo escono molti laureati, ma escono anche tanti voti alti e lodi che non riflettono per niente una conoscenza/comprensione profonda della materia. Suppongo che anche questo avvenga in ossequio a criteri calati dall'alto.
"axpgn":
Che c'entra? Ma cosa stai dicendo?
Io c'ero e tu no in quegli anni e queste son proprio parole di chi ha letto ma non ha vissuto ...
Comunque il mio commento era relativo alle "lingue" e cioè al fare che non è una novità che un laureato sappia parlare anche un'altra lingua oltre alla propria; prima della guerra il latino e il francese erano lingue che più o meno tutti conoscevano (e parlavano) nella comunità scientifica.
Mi è uscita un po' troppo sugli anni di piombo. Quel che volevo dire è che in molti campi quegli anni sono stati pieni di rivoluzioni. Mi vengono in mente principalmente settori filosofico/letterari, la mia impressione è che le scienze siano cresciute tanto ma senza troppe rotture. Quindi immagino che le critiche verso l'università di quegli anni avesse connotazioni diverse.
Che c'entra? Ma cosa stai dicendo?
Io c'ero e tu no in quegli anni e queste son proprio parole di chi ha letto ma non ha vissuto ...
Comunque il mio commento era relativo alle "lingue" e cioè al fare che non è una novità che un laureato sappia parlare anche un'altra lingua oltre alla propria; prima della guerra il latino e il francese erano lingue che più o meno tutti conoscevano (e parlavano) nella comunità scientifica.
Io c'ero e tu no in quegli anni e queste son proprio parole di chi ha letto ma non ha vissuto ...

Comunque il mio commento era relativo alle "lingue" e cioè al fare che non è una novità che un laureato sappia parlare anche un'altra lingua oltre alla propria; prima della guerra il latino e il francese erano lingue che più o meno tutti conoscevano (e parlavano) nella comunità scientifica.
"axpgn":
[quote="vict85"]Detto questo, un laureato di 40-50 anni fa non aveva competenze che adesso vengono ritenute essenziali, come la conoscenza delle lingue ...
Scusami vict85 ma non è così ... lasciando stare il fatto che un secolo fa il francese aveva il ruolo che ha adesso l'inglese, un laureato di allora conosceva bene il latino (e pure il greco), decisamente più ostici da imparare dell'inglese (però in effetti 50 anni fa eravamo negli anni 70 ed è forse era già cominciata la discesa



"hydro":
[quote="pier.paolo"]
Ok, questa è un'ottima ragione alla quale non avevo pensato. In breve, l'università anche solo fino a 40 anni fa puntava a formare un'élite di cui dettava lo standard, l'università di oggi vuole essere il più possibile inclusiva. Il problema di quest'approccio è che non solo si laureano tantissime persone che non hanno appreso i concetti base della materia e sono pronte a dimenticare tutto il giorno dopo la discussione, ma che gli stessi voti sono spinti tantissimo verso l'alto. Questo va proprio a discapito degli studenti più brillanti, i quali non hanno davvero modo di mostrare ciò nel curriculum. In altre parole, se in una sessione di laurea la metà degli studenti prende 110 e lode (e ho visto cose simili di persona), come si fa a distinguere una potenziale medaglia Fields da chi ha semplicemente svolto il compitino?
Domanda super legittima a cui nessuno vuole prendersi la briga di rispondere seriamente.
[/quote]
Su questa penso di saper rispondere. Quello bravo non viene distinto dal 110 e lode però se vuole fare la carriera accademica i prof più vicini conoscono la sua bravura e scrivono lettere di raccomandazione migliori.
Se invece vuole lavorare da qualche altra parte purtroppo dovrà brillare al colloquio come tutti gli altri.
"pier.paolo":
Ok, questa è un'ottima ragione alla quale non avevo pensato. In breve, l'università anche solo fino a 40 anni fa puntava a formare un'élite di cui dettava lo standard, l'università di oggi vuole essere il più possibile inclusiva. Il problema di quest'approccio è che non solo si laureano tantissime persone che non hanno appreso i concetti base della materia e sono pronte a dimenticare tutto il giorno dopo la discussione, ma che gli stessi voti sono spinti tantissimo verso l'alto. Questo va proprio a discapito degli studenti più brillanti, i quali non hanno davvero modo di mostrare ciò nel curriculum. In altre parole, se in una sessione di laurea la metà degli studenti prende 110 e lode (e ho visto cose simili di persona), come si fa a distinguere una potenziale medaglia Fields da chi ha semplicemente svolto il compitino?
