Scelta ateneo per Matematica

martinet1
Ciao a tutti,
sono un liceale che a breve dovrà prendere la strada universitaria e compiere la scelta su quale ateneo frequentare.

Onestamente sono un po' intimorito dai racconti di mio cugino che, laureatosi in fisica, mi ha in effetti detto di scegliere bene quale ateneo frequentare in quanto nel suo si era trovato malissimo con programmi molto ridotti rispetto ad altri.

Per questo ho sfruttato google ma devo ammettere che sono solo più indeciso di prima. In particolare sono finito in questa discussione: https://www.reddit.com/r/italy/comments ... are_quali/

dove le mie paure si rendono reali (cito):

Quelli che dicono "un posto vale l'altro, è tutto standardizzato" devono essere triennalini o gente che non ha mai lasciato la propria Università.

A mio giudizio, e a giudizio di tanti altri matematici che conosco*, il miglior dipartimento in Italia per la Matematica Pura (e non a caso l'unico ad avere ancora un gruppo di categoristi) è senz'altro quello della Statale di Milano. Indubbiamente non al livello di alcuni dipartimenti di Matematica tedeschi (penso a Bonn o Ratisbona), ma molto sopra gli altri dipartimenti italiani.

*questi matematici sono torinesi, pisani, padovani, romani ecc.



Da cui nascono molte sottorisposte:


Insomma, non è che vorrei aprire un diverbio e una tifoseria, però sono davvero confuso perché anche in altre discussioni si riporta come Milano unico centro valido in italia con "magistralini" che per recuperare programmi della triennale non svolti in altri atenei han dovuto studiare giorno e notte. E milano indicato come unico centro per la teoria delle categorie in Italia.

E' davvero così? Qualcuno che ha esperienze sa dirmi? Sono terrorizzato nel fare la scelta meno saggia.
Grazie :)

Risposte
Lebesgue
"giuliofis":

Mah, io ho visto uscirci gente decisamente normale, sia nel senso di normotipicità del carattere che di capacità tecniche.
Mi sembra che qui si stia veramente esagerando l'importanza dell'ateneo: nei corsi di laurea tecnici, come matematica e fisica, la grossa differenza la fa il singolo.


Per carità divina, evita come la peste Pisa per la triennale!!
Te lo dice uno che ci ha fatto triennale e magistrale in matematica, finita poco fa.
Come città pisa è veramente vivibile e ti fa sentire a casa, il problema è la triennale in matematica qui e la copresenza della normale.
Avresti senza ombra di dubbio una preparazione che non è paragonabile a nessun altra facoltà di matematica italiana (letteralmente in triennale si fanno robe che in altri posti fanno i dottorandi), tuttavia in triennale la quasi totalità degli studenti (e ci tengo a sottolineare questa cosa) sviluppa problemi d'ansia e va in terapia.
Tutti i miei amici matematici (non sono tantissimi, la statistica si basa su una 30ina di persone, me compreso) sono andate almeno una volta da un terapeuta per problemi d'ansia legati agli esami della triennale.
Quindi, consiglio mio, vai da qualsiasi altra parte che non sia pisa per la triennale e, magari, rivalutala per una eventuale magistrale.
Car* mio, salvati almeno tu.

12provaCiao
"megas_archon":

a proposito di Pisa, che hai un po' descritto come una valle di lacrime
No! Al contrario, io penso sia un posto gioioso, è infatti molto "terrone" nella maniera di accoglierti, cosa che Padova, più nordica, non possiede affatto. Ma, è, diciamo così, immersa irrimediabilmente nell'afrore di torme di adolescenti autistici, che entrano (o escono da) l'ambiente delle olimpiadi, hanno già qualche nozione di matematica meno elementare, ruminano i primi esami con facilità, e quindi pongono l'asticella di ciò che è "sufficiente sapere" molto molto più in alto. Anche da notare che lo scopo dei corsi dei primi anni non è far sì che tutta la classe raggiunga almeno un livello sufficiente di conoscenza, bensì selezionare quelli, pochi, che sono sufficientemente bravi e autonomi da formare la nuova generazione d'élite. C'è quindi una enorme peer pressure, che il corpo docente non solo tollera ma catalizza. Perché ci è passata prima degli altri, perché viene dalla stessa ideologia...

Mah, io ho visto uscirci gente decisamente normale, sia nel senso di normotipicità del carattere che di capacità tecniche.
Mi sembra che qui si stia veramente esagerando l'importanza dell'ateneo: nei corsi di laurea tecnici, come matematica e fisica, la grossa differenza la fa il singolo.

gabriella127
"megas_archon":
[quote="gabriella127"]
Grazie della risposta.
dai un'idea abbastanza ascetica e sofferenziale della matematica
Non necessariamente, chi mi conosce sa che mi piace [strike]sco[/strike]vivere pienamente in vari modi e non .

Quello in cui io non credo è una matematica/convivialità gioiosa e inclusiva a tutti i costi: per fare matematica, per farla bene, è indispensabile essere un certo tipo di persona; gli altri dovrebbero astenersene, altrimenti la rovinano, la imbastardiscono. L'accento è sulla preservazione di una ortodossia, non sul suo adeguamento alla comunità che utilizza quello status quo. Ovviamente il motivo è che la matematica è estremamente più importante delle persone che la fanno.
Del resto, altrettanto ovviamente, questa è un'opinione estremizzata e distorta da me, che ho un nemmeno troppo malcelato disturbo antisociale di personalità. [/quote]
Grazie a te.
Neanche io penso che la matematica debba essere inclusiva, già la parola mi fa venire la depressione.
Non a caso ho citato Ennio De Giorgi, non il primo oco giulivo [nota]Scrivere 'oca' non si può più, e mi rifiuto di scrivere oc@ con la schwa :)[/nota] che passa.
Quello che voglio dire, che a parità di turba psichica, da cui non sono affatto esente, e di reale predisposizione per la matematica, si può avere un rapporto con la matematica diverso, e quel 'certo tipo di persona' che bisogna essere in realtà possono essere molti tipi di persona.

