(meta)teorema di Godel
il risultato di Godel viene comunemente definito "teorema"... non sarebbe più corretto definirlo metateorema, in quanto è un teorema sui teoremi? perdonate la domanda forse un po' sciocca.
Risposte
x mariodic
Condivido tutto quanto scrive nell'ultimo intervento. Dunque sostanzialmente siamo d'accordo sul significato di "verità" in un sistema formale. Ho usato il termine "dimostrabilità" solo per distinguere tale concetto da quello di "verità" di un'affermazione sul mondo fisico. Su di questo verte la differenza tra matematica e fisica che cercavo di esprimere.
Quando parla di "verità assoluta", mi pare di aver capito che Lei intenda un concetto relativo a un sistema astratto, pure "a monte di tutti i sistemi logici coerenti", dunque non concernente proposizioni circa il mondo fisico. Anche se non so se si possa parlare o meno dell'esistenza di una tale verità, la mia opinione è che, appunto, sussiste questa differenza di fondo tra verità astratta, nel senso di dimostrabilità coerente, e verità fisica, come concetto "apparente".
Condivido tutto quanto scrive nell'ultimo intervento. Dunque sostanzialmente siamo d'accordo sul significato di "verità" in un sistema formale. Ho usato il termine "dimostrabilità" solo per distinguere tale concetto da quello di "verità" di un'affermazione sul mondo fisico. Su di questo verte la differenza tra matematica e fisica che cercavo di esprimere.
Quando parla di "verità assoluta", mi pare di aver capito che Lei intenda un concetto relativo a un sistema astratto, pure "a monte di tutti i sistemi logici coerenti", dunque non concernente proposizioni circa il mondo fisico. Anche se non so se si possa parlare o meno dell'esistenza di una tale verità, la mia opinione è che, appunto, sussiste questa differenza di fondo tra verità astratta, nel senso di dimostrabilità coerente, e verità fisica, come concetto "apparente".
x Elijah82
Nel mio precedente intervento ho detto che per "verità" devesi intendere "assenza di contraddizione logica". Quando si sceglie un postulato lo si fa in modo che esso sia il più semplice possibile, cioè che si auto-definisce in se stesso ovvero che la sua definizione implica la sua conoscenza riducendo al minimo il rischio di contraddizioni. Ora la conoscenza presenta svariatissime apparenza (vedasi il mio ultimo intervento al riguardo, in questo forum, sotto il tema "Il problema della coscenza"), citavo, per esempio, apparenze come l'amore, il senso della coralità, l'estasi, la riuscita dimostrazione di un teorema difficile, la sicurezza del possesso, ecc.; tali apparenze hanno in comune una cosa importantissima: una intima sensazione di soddisfazione o godimento da parte dell'Osservatore che ha conseguito un "guadagno" in termini di conoscenza. Questa sensazione conferisce un senso di sicurezza che chiude, diciamo così, la partita del conseguimento di un obiettivo di conoscenza. Quando Euclide (o chi per lui) definì l'oggetto geometrico di "punto", ebbe certamente la sensazione di aver raggiunto l'elemento logico minimo, il più semplice, il mattone minimo della costruzione del suo sistema geometrico; forse oggi potrebbe non essere più l'elemento più semplice della costruzione euclidea perchè la elaborazione di nuove proprietà fisico-matematiche dello spazio potrebbe collocare, a monte del punto, elementi ancora più semplici, ma non è di questo che voglio parlare. Ciò che qui mi preme è il far luce sulla relazione tra verità e assenza di contraddizioni e tra verità e conoscenza. Un teorema è "vero" se il suo percorso dimostrativo non contraddica, il qualche punto, verità gia acquisite, se ciò avvenisse un largo insieme di "verità" acquisite perderebbero il diritto di definirsi tali fino a ricostituzione di un nuovo sistema coerente. In parole diverse, la verità è relativa nell'ambito di un sistema pro-tempore, non di meno ciò non esclude una verità assoluta, cioè una verità limite -a monte di tutti i sistemi logici coerenti- costituente l'origine assoluta di un sistema di costruzione dello "spazio" della conoscenza.