Domanda super legittima a cui nessuno vuole prendersi la briga di rispondere seriamente.
"impe":
Tutte le persone con cui ho parlato riguardo a questo "sistema", lo hanno criticato (parlandomi di risvolti nefasti).
La maggior parte degli accademici ritiene che sia sbagliato? Se sì, perché nulla cambia?
Perchè cambiare è 1) difficile e 2) faticoso. Invece fare il minimo necessario e portare a casa lo stipendio tutti i mesi è semplice e piacevole. Se tu fossi parte del corpo docente di un'università X, faresti qualcosa per cambiare?
"gugo82":
When a measure becomes a target, it ceases to be a good measure (Goodhart's law).
Se i dipartimenti vengono valutati anche sul voto e sul tempo di uscita degli studenti dai cc.dd.ll. ad essi incardinati c'è poco da fare...
Tutte le persone con cui ho parlato riguardo a questo "sistema", lo hanno criticato (parlandomi di risvolti nefasti).
La maggior parte degli accademici ritiene che sia sbagliato? Se sì, perché nulla cambia?
Vedo che la discussione ha preso molte e interessanti pieghe...non riesco a rispondere a tutti, mi limito agli interventi che si rifanno al mio post precedente. 
Ok, questa è un'ottima ragione alla quale non avevo pensato. In breve, l'università anche solo fino a 40 anni fa puntava a formare un'élite di cui dettava lo standard, l'università di oggi vuole essere il più possibile inclusiva. Il problema di quest'approccio è che non solo si laureano tantissime persone che non hanno appreso i concetti base della materia e sono pronte a dimenticare tutto il giorno dopo la discussione, ma che gli stessi voti sono spinti tantissimo verso l'alto. Questo va proprio a discapito degli studenti più brillanti, i quali non hanno davvero modo di mostrare ciò nel curriculum. In altre parole, se in una sessione di laurea la metà degli studenti prende 110 e lode (e ho visto cose simili di persona), come si fa a distinguere una potenziale medaglia Fields da chi ha semplicemente svolto il compitino?
Nel mio post mi riferivo al sistema di reclutamento, è chiaro che la didattica non c'entra nulla.

"vict85":
Io penso che vadano fatte due precisazioni. Il primo è che difficile non vuol dire meglio. Insomma, se si ha un buon insegnante, un esame oggettivamente difficile può sembrare facile. Se l'insegnante non è capace, un esame facile può essere difficilissimo. Il livello della didattica, poi, non ha nulla a che fare con l'esame: se tu studi per passare l'esame allora sbagli in partenza. Detto questo, la mia università era più facile di quella in cui mia moglie ha fatto matematica, ma sinceramente trovo che la didattica fosse meglio nel mio dipartimento. La qualità dell'insegnamento, poi, è indipendente dalla bravura del professore a fare ricerca (ai livelli bassi). Per fare una analogia, non è detto che un pianista di livello internazionale sia capace ad insegnare ad un bambino di 4 anni, ma certo può dare consigli fondamentali ad uno studente avanzato che voglia intraprendere la carriera concertistica.
Il secondo aspetto è che l'università ha uno scopo sociale ed è per questo che viene pagata per lo più dallo stato. Una volta le professioni che richiedevano una laurea erano meno, quindi una università con una forte selezione era più accettabile, ora le si richiede di formare più persone e non necessariamente al livello di "scienziati". Insomma, si sta a mio avviso tendendo verso il modello americano in cui vi è una richiesta di professionalità più applicate e forse multidisciplinari ai livello di laurea bassi e via via più formalità e selettività. Inoltre si lascia allo studente la libertà di studiare di più se lo vuole e non si può dire che le possibilità di farlo non siano tantissime. Molte più di quando ho iniziato io. Il punto è che l'università di 40-60 anni fa puntava ad avere pochi laureati ma con competenze il più avanzate possibili. Se non riuscivi a mantenere quello standard non gli interessava. Ora, invece, si cerca di formare il maggior numero possibile ad uno standard più basso e a dare le possibilità a chi desidera, e ha le capacità, di raggiungere gli stessi livelli dei laureati del passato. La qualità della didattica la si deve giudicare dai risultati e non da questioni assiomatiche. Tra l'altro, a discapito di quel che potrebbe sembrare, è più difficile insegnare per molti che per pochi, quindi serve una didattica migliore, e non peggiore, per far raggiungere un livello discreto a tante persone piuttosto che un livello di eccellenza per pochissimi. Anche perché spesso quelli che raggiungono l'eccellenza, sono persone che non hanno bisogno di essere spronati a raggiungerla.