"megas_archon":

1. Una componente di morte dell'ego è essenziale per apprezzare la profondità del sapere cui ti stai avvicinando.

[...] sia costretto a trovare la sua quadra tra questa urgenza trascendente e la propria ineliminabile mortalità, oppure inevitabilmente si consumi. Per me fare matematica è una maniera di essere un po' meno umano, condizione da cui non posso fuggire ma di cui porto con vergogna i segni e che vorrei eliminare. Per altre persone questa, che per me è l'unica maniera di sentirmi a mio agio nel mio corpo, sarebbe una tortura o un'eresia. Alcuni trovano questa libertà nelle droghe, per esempio.

Sono cose di cui è difficilissimo parlare perché troppo soggettive e personali, e senza scadere nel filosofico-palloso.
Senza però fare il filosofo de noantri, ma solo per far capire il mio discorso, che non è poi così lontano dal tuo,
pensavo proprio a questa 'morte dell'ego' che citi.
Non mi riferisco di qui in avanti a te né a me, è un discorso generale.

In realtà non è niente che si siano inventai gli psiconauti, caso mai con i funghi allucinogeni viene meglio.
È qualcosa che si ritrova nella descrizione dell'esperienza mistica o dell'estasi, e del'annullamento di sé per trovare la ricongiunzione con il 'tutto'.
È anche la visione tipica del romanticismo tedesco, dove il rapporto con la morte è, tutto sommato, poco mortifero. La poesia emblema è l'Inno alla notte di Novalis, dove si dice che la notte è tanto bella perché somiglia alla morte etc. etc.
In realtà la morte è vista come esperienza fusionale estrema, quella che ti ricongiunge all'altro amato o al tutto (che poi è quasi lo stesso),: In realtà questa idea di autoannientamento è l'atto estremo del desiderio, che vuole fondersi con l'altro, diciamo l'atto erotico in senso lato più estremo.
E se è la nostra finitezza a impedirci di ricongiungerci all'altro-tutto, ecco che ci facciamo fuori, metaforicamente o anche in casi limite fisicamente.

Guarda qua gli psiconauti che hai citato, non si sono inventati niente:

"all'inizio hai la sensazione di morire ed entri in trance—talora urlando—poi la tua autopercezione svanisce e ti sembra che tutto quello che c'è nell'universo sia connesso."

Come si vede, questa espressione 'morte dell'Io' o morte tout court, non è così mortifera come appare.

Ripeto, con questo pippone filosofico non parlo né di te né di me in particolare, né il mio rapporto con l'attività del pensare, e la matematica, passa per questo autoannientamento, ma ti assicuro che ho motivazioni psicologiche che non sono poi così diverse, anche se spesso è difficile sia afferrarle che descriverle.

megas_archon
[quote="gabriella127"][/quote] Grazie della risposta.
dai un'idea abbastanza ascetica e sofferenziale della matematica
Non necessariamente, chi mi conosce sa che mi piace [strike]sco[/strike]vivere pienamente in vari modi e non amo essere limitato. Quello di cui mi faccio portavoce, sicuramente amplificando i sottintesi che ho ricevuto mentre mi stavano formando è:

1. Una componente di morte dell'ego è essenziale per apprezzare la profondità del sapere cui ti stai avvicinando.
2. Similmente a quel che succede quando si affila un coltello, stai facendo qualcosa per cui serve tecnica, e che ti lascia con uno strumento efficace in mano, ma anche pericoloso e crudele.