L'altro punto da te trattato in quest'ultimo tuo intervento è quello della rappresentazione. La rappresentazione è la associazione arbitraria di due oggetti in modo che il secondo rappresenti il primo talchè le manipolaziomi logiche applicate al secondo abbiano a valere, con sufficiente approssimazione, come se fossero applicate direttamente al primo. Lo scopo di questa rappresentazione è ovviamente di sostituire un oggetto complesso con un'oggetto molto più semplice e perciò molto più maneggevole. L'oggetto "più semplice" è al limite un oggetto puramente logico, quindi, un'astrazione matematica o geometrica, l'oggetto rappresentato potrebbe invece essere molto complesso. Un sasso in movimento potrebbe essere rappresentato da un punto geometrico in movimento, il baricentro del sasso, chiudendo un occhio sul fatto che il movimento dell'intero sasso non protrebbe essere interamente riassunto nella traiettoria del suo baricentro. In pratica ho così sostituito, la fisica da applicare ad un oggetto logico complessissimo, il sasso (= oggetto da me solo approssimativamente conosciuto), con la fisica applicata all'oggetto logico semplice (= da me massimamente conosciuto); detto "punto", ho così potuto manipolare il punto secondo le semplici equazioni della dinamica applicabili alla traiettoria di un punto geometrico.
mario1
Nel mio precedente intervento ho detto che per "verità" devesi intendere "assenza di contraddizione logica". Quando si sceglie un postulato lo si fa in modo che esso sia il più semplice possibile, cioè che si auto-definisce in se stesso ovvero che la sua definizione implica la sua conoscenza riducendo al minimo il rischio di contraddizioni. Ora la conoscenza presenta svariatissime apparenza (vedasi il mio ultimo intervento al riguardo, in questo forum, sotto il tema "Il problema della coscenza"), citavo, per esempio, apparenze come l'amore, il senso della coralità, l'estasi, la riuscita dimostrazione di un teorema difficile, la sicurezza del possesso, ecc.; tali apparenze hanno in comune una cosa importantissima: una intima sensazione di soddisfazione o godimento da parte dell'Osservatore che ha conseguito un "guadagno" in termini di conoscenza. Questa sensazione conferisce un senso di sicurezza che chiude, diciamo così, la partita del conseguimento di un obiettivo di conoscenza. Quando Euclide (o chi per lui) definì l'oggetto geometrico di "punto", ebbe certamente la sensazione di aver raggiunto l'elemento logico minimo, il più semplice, il mattone minimo della costruzione del suo sistema geometrico; forse oggi potrebbe non essere più l'elemento più semplice della costruzione euclidea perchè la elaborazione di nuove proprietà fisico-matematiche dello spazio potrebbe collocare, a monte del punto, elementi ancora più semplici, ma non è di questo che voglio parlare. Ciò che qui mi preme è il far luce sulla relazione tra verità e assenza di contraddizioni e tra verità e conoscenza. Un teorema è "vero" se il suo percorso dimostrativo non contraddica, il qualche punto, verità gia acquisite, se ciò avvenisse un largo insieme di "verità" acquisite perderebbero il diritto di definirsi tali fino a ricostituzione di un nuovo sistema coerente. In parole diverse, la verità è relativa nell'ambito di un sistema pro-tempore, non di meno ciò non esclude una verità assoluta, cioè una verità limite -a monte di tutti i sistemi logici coerenti- costituente l'origine assoluta di un sistema di costruzione dello "spazio" della conoscenza.