Ok, questa è un'ottima ragione alla quale non avevo pensato. In breve, l'università anche solo fino a 40 anni fa puntava a formare un'élite di cui dettava lo standard, l'università di oggi vuole essere il più possibile inclusiva. Il problema di quest'approccio è che non solo si laureano tantissime persone che non hanno appreso i concetti base della materia e sono pronte a dimenticare tutto il giorno dopo la discussione, ma che gli stessi voti sono spinti tantissimo verso l'alto. Questo va proprio a discapito degli studenti più brillanti, i quali non hanno davvero modo di mostrare ciò nel curriculum. In altre parole, se in una sessione di laurea la metà degli studenti prende 110 e lode (e ho visto cose simili di persona), come si fa a distinguere una potenziale medaglia Fields da chi ha semplicemente svolto il compitino?
"gugo82":
Il "declino della didattica" non è figlio del "sistema feudale" (cosa che pure ho letto (ed è davvero imbarazzante, poiché il "sistema feudale" è un metodo di gestione e distribuzione di potere (fondamentalmente, di potere economico); quindi che senso ha parlare di "sistema feudale" riguardo la didattica?), quanto piuttosto -secondo me- dell'ignoranza o, nel migliore dei casi, della scarsa riflessione sull'utilità e sul ruolo che la buona didattica ricopre nello sviluppo globale della società.
Nel mio post mi riferivo al sistema di reclutamento, è chiaro che la didattica non c'entra nulla.
Dipende quali aziende. In quelle che formano i diplomati assolutamente no, anzi, loro sono convinti che la loro formazione sia superiore ad un corso di laurea. Incarnano proprio gli ideali che all'università si fanno argomenti obsoleti mentre loro ti insegnano quello che serve.
Molte big tech sono indifferenti alla laurea, purché hai fatto qualcosa che dimostra che sai fare il lavoro per cui applichi.
La laurea dei docenti di liceo, sì, certamente... quello è un lavoro che richiede la laurea (non che sia necessaria per sapere quello che sanno loro visto che io da liceale ne sapevo di più* (ci sono cose che a non dirle per umiltà poi si nasconde la realtà, scusate
)).
Però va bè, il ragionamento lo comprendo. I medici ad esempio devono avere la laurea.
*riferito solo a matematica.
Molte big tech sono indifferenti alla laurea, purché hai fatto qualcosa che dimostra che sai fare il lavoro per cui applichi.
La laurea dei docenti di liceo, sì, certamente... quello è un lavoro che richiede la laurea (non che sia necessaria per sapere quello che sanno loro visto che io da liceale ne sapevo di più* (ci sono cose che a non dirle per umiltà poi si nasconde la realtà, scusate

Però va bè, il ragionamento lo comprendo. I medici ad esempio devono avere la laurea.
*riferito solo a matematica.
"giuliofis":
[quote="xXStephXx"]Però sono convinto che chi sceglie molti corsi di laurea lo fa per il lavoro, perché è convinto che ci sia uno stipendio "da laureati" e uno stipendio "da diplomati".
Che è appunto un problema culturale.[/quote]
No, è un problema esistente e concreto.
Nelle aziende, gli avanzamenti di carriera per i non laureati sono molto più limitati; quindi, alla lunga un non laureato ha uno stipendio minore.
Nella scuola, i non laureati possono accedere solo come ITP ed hanno incarichi e stipendi inferiori rispetto ai docenti... Ed i docenti solo diplomati (ce n'è ancora qualcuno alla primaria o nell'infanzia che ha solo il diploma magistrale) hanno stipendi minori rispetto a quelli dei docenti laureati.[nota]Dico meglio: la differenza di stipendio non è con i colleghi laureati della primaria o dell'infanzia, perché tutti i docenti dello stesso ordine hanno gli stessi stipendi tabellari; ma con i docenti degli ordini superiori. Insomma, un qualsiasi docente di infanzia prende uno stipendio inferiore ad un collega della primaria, che prende uno stipendio inferiore a quello di un collega della secondaria 1° grado, che prende uno stipendio inferiore rispetto ad un collega della secondaria 2° grado (a parità di anzianità di servizio, ovviamente).