Quello in cui io non credo è una matematica/convivialità gioiosa e inclusiva a tutti i costi: per fare matematica, per farla bene, è indispensabile essere un certo tipo di persona; gli altri dovrebbero astenersene, altrimenti la rovinano, la imbastardiscono. L'accento è sulla preservazione di una ortodossia, non sul suo adeguamento alla comunità che utilizza quello status quo. Ovviamente il motivo è che la matematica è estremamente più importante delle persone che la fanno.
Del resto, altrettanto ovviamente, questa è un'opinione estremizzata e distorta da me, che ho un nemmeno troppo malcelato disturbo antisociale di personalità.
Vorrei solo che martinet non pensasse che fare il matematico sia un po' peggio che fare il frate trappista
La quantità di birra (specie a PD) è simile per entrambi.
a proposito di Pisa, che hai un po' descritto come una valle di lacrime
No! Al contrario, io penso sia un posto gioioso, è infatti molto "terrone" nella maniera di accoglierti, cosa che Padova, più nordica, non possiede affatto. Ma, è, diciamo così, immersa irrimediabilmente nell'afrore di torme di adolescenti autistici, che entrano (o escono da) l'ambiente delle olimpiadi, hanno già qualche nozione di matematica meno elementare, ruminano i primi esami con facilità, e quindi pongono l'asticella di ciò che è "sufficiente sapere" molto molto più in alto. Anche da notare che lo scopo dei corsi dei primi anni non è far sì che tutta la classe raggiunga almeno un livello sufficiente di conoscenza, bensì selezionare quelli, pochi, che sono sufficientemente bravi e autonomi da formare la nuova generazione d'élite. C'è quindi una enorme peer pressure, che il corpo docente non solo tollera ma catalizza. Perché ci è passata prima degli altri, perché viene dalla stessa ideologia... Padova era molto simile ai miei tempi, tutto trasudava "ricordati che non è obbligatorio fare questa cosa; in cui non c'è niente di difficile, ma che è molto probabile alla fine ti mostrerà i tuoi limiti e non farà veramente per te".
E' un fatto di narrazione, vedi? Sono due ideologie a confronto, una che cerca (comprensibilmente: la matematica è uno dei pochi modi di farlo) di elevare la condizione umana, perché dovremmo vivere tutti in armonia e fraterna allegria, e l'altra a cui della condizione umana non importa nulla, per cui la matematica è un'ossessione, una scusa per indulgere ai propri tratti schizofrenici, oppure "la maniera di istruire un dio".
Sono convinto ciascuno (di quelli che non molla, per debolezza di carattere, sfortuna o altro) sia costretto a trovare la sua quadra tra questa urgenza trascendente e la propria ineliminabile mortalità, oppure inevitabilmente si consumi. Per me fare matematica è una maniera di essere un po' meno umano, condizione da cui non posso fuggire ma di cui porto con vergogna i segni e che vorrei eliminare. Per altre persone questa, che per me è l'unica maniera di sentirmi a mio agio nel mio corpo, sarebbe una tortura o un'eresia. Alcuni trovano questa libertà nelle droghe, per esempio.
capire dov'è tracciata la linea di confine tra matematica pura e quella applicata
Davvero di tutto il discorso questa imbarazzante banalità è l'unica cosa interessante?!

gabriella127
Be', della mente alverae sentivo parlare da ragazza, quindi si vede che è arrivata a Napoli e forse pure a Eboli, a Lecce non so... :)
Per il resto, forse hai ragione, pure De Giorgi era come noi napoletani, pizza e mandolino.

Per quanto riguarda il Bacchiglione (ho dovuto vedere sulla cartina dove sta :-D ) e il Rubicone, non so perché metti lì la linea tra matematica applicata e matematica pura, e perché ne parli in riferimento al discorso precedente di questo thread.
A me questi compartimentio stagni non sono mai piaciuti, e per la verità credo che certi discorsi che facciamo rispetto alla matematica non siano esclusivi della matematica, ma riguarda il rapporto di noi, uomini, con l'attività di pensiero. (c'è chi risolve eliminando proprio il pensiero, ma vabbe' battuta facile e stupida :D ).

Probabilmente c'è un quid di più specifico per il pensiero astratto, ma vabbe', poi dire che la matematica pura è astratta e quella applicata è no, boh, mi pare un po' azzardato.

Quello che volevo dire con il mio post è che siamo tutti di fronte alla vita, soli sul cuore della terra, trafitti da un raggio di sole solo a Lecce e a Napoli (altrove piove) :) , e ognuno anche nel rapporto con la matematica fa quel che sente e che può, non c'è un solo modo di viverla.
Io personalmente, che non sono certo una persona solare e priva di sofferenza, non ho un rapporto sofferenziale con la matematica e con l'attività intellettuale in genere, al contrario, in modi che è difficile spiegare in breve, ho anzi cercato nella matematica in particolare un modo per gestire la sofferenza.
Io quando in tarda età ho impattato, per mia scelta, la matematica, nella specie concreta del dipartimento di matematica alla Sapienza, ho avuto una sensazione di calma come mai avuta prima, come fossi arrivata a casa.

gugo82
@gabriella127: Ma De Giorgi era leccese... Cosa può mai saperne uno nato al sud, vicino al mare, di roba tipo la "mente alveare"? :lol:

In realtà, la cosa interessante del discorso molto equilibrato di poco sopra sarebbe capire dov'è tracciata la linea di confine tra matematica pura e quella applicata. Se passa per il Bacchiglione o si spinge un po' più a sud, almeno fino al Rubicone, tanto per dire...

gabriella127
"megas_archon":

Il senso della lezione, impartita così, è darwiniano: la matematica è una disciplina onesta, tutte le nozioni sono dischiuse davanti a te, a breve distanza dal tuo braccio, ma non è facile appropriartene, perché non è possibile per il docente sostituirsi al discente nel fare fatica, nel digerire le nozioni, nel "patirle nella carne", come ho amato dire in passato. La fatica fatta per apprendere coincide con l'apprendimento; l'unica maestra è la sofferenza, la frustrazione del non capire per poi, a un certo punto, far breccia. Avere, invece, la risposta pronta, deleterio. Per fare un paragone, l'atletica, la padronanza di uno strumento musicale, o di una lingua, sono imbevute di un simile principio pedagogico.

Da queste parole, e da altre cose che hai detto, dai un'idea abbastanza ascetica e sofferenziale della matematica, rispettabilissima, e che non critico affatto, e capisco. Anzi, anche io, anche se non si vede, ho una vena di aspirazione alla trascendenza, diciamo così, anche se in un senso meno da 'mortificazione della carne' e più felice (lo so che non si capisce una mazza, ma non è che posso spiegare molto qui).
O anche, se vogliamo parlare di sofferenza, per me il rivolgersi alla matematica (per quelllo che ho fatto) non è tanto un seguire un percorso di sofferenza per arrivare a qualcosa di più alto, non ho mai visto in me una spinta etica in questo senso, ma un modo per elaborare la sofferenza esistenziale, insomma per la verità qualcosa di molto lontano dall'essere un cuor contento.

Vorrei solo che martinet non pensasse che fare il matematico sia un po' peggio che fare il frate trappista, caso mai vestiti male e dormendo sulla panca al dipartimento (ho conosciuto una volta un matematico che dormiva al dipartimento, ma perché lo avevano sfrattato e stava senza casa :)).

Ma il 'non capire', la fatica dell'apprendimento, non sono solo, o non sono necessariamente, quel 'patire nella carne' o frustrazione.
Insieme alla fatica, che ovviamente c'è, il non capire può essere motivo di eccitazione intellettuale, la cosa che non si capisce può essere attraente in sè, il non capire e cercare di capire può essere la gioia del pensiero in atto, la passione per il pensare (lo diceva Einstein che la matematica è la passione per il pensare, così come esiste la passione per la musica), il tentativo di creare un ordine in un mondo, trasformare l'oscuro in chiaro, trovare armonia di forme e collegamenti dove prima appare il caos, e tante altre cose, credo infinite quanti sono gli individui.
Anche l'attrazione per l'astratto (che io ho in modo forse eccessivo) o il misticismo (qualunque cosa significhi) può avere delle motivazioni che non sono affatto la negazione della vita o del corpo, anzi: come dissi una volta in uno dei dibattiti che capitano su concreto e astratto, a una persona che diceva di difendere il concreto perché difendeva il corpo, che proprio il corpo è una nozione eminentemente astratta (manco questo si capisce, ma vi scoccerei troppo a spiegare).
Insomma, non c'è bisogno dell'economista (il solito cafone :)) , che porta 'sterco del diavolo' per recuperare la materia concreta (come ti eri espresso in un altro post).

D'altra parte, anche tu parli del 'fare breccia', credo come momento felice (e 'avere la risposta pronta', infatti, non solo è deleterio pedagogicamente, ma noiosissimo).
Ovviamente se uno non capisce mai niente, no, ma non parliamo di questo.

E, a proposito di Pisa, che hai un po' descritto come una valle di lacrime, voglio ricordare un illustre matematico che insegnava a Pisa, Ennio De Giorgi, che aveva un'idea del tutto diversa, parlava, della matematica come 'ricerca di bellezza, armonia, convivialità', convivialità proprio nel senso che va condivisa con gli altri, quasi tipo pizza e birra.
De Giorgi era religioso, e vedeva nella matematica una via verso il trascendente, vedere che le cose che esistono non sono solo quelle che vediamo e tocchiamo. Ma mi sembrava una religiosità gioiosa.

Diciamo che ognuno deve trovare la sua via, secondo il suo carattere, in fondo ci sono stati esempi di matematici con caratteri d'ogni tipo, anche a livello alto, da un nevrotico baciapile come Cauchy, a Weierstrass, che pare si dividesse tra l'università e i pub a ingozzarsi di birra.
Poi ci sono quelli finiti in manicomio, che fa pure chic, ma non è la regola.

gugo82

Luca.Lussardi
Io ho studiato prima, 1997-2001, laurea quadriennale, non mi ci ritrovo per niente nella descrizione di cui sopra. Quindi la conclusione è che è tutto soggettivo, dipende dalla persona e dai professori che trovi.

megas_archon
"lozaio":
Forse OT

@megas_archon
Leggevo con interesse la tua risposta, e mi piace la visione che dai della materia.

Mi ha incuriosito questo passaggio
Ha anche un modo particolare di insegnare la matematica, fatto di rituali, di un idioletto tutto particolare che altre università anonime non possiedono, perché non hanno la stessa eredità storica.
ossia? Qualche esempio? Mi ha incuriosito :-D. Come sarebbe insegnata a PD.

[ot]La mia esperienza si riferisce all'infornata 2007-2012 (3+2). Studiare matematica a Padova per me è consistito nell'incamerare, nel confrontarmi, nel confutare, nell'accettare, e nell'esaminare tutte queste idee:

- Siamo qui per aiutarti e includerti nella nostra comunità, a patto che tu ti uniformi alla sua struttura: cioè, non è la matematica che si deve adeguare alle peculiarità dell'individuo, semmai al contrario sono le peculiarità dell'individuo a doversi mantenere a dispetto del fatto che esso si è omogeneizzato a ciò che in una persona la rende un matematico.
- Il corpo di conoscenze con cui stai per venire a contatto è "adeguato a tutti" ma allo stesso tempo "non fa per tutti", ed è difficile non per un fatto di gatekeeping (o meglio: il gatekeeping è a fin di bene, per non sporcare la disciplina facendo entrare chi ne è indegno) ma per il semplice motivo che l'apprendista deve abituarsi a fare una cosa che non è mai stato instradato a fare: pensare correttamente.
- Nessuno è quindi tenuto a farti sentire a tuo agio (a prescindere dalla tua storia personale): quello che il corpo docente è tenuto a fare è insegnarti a fare il matematico, e allo stesso tempo fare opera di coercizione (a impegnarsi in qualcosa di più serio) sugli ominicchi, i lavativi che, pure iscritti al dipartimento di matematica, fanno esami in facoltà da ritardati per riempire i CFU. A tutt'oggi, il fatto che sulla carta io abbia lo stesso titolo di studio di gente che non ha mai voluto fare matematica nell'unico modo serio, eppure l'ha studiata, ed è poi finita a fare l'assicuratore, a vendere caldaie.
- Tutto ciò per il semplice motivo che la prassi della matematica consiste in una emancipazione dal soggettivo: esiste un modo "giusto" di farla che passa per incorporarsi nella mente-alveare. Si paga un po' di individualità, e ciò che torna indietro è la possibilità di parlare un linguaggio (l'unico che abbia dignità ermeneutica) che è il condensato della più riuscita impresa collettiva di decifrazione del mistero dell'Universo.
- Corollario immediato: esiste un'unica matematica degna di questo nome, che è la matematica pura, ossia la matematica fatta per poter delucidare altra matematica. La distinzione puro applicato esiste, perché esiste un diverso senso della priorità: descrivere il "mondo reale" è un corollario, per nulla volontariamente cercato, di avere descritto un concetto matematico nel modo corretto.
- A dire che esistono solo risposte stupide, non domande, era un fisico. No no: le domande stupide esistono eccome, e dovresti capire come evitare di farne.
- Vedi quanto sei incapace? Vedi quanto sei ignorante? Vedi quanto poco sai nonostante il fatto che stai imparando a parlare un linguaggio sempre più preciso e sempre più affilato man mano che passa il tempo? Svelare il mistero dietro a una definizione, una struttura, un teorema, è svegliarsi da un sogno. Ma tu non ti desterai mai alla veglia, bensì sempre a un sogno anteriore, più profondo dentro il primo, e così un altro e un altro. La cosa a cui ti stai accostando è infinita per estensione e per profondità, non importa quanto decidi di restringerne il fuoco. Limitarla, semplificarla, ridurla è sempre una procedura artificiale, che non è una proprietà di finitezza della disciplina, ma solamente delle risorse intellettive, di chi vi si accosta, della sua ineliminabile natura di essere umano.
- Senza questa ideologia è possibile dichiararsi "matematici" e afferire a una comunità che si dichiara tale. Ma non si "è" dei matematici, perché questa è una carica onorifica che non sorge dalla validazione di un gruppo dei pari, bensì solo dall'acutezza del proprio pensiero. Per esempio si può fare il "matematico applicato"; ma un applicato è solo qualcuno che, appresi dei concetti di base, si è arreso alla inerente difficoltà della disciplina vera, e dovrebbe vergognarsi della sua pochezza e di essersi appropriato di una carica ("matematico") che per evidente costruzione di questa narrativa, appartiene a pochissime persone.

E' evidente che questo modo di fare, esclusionario, fascista, elitario fino all'estremismo, disintegra il carattere, ne fa pastone per maiali. Si finisce per oscillare tra delirio paranoide e di onnipotenza. Il corpo diventa un animale docile a cui elargire calore, cibo, qualche orgasmo, perché non si lamenti troppo dell'essere stato trascurato mentre tu fai l'unica cosa che ha senso, l'unica che esiste, l'unica occupazione che non è una perdita di tempo: annientare tutto ciò che ti rende un essere umano e sostituirlo con qualcosa che ti renda un matematico. E' a tutti gli effetti una quotidiana, implacabile tortura inflitta da te stesso a te stesso, e in quanto tale non fa per tutti; bisogna avere un certo particolare rapporto col dolore per resistere all'urgenza, comprensibilissima, di smettere di soffrire versandosi aceto sulla bruciatura chimica. Del resto, a chi importa? Di certo non a chi è lì per insegnarti, il cui interesse maggiore è, invece, spezzarti. Il tuo corpo non è altro che una sacca di visceri, ossa e muco il cui scopo è fare matematica.

Allo stesso tempo tutto questo (i presupposti della narrativa, il compromesso con la sua inattuabilità, eccetera) è un segreto (IL segreto): non è qualcosa che ti viene rivelato esplicitamente, invece lo leggi tra le righe, lo senti sussurrato nei corridoi da voci senza volto; lo estrai da allusioni fugaci, da frasi dette a mezza bocca (il disprezzo per gli ingegneri, per gli applicati, per i logici; la maestosità di certe idee e il motivo per cui sono maestose; eccetera).

Adesso il vento sta cambiando. L'università è diventata un'azienda il cui scopo è essere contenuta in un bilancio, e in quanto tale deve dare patenti di abilità a quante più persone possibile, tagliando via sulla qualità. Soprattutto, sta contravvenendo al principio di cui sopra, per cui ben più dell'inclusività a tutti i costi è essenziale mantenere la purezza della razza evitando che degenerati di ogni specie [ovviamente non parlo dell'orientamento o dell'identità di genere, quelli sono fantocci identitari che il puritanesimo britannico, o la sua negazione parossistica, usano come metonimia] accedano, senza controllo, al Magnum Opus.
Evidentemente, la chiesa cattolica ha bisogno di Marcinkus così come di Ildegarda. Ben vengano quindi gli economisti che portino ai mistici sufficiente sterco del demonio per fare il loro lavoro.
Ma questa è un'epoca di soli economisti, razionalisti, lacché. Non esiste contrappunto, e la nuova infatuazione collettiva, scimmiottare il linguaggio [riprodurlo, non trascenderlo: che immonda bestemmia] sta diventando più importante.

Il mondo a un certo punto sarà Tlön. Io non me ne curo...[/ot]

lozaio
Forse OT

@megas_archon
Leggevo con interesse la tua risposta, e mi piace la visione che dai della materia.