Questa è, secondo me, una stortura che andrebbe eliminata, poiché ormai i docenti sono -per la maggior parte- tutti laureati o più.[/nota]
"hydro":
Ma in che mondo? Un laureato in lettere forse. Il latino si studiava al liceo al massimo, non ho notizie di corsi di laurea in ingegneria o medicina con esami di latino o greco.
E quando mai ho scritto che si studiasse all'università?
Ho detto che lo conosceva bene e non solo chi proveniva dal Classico ma pure quelli dello Scientifico.
"xXStephXx":
Però sono convinto che chi sceglie molti corsi di laurea lo fa per il lavoro, perché è convinto che ci sia uno stipendio "da laureati" e uno stipendio "da diplomati".
Che è appunto un problema culturale.
"hydro":
Capisco il punto di vista di gabriella e lo condivido anche in teoria, in un mondo perfetto sarebbe bellissimo che tutte le persone avessero una formazione universitaria, ma bisogna anche guardare in faccia la realtà.
.
Sono d'accordo che l'università non debba essere staccata dalla realtà, semplicemente credo in una formazione culturale che sia autonoma da quello che può richiedere il mondo del lavoro nell'immediato, anche perché è una visione di corto respiro, dato che il mondo del lavoro cambia rapidamente e l'università non può inseguirlo.
Credo in una funzione sociale dell'università, a prescinder dalle richeste specifiche del mondo del lavoro, proprio in termini di diritti dei cittadini alla formazione culturale e di attenuazione delle disuguaglianze e delle differenze nelle condizioni di partenza.
L'università non come un servizio all'economia o alla formazione di lavoratori per le imprese o altre istituzioni.
Anche formazione di una futura classe dirigente, che certo riguarda una formazione di élite, ma ha alla base secondo me una necessità di una ampia base di persone che attingano un certo livello culturale.
E non dico nemmeno che tutti debbano avere una formazione universitaria.
Si può benissimo fare altro, e non lo considero di serie B, poiché non è solo all'università che si impara.
Però la realtà è che in Italia abbiamo un numero di laureati più basso degli altri paesi, e al momento questo è il problema, non che sforniamo troppi laureati.
@Gugo82: non sto criticando i dipartimenti, mi rendo conto che si debba anche sopravvivere, sto criticando questa linea assurda di idee per cui più persone si laureano migliore è l'università, e fesserie simili.
Ma io non credo che la scelta sia tra educare al ragionamento e professionalizzare. Io credo che il liceo debba formare delle teste pensanti, e l'università formare degli specialisti, al passo coi tempi, nella materia scelta. Poi quello che farai con le nozioni che apprendi sono problemi tuoi, fermo restando che ovviamente la formazione non possa essere totalmente distaccata dalla realtà. Non dico che l'università debba inseguire il mondo del lavoro, dico che l'intero sistema dev'essere coerente. Il problema di far laureare decine di migliaia di persone in legge è che poi queste stesse persone finiranno a fare gli stage a 400 euro al mese lavorando 12 ore al giorno, perché da un lato i datori di lavoro possono sfruttare la sovraofferta, e dall'altro una persona che si è dedicata per 5 anni, magari sputando sangue, per laurearsi in legge si sente poi in diritto/dovere di inseguire la carriera per cui ha studiato. E questo non è un sistema sano. Capisco il punto di vista di gabriella e lo condivido anche in teoria, in un mondo perfetto sarebbe bellissimo che tutte le persone avessero una formazione universitaria, ma bisogna anche guardare in faccia la realtà.
Ma in che mondo? Un laureato in lettere forse. Il latino si studiava al liceo al massimo, non ho notizie di corsi di laurea in ingegneria o medicina con esami di latino o greco.
"gabriella127":
Ma la professionalizzazione secondo me non è il ruolo della scuola e della università pubblica.