Mi ha incuriosito questo passaggio
Ha anche un modo particolare di insegnare la matematica, fatto di rituali, di un idioletto tutto particolare che altre università anonime non possiedono, perché non hanno la stessa eredità storica.
ossia? Qualche esempio? Mi ha incuriosito :-D. Come sarebbe insegnata a PD.

hydro1
"megas_archon":

Ma in breve. Perché imporsi una mutilazione volontaria [delle braccia o di una parte di lessico matematico] quando lo strumento che rifiuti di usare [le braccia o la parte di lessico] è utile ed efficiente [perché è più facile imparare a disegnare con le mani, invece che con la bocca]? Almeno, quello senza braccia lo è per incidente o per malattia; per quelli che "noi certe cose non le facciamo", quasi come se si parlasse di una perversa pratica sessuale (idea che però non mi sento di smentire in toto...), è una scelta. Spesso colpevole.


Beh, per esempio ci sono persone (non parlo di me ovviamente) che conoscono bene lo strumento e hanno concluso che ai loro fini non serviva a nulla. E' un'idea piuttosto dogmatica quella secondo cui conoscere le categorie semplifica la vita quanto dipingere con le braccia; la semplifica per fare alcune cose, non ha alcun effetto su altre. Io la paragonerei più al possedere un pennello per un artista: se vuole fare il pittore è quasi essenziale, se vuole fare il regista o lo scultore è completamente irrilevante.

megas_archon
"gugo82":
[quote="megas_archon"]Io lo conosco

Non avevo dubbi. :lol:[/quote] Come ti ho detto, io conosco tutti. E' un amico un po' più giovane di me; adesso sta cercando un postdoc, probabilmente verrà qui da me. Una persona che è diventata piuttosto competente in quel che fa. Mi preoccupa sia più estremista di me sotto certi aspetti, ma imparo volentieri a superare i miei limiti.
Certi dicono che con l'età mi sia rammollito, non voglio accettarlo.

megas_archon
"hydro":
[quote="megas_archon"]

Riguardo a questo:
ci sono matematici purissimi che hanno provato teoremi profondi di matematica purissima senza mai menzionare o utilizzare la teoria delle categorie.
Non è "necessario" avere le braccia per fare il pittore; puoi metterti il pennello in bocca. Però.


Mi rendo conto che sia pesantemente OT ma non posso esimermi dal chiederlo perchè non capisco: qual è il lato matematico di questa analogia?[/quote] Non mi è venuta una analogia migliore nel poco tempo che avevo.

Ma in breve. Perché imporsi una mutilazione volontaria [delle braccia o di una parte di lessico matematico] quando lo strumento che rifiuti di usare [le braccia o la parte di lessico] è utile ed efficiente [perché è più facile imparare a disegnare con le mani, invece che con la bocca]? Almeno, quello senza braccia lo è per incidente o per malattia; per quelli che "noi certe cose non le facciamo", quasi come se si parlasse di una perversa pratica sessuale (idea che però non mi sento di smentire in toto...), è una scelta. Spesso colpevole.

megas_archon
dopotutto, Padova non è così male. Avendo avuto tu esperienza diretta e non mi sembra che la denigri.
La vedo coi suoi pregi e difetti, dopo esserci nato, cresciuto e conoscere per nome tutti gli spaccini dell'Arcella, oltreché le pieghe più segrete di torre archimede.

Diciamo così: è una delle università migliori dove studiare un certo tipo di matematica, ma questo non va a suo merito, quanto semmai a demerito del resto d'Italia. Negli anni, ha certamente cambiato volto -quando adesso torno, non riconosco più nessuno, e loro non riconoscono me. Di quelli che hanno insegnato a me alcuni sono morti, la maggior parte è in pensione; di quelli che ci sono adesso alcuni li conosco di persona, ci ho studiato insieme, o cercava l'ennesimo postdoc mentre io mi laureavo, o è direttamente il mio vicino d'ufficio in uno degli innumerevoli miei. Come diceva Vonnegut "il vero terrore si prova nell'alzarsi una mattina e rendersi conto che la gente con cui andavi a scuola ora governa la nazione".

Ti ci troveresti bene? Non lo so, dipende dal tuo carattere, dalla fortuna, dall'allineamento del giusto corpo docente e dei giusti compagni di classe.

E' una città provinciale, che si è chiusa molto in sé stessa negli anni 2010-2020, e solo adesso si sta riprendendo un po', molto lentamente. Però, resta di incrollabile fede democristiana, diffidente verso gli stranieri e verso i poveri (non la classe media povera, almeno non finché va a messa: intendo diffidente verso gli sfrattati, gli ultimi e i fuori casta). I luoghi di aggregazione non esistono più; l'aria è irrespirabile (intendo proprio: è inquinata da fare schifo). Ha anche un modo particolare di insegnare la matematica, fatto di rituali, di un idioletto tutto particolare che altre università anonime non possiedono, perché non hanno la stessa eredità storica. E' un luogo ingombrante dove crescere e studiare, che dà molto -a chi se lo prende, un po' con la forza.

In questo, secondo me somiglia un po', molto alla lontana, a Pisa, dove non a caso ho molti amici della mia generazione, ed è sempre stato, per il poco che l'ho visitata, un posto dove ho avuto modo di sentirmi a casa nel mio disagio e nelle mie idiosincrasie; ma Pisa ha la vicinanza della Normale ad amplificare tutto, a rendere tutto un po' più metafisico ed estremo (Sciascia diceva: "la Sicilia è Italia due volte"; ecco, qualcosa di simile succede a Pisa secondo me, è difficile spiegare cosa sia a chi non l'ha vissuto).

In sintesi: il codice condiviso del corpo docente è che per fare matematica di livello devi essere un certo tipo di persona, o avere un certo senso della priorità nella vita, o un certo tipo specifico di neurodivergenza. Se ce l'hai, Padova o Pisa, pur in modi diversi, pur con rituali diversi, con mitologie diverse, lo validano e lo fomentano. Ciò porta a fenomeni tipo "ah, sì, lui è [expunged], vive in dipartimento". E significa proprio che il dudo in questione dorme lì stendendosi tra due sedie in un'aula studenti e lo trovi a lavarsi i denti nei bagni alle sette e mezza del mattino. Per quanto sia di livello la formazione matematica che ricevi a Trento, Firenze, Genova eccetera, lì queste cose non succedono. Manca l'opportunità logistica, il buco legislativo, ma questi sono dettagli congiunturali -quello che Trento, Firenze, eccetera non hanno è una attività mitopoietica durata diverse generazioni che costruisce la leggenda del matematico scorrelato dalla dimensione terrena, che vede l'avere un corpo e dei bisogni come una fastidiosa distrazione, e soprattutto che non vuole fare altro che matematica; non socializzare, non curare l'aspetto, non essere agreeable col prossimo: vuole fare matematica, e basta. Queste cose cambiano il carattere e ti rendono un certo tipo di persona, prima, e un certo tipo di matematico, quasi riconoscibile dall'andatura, in un secondo momento.

Se invece questo spirito indomito non ce l'hai, ti viene fatto crescere (per peer pressure o per semplice eredità culturale: "si fa così"), oppure ti viene fatto capire che fare matematica (che è diverso da studiare matematica: ma ti viene anche inculcata l'idea, che io ho fatto mia con bruciante estremismo, che non c'è altro motivo per studiare matematica, se non farla), probabilmente, non ti si addice.

Il senso della lezione, impartita così, è darwiniano: la matematica è una disciplina "onesta", tutte le nozioni sono dischiuse davanti a te, a breve distanza dal tuo braccio, ma non è facile appropriartene, perché non è possibile per il docente sostituirsi al discente nel fare fatica, nel digerire le nozioni, nel "patirle nella carne", come ho amato dire in passato. La fatica fatta per apprendere coincide con l'apprendimento; l'unica maestra è la sofferenza, la frustrazione del non capire per poi, a un certo punto, far breccia. Avere, invece, la risposta pronta, deleterio. Per fare un paragone, l'atletica, la padronanza di uno strumento musicale, o di una lingua, sono imbevute di un simile principio pedagogico.

In sintesi: la matematica come corpo di conoscenze scisso da qualsiasi incarnazione concreta è accessibile a tutti, perché è un insieme oggettivo e relativamente codificato di nozioni che è sufficiente l'impegno e il metodo a organizzare gerarchicamente. Ci sono i libri, studi i libri, fai gli esercizi. Ma una parte consistente del mestiere è frequentare la comunità e acquisirne i codici comunicativi (direi: purtroppo. E' un aspetto del mestiere che a me pesa molto). E una religione è il gruppo dei fedeli e dei sacerdoti, molto più della chiesa che li accoglie, e quindi è inevitabile, per "diventare un matematico" introiettare le idiosincrasie e i tic nervosi, i pregiudizi e le superstizioni, del luogo che ti insegna le nozioni, attraverso quei sacerdoti, non altri. Questo modifica la maniera in cui guardi alle nozioni che impari, la trasfigura. (Esempio: i geometri e gli algebristi ti sconsigliano caldamente di seguire corsi di logica, considerata matematica di second'ordine a causa di chissà quale lite tra professori ormai morti; di meschinità del genere saranno pieni i tuoi anni, e te ne renderai conto solo se ti emancipi dall'ambiente che ti ha educato.)

hydro1
"megas_archon":


Riguardo a questo:
ci sono matematici purissimi che hanno provato teoremi profondi di matematica purissima senza mai menzionare o utilizzare la teoria delle categorie.
Non è "necessario" avere le braccia per fare il pittore; puoi metterti il pennello in bocca. Però.


Mi rendo conto che sia pesantemente OT ma non posso esimermi dal chiederlo perchè non capisco: qual è il lato matematico di questa analogia?

gugo82
"megas_archon":
Io lo conosco

Non avevo dubbi. :lol:

martinet1
Grazie mille per le numerose risposte e pareri molto importanti.

Dovresti impegnarti a trovare quale dimensione ti è accessibile, o più congeniale; dovresti fare, però, anche il contrario di quello che ti è congeniale un giorno alla settimana. Ti piace studiare da solo? Il giovedì fallo in compagnia. Ti piace l'analisi numerica? Il giovedì studia teoria della dimostrazione.
credo sia un ottimo consiglio uscire dalla comfort zone del metodo di studio, ci forza a imparare.

Tra le altre cose,
Per esempio, il primo giorno di lezione di algebra commutativa a unipd
mi sembra anche di poter dedurre che, dopotutto, Padova non è così male. Avendo avuto tu esperienza diretta e non mi sembra che la denigri.
Non avevo letto né bene né male dell'ateneo di Padova online, anche se per me non così scomodo... anzi. Tuttavia trovando Milano ai "vertici" dei commenti tra utenti mi aveva ispirato di più.