Ma io non credo che la scelta sia tra educare al ragionamento e professionalizzare. Io credo che il liceo debba formare delle teste pensanti, e l'università formare degli specialisti, al passo coi tempi, nella materia scelta. Poi quello che farai con le nozioni che apprendi sono problemi tuoi, fermo restando che ovviamente la formazione non possa essere totalmente distaccata dalla realtà. Non dico che l'università debba inseguire il mondo del lavoro, dico che l'intero sistema dev'essere coerente. Il problema di far laureare decine di migliaia di persone in legge è che poi queste stesse persone finiranno a fare gli stage a 400 euro al mese lavorando 12 ore al giorno, perché da un lato i datori di lavoro possono sfruttare la sovraofferta, e dall'altro una persona che si è dedicata per 5 anni, magari sputando sangue, per laurearsi in legge si sente poi in diritto/dovere di inseguire la carriera per cui ha studiato. E questo non è un sistema sano. Capisco il punto di vista di gabriella e lo condivido anche in teoria, in un mondo perfetto sarebbe bellissimo che tutte le persone avessero una formazione universitaria, ma bisogna anche guardare in faccia la realtà.
"axpgn":
un laureato di allora conosceva bene il latino (e pure il greco)
Ma in che mondo? Un laureato in lettere forse. Il latino si studiava al liceo al massimo, non ho notizie di corsi di laurea in ingegneria o medicina con esami di latino o greco.
"vict85":
Detto questo, un laureato di 40-50 anni fa non aveva competenze che adesso vengono ritenute essenziali, come la conoscenza delle lingue ...
Scusami vict85 ma non è così ... lasciando stare il fatto che un secolo fa il francese aveva il ruolo che ha adesso l'inglese, un laureato di allora conosceva bene il latino (e pure il greco), decisamente più ostici da imparare dell'inglese (però in effetti 50 anni fa eravamo negli anni 70 ed è forse era già cominciata la discesa


Comunque, vict, non mi riferivo a te, ma la discorso su scuola e università cominciato con l'intervento di gugo.
Comunque vorrei puntualizzare che stavo più che altro descrivendo più che giudicando e non stavo dicendo che l'università debba professionalizzare. Quel che stavo dicendo è che se prima ci si concentrava sull'avere poche persone piene di nozioni, adesso si cerca di avere un gran numero di persone con le nozioni base ben chiare e con gli strumenti per acquisire di più. In qualche modo, adesso ci si aspetta di meno che un laureato sappia tutto solo perché ha finito il corso di laurea.
Bisogna anche dire che al di là delle necessità di confindustria, l'abbandono del nozionismo ha anche ragioni più pratiche. Insomma, una volta era più costoso e meno pratico controllare una formula o una qualche nozione. Adesso è una questione di secondi.
Detto questo, un laureato di 40-50 anni fa non aveva competenze che adesso vengono ritenute essenziali, come la conoscenza delle lingue e l'uso delle tecnologie. Insomma, l'università di oggi ha aspettative differenti rispetto al passato, tutto qui. Trovo alcuni cambiamenti giusti, altri discutibili, ma il cambiamento era necessario ed inevitabile. Il processo di cambiamento delle università è inoltre tutt'altro che nuovo. Al di là del cambiamento da vecchio a nuovo ordinamento, le università sono state al centro di molte rivoluzioni sociali dello scorso secolo.
Bisogna anche dire che al di là delle necessità di confindustria, l'abbandono del nozionismo ha anche ragioni più pratiche. Insomma, una volta era più costoso e meno pratico controllare una formula o una qualche nozione. Adesso è una questione di secondi.
Detto questo, un laureato di 40-50 anni fa non aveva competenze che adesso vengono ritenute essenziali, come la conoscenza delle lingue e l'uso delle tecnologie. Insomma, l'università di oggi ha aspettative differenti rispetto al passato, tutto qui. Trovo alcuni cambiamenti giusti, altri discutibili, ma il cambiamento era necessario ed inevitabile. Il processo di cambiamento delle università è inoltre tutt'altro che nuovo. Al di là del cambiamento da vecchio a nuovo ordinamento, le università sono state al centro di molte rivoluzioni sociali dello scorso secolo.
"gabriella127":
Ma la professionalizzazione secondo me non è il ruolo della scuola e della università pubblica.
Io non so cosa avrei fatto perché quando scelsi l'università mi iscrissi per inerzia. Lo ammetto. Lato pratico non sapevo assolutamente nulla e può darsi che tornando indietro rifarei le stesse scelte.
Però sono convinto che chi sceglie molti corsi di laurea lo fa per il lavoro, perché è convinto che ci sia uno stipendio "da laureati" e uno stipendio "da diplomati". Perché pensa che molte compagnie assumano solo laureati. Per certi aspetti è pure verino, nel senso che ad esempio alcuni ruoli per cui ho applicato quest'anno hanno l'85% col PhD... però è chiaro che nell'immenso calderone esistono opzioni equipollenti per competenze e con meno richieste accademiche... Tanto che molti mi hanno scartato proprio per la mancanza di esperienza commerciale, lasciando proprio intendere senza equivoci che il PhD vale meno di 3 anni di esperienza commerciale qualsiasi (ed il perché non lo so eh, forse perché si aspettano che all'università di lavoro se ne apprende zero).
E non è neanche così evidente il bonus culturale derivante dall'aver appreso tante matematiche diverse, nel mio caso. (Solo pochi geni riescono a trovare collegamenti validi tra branche diverse, la realtà media è ben diversa...)
Il problema alla fine per me è che l'università non ha esattamente quel ruolo che dice di avere.
Io non disprezzo affatto l'apprendere da una azienda, anzi.
Dico solo che all'università il tipo di preparazione non deve essere quello mirato al lavoro o all'azienda.
Poi ci sono percorsi formativi che non sono l'università, e vanno benissimo, anzi, io sono fermamente contro l'idea culturale corrente che le conoscenze tecniche siano di serie B, anche le competenze artigianali sono svalutate: credo che sia solo un pregiudizio culturale.
Ed è giustissimo fare un percorso del genere invece dell'università.
Ma la professionalizzazione secondo me non è il ruolo della scuola e della università pubblica.
Dico solo che all'università il tipo di preparazione non deve essere quello mirato al lavoro o all'azienda.
Poi ci sono percorsi formativi che non sono l'università, e vanno benissimo, anzi, io sono fermamente contro l'idea culturale corrente che le conoscenze tecniche siano di serie B, anche le competenze artigianali sono svalutate: credo che sia solo un pregiudizio culturale.
Ed è giustissimo fare un percorso del genere invece dell'università.
Ma la professionalizzazione secondo me non è il ruolo della scuola e della università pubblica.
Ma anche sulla formazione post-diploma di maturità avrei dei dubbi.
Finché si parla di scuole oggettivamente più facili trovo perfettamente sensato dire che bisogna andare al liceo se si vuole studiare per bene. Però poi si arriva ad un punto in cui apprendere da un'azienda non è affatto la strada per chi non sa studiare o per chi vuol fare le cose facili, anzi, può persino esserci molta più selezione.
So che ora dirò una cosa brutta visto che faccio il PhD. Io penso di aver sviluppato skill tali da apprendere in autonomia e tali da trovare migliorie in modelli tecnici. Ma me le ha date l'università? Dunque... al liceo sapevo già fare dimostrazioni di matematica grazie alle olimpiadi di matematica e sapevo già risolvere problemi di probabilità simili a quelli dei brainteaser delle banche. Se a 18 anni mi avessero buttato in un percorso formativo mirato onestamente penso che ora avrei zero conoscenze in geometria e conoscenze non molto affinate sugli spazi vettoriali (la forma di Jordan l'avrei imparata lo stesso però, visto che fin lì è fondamentale
).
Quindi per farla breve, purtroppo io nella vita dirò che le basi me le hanno date le olimpiadi di matematica, pur non disprezzando ciò che ho fatto dopo, anzi...
Finché si parla di scuole oggettivamente più facili trovo perfettamente sensato dire che bisogna andare al liceo se si vuole studiare per bene. Però poi si arriva ad un punto in cui apprendere da un'azienda non è affatto la strada per chi non sa studiare o per chi vuol fare le cose facili, anzi, può persino esserci molta più selezione.
So che ora dirò una cosa brutta visto che faccio il PhD. Io penso di aver sviluppato skill tali da apprendere in autonomia e tali da trovare migliorie in modelli tecnici. Ma me le ha date l'università? Dunque... al liceo sapevo già fare dimostrazioni di matematica grazie alle olimpiadi di matematica e sapevo già risolvere problemi di probabilità simili a quelli dei brainteaser delle banche. Se a 18 anni mi avessero buttato in un percorso formativo mirato onestamente penso che ora avrei zero conoscenze in geometria e conoscenze non molto affinate sugli spazi vettoriali (la forma di Jordan l'avrei imparata lo stesso però, visto che fin lì è fondamentale

Quindi per farla breve, purtroppo io nella vita dirò che le basi me le hanno date le olimpiadi di matematica, pur non disprezzando ciò che ho fatto dopo, anzi...