L'edificio com'è? Ti piace o ti fa schifo? È adeguato come spazi? Ci sono luoghi sociali e sale studio? O per trovare un posto dove poggiare un libro e studiare devi girare tre ore? La biblioteca ha orari decenti? C'è un posto comodo vicino dove mangiare?
in effetti questo lo avevo considerato secondario come importanza, o meglio: prima valutavo i posti a livello di studio, per poi "visitarli". Anche perché per ora non ne ho visto mezzo :lol:

gabriella127
Vorrei aggiungere a quello che dice megas_archon, che condivido in toto (tranne il pennello in bocca, ma vabbe', siamo nella figura retorica dell'iperbole :D ) delle considerazioni anche terra terra, apparentemente, ma importanti, cioè di considerare anche l'ambiente fisico e le strutture messe disposizione dall'università, cose che influenzano molto anche l'ambiente sociale.
L'edificio com'è? Ti piace o ti fa schifo? È adeguato come spazi? Ci sono luoghi sociali e sale studio? O per trovare un posto dove poggiare un libro e studiare devi girare tre ore? La biblioteca ha orari decenti? C'è un posto comodo vicino dove mangiare?(lo so che sembra prosaico, ma conta). Ce la fai ad arrivare in tempi decenti all'università o devi fare ore in autobus o chilometri a piedi tra le pecore (esempio, Tor Vergata a Roma)?

Forse in molte università questo sembra scontato, ma la mia esperienza è stata tra le università di Napoli e Roma.
A Napoli l'università (allora, ai tempi dei dinosauri) era sul bellissimo lungomare di via Caracciolo, ti potevi fare il bagno di mare e ammirare il golfo e 'o paese d'o sole, ma per il resto una tragedia, non esisteva un posto dove sedersi e c'era una mensa i cui pasti venivano spesso portati all'istituto di merceologia, dove c'erano i chimici che li analizzavano per vedere che non fossero velenosi (sic, non invento). Insomma, una tragedia, ne ho sofferto moltissimo e ostacolava la vita universitaria comune, ti toccava tornare a casa.

Quando andai una volta a Pisa rimasi commossa dal vedere come la biblioteca di scienze e matematica fosse aperta fino alle 11 di sera e nel week-end, a Roma Sapienza dipartimento di matematica il bidello ti cacciava con la scopa alle 19 (e altre biblioteche chiudevano anche prima), e nelle poche sale comuni non c'era mai posto, gli studenti studiavano in posti bizzarri tipo 'la cripta' e la 'sala delle statue' a Lettere, o i 'gabbiotti' di Fisica, se tutto andava bene, dopo aver girovagato per tutta la città universitaria per trovare un posto.

Insomma, se hai la possibilità, vai anche a vedere i luoghi, è la qualità della vita, ci devi vivere.

megas_archon
Farò una lista di cose vere, su cui dovremmo essere tutti d'accordo.

E' utile avere quanto piu supporto possibile nello studiare matematica, specie all'inizio, perché è un processo sconfortante (devi imparare a pensare in un modo in cui non sei abituato).

Questo supporto può venire: dai tuoi colleghi, dagli studenti di materie affini (ci si aiuta molto, tra matematici e fisici, specie quando si divide lo spazio), dai docenti, vuoi a lezione vuoi fuori; può venire anche dallo studio solitario.

Dovresti impegnarti a trovare quale dimensione ti è accessibile, o più congeniale; dovresti fare, però, anche il contrario di quello che ti è congeniale un giorno alla settimana. Ti piace studiare da solo? Il giovedì fallo in compagnia. Ti piace l'analisi numerica? Il giovedì studia teoria della dimostrazione.

E' indubitabile che il posto dove finisci a studiare faccia la differenza nel merito della tua preparazione. Chi ti dice il contrario è in malafede (o peggio, ha idee indiscriminatamente inclusive). Per esempio, il primo giorno di lezione di algebra commutativa a unipd [un corso algant, di cui sospetto ti avranno parlato o ti parleranno presto, dato quel che hai detto che sei nel caro vecchio lombardo-veneto], fu sufficiente a spaventare un tizio gasatissimo che, però, aveva avuto la sfortuna di prendere la laurea... a Ferrara. Mio fratello in Allah, gli dissi io, è la definizione di anello noetheriano. Cosa hai fatto per tre anni!? Finì per andarsene dopo la prima settimana di corsi.

La persona (il matematico) che diventerai è funzione del terreno dove ti trapianterai. Dovresti quindi cercare di fare la cosa che più si avvicina al tuo ideale, con le risorse di cui disponi, nelle condizioni migliori possibili che ti sono date. Allo stesso tempo, se non ci riesci perché sei povero, sfortunato, ti ammali o altro, non dovresti (come purtroppo fanno molti) pensare che è tutto perduto: nel bene e nel male sei il prodotto dell'ambiente che ti alleva -Milano, Padova o Pisa ti daranno molti stimoli per molte cose, ma ti mostreranno anche i loro enormi limiti, la grettezza di certe persone che ci lavorano (anche di quelle che sanno cos'è una categoria :O gosh), e il fatto che tutti gli ambienti sociali, praticamente senza esclusione, sono vittima dei punti ciechi dati dall'avere dei codici di comportamento e comunicazione, in cui la tribù si riconosce e si regala validazione.

Le categorie tienile da parte per un paio d'anni; hanno il pregio di dare autonomia, perché permettono di imparare più in fretta le cose, di chiamarle col loro vero nome, e di non perdere tempo in conti da serva. Se non ne impari il linguaggio sapendo già un po' di matematica, però, potrebbero darti l'impressione di essere inutili (proprio come è "inutile" darti una maniera di riordinare una stanza vuota).

Riguardo a questo:
ci sono matematici purissimi che hanno provato teoremi profondi di matematica purissima senza mai menzionare o utilizzare la teoria delle categorie.
Non è "necessario" avere le braccia per fare il pittore; puoi metterti il pennello in bocca. Però.

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