L'altro punto da te trattato in quest'ultimo tuo intervento è quello della rappresentazione. La rappresentazione è la associazione arbitraria di due oggetti in modo che il secondo rappresenti il primo talchè le manipolaziomi logiche applicate al secondo abbiano a valere, con sufficiente approssimazione, come se fossero applicate direttamente al primo. Lo scopo di questa rappresentazione è ovviamente di sostituire un oggetto complesso con un'oggetto molto più semplice e perciò molto più maneggevole. L'oggetto "più semplice" è al limite un oggetto puramente logico, quindi, un'astrazione matematica o geometrica, l'oggetto rappresentato potrebbe invece essere molto complesso. Un sasso in movimento potrebbe essere rappresentato da un punto geometrico in movimento, il baricentro del sasso, chiudendo un occhio sul fatto che il movimento dell'intero sasso non protrebbe essere interamente riassunto nella traiettoria del suo baricentro. In pratica ho così sostituito, la fisica da applicare ad un oggetto logico complessissimo, il sasso (= oggetto da me solo approssimativamente conosciuto), con la fisica applicata all'oggetto logico semplice (= da me massimamente conosciuto); detto "punto", ho così potuto manipolare il punto secondo le semplici equazioni della dinamica applicabili alla traiettoria di un punto geometrico.
mario1
Nel mio ragionamento ho cercato di distinguere tra verità e dimostrabilità. Certamente i postulati sono scelti per "sensazione" dell'osservatore. Ma cosa significa che sono ritenuti veri? Certamente non che sono dimostrabili. Ma allora, che senso ha parlare di verità circa un sistema formale? La retta, come astrazione, non è un concetto fisico. Mentre ha teoricamente senso dire che "è vero che nello spazio in cui viviamo esiste solo una parallela a una retta data passante per un punto", anche se ciò non significa che la proposizione sia vera, in che senso parliamo di verità di un tale postulato in geometria?
A me pare che la matematica e la logica siano solo rappresentazioni, alla stregua di proiezioni ortogonali di una realtà molto più complessa. E come sappiamo, a una stessa proiezione possono corrispondere oggetti differenti.
A me pare che la matematica e la logica siano solo rappresentazioni, alla stregua di proiezioni ortogonali di una realtà molto più complessa. E come sappiamo, a una stessa proiezione possono corrispondere oggetti differenti.
Rispondo, per ora, brevemente, così spero, al messaggio di Elijah82 del 22/4; precisamento mi soffermo su quanto ribadito in apertura di esso quando si dice che una cosa è la dimostrabilità e altra è la verità. Sono d'accordo. Voglio solo aggiungere che per l'Osservatore la verità di una proposizione, ma anche di un'osservazione (misurazione, esperimento, ecc, anche della vita quotidiana) non è che un altro modo di esprimere la "non contraddittorietà". La dimostrabilità è, diciamo così, un percorso operativo che, se praticabile, conduce via via alla dimostrazione di una catena di proposizioni l'ultima delle quali è, o potrebbe essere, quella di cui si cerca la verità o la negazione. Se nonchè il percorso dimostrativo è stato necessariamente ancorato a postulati ritenuti "veri" per sensazione dell'Osservatore e come tali definiti. Il principio di base che sempre ha guidato la scelta dei postulati è stato l'"evidenza", almeno così è stato chiamato; tuttavia, con uno sforzo di razionalizzazione di questa sensazione di "evidenza" se ne scopre la vera natura: la incapacità di definire l'oggetto chiamato "postulato" mediante un processo operativo poggiato su altri postulati diversi da quello che si vorrebbe definire. Insomma il postulato somiglierebbe ad un numero primo che assieme ad altri si possono costruire tutti gli altri numeri (proposizioni), ma questo numero primo è l'unico che giustifica se stesso. I postulati sono, dunque, massimamente "conosciuti" (sull'argomento della conoscenza mi sto intrattenendo in altra parte di questo forum); questa estrema punta di conoscenza conferisce al postulato la caratteristica di "punto" nello spazio della conoscenza, analogamente al ruolo del punto geometrico nello spazio euclideo.
mario1
mario1
X Elijah82
Solo ora ho letto il tuo commento del 22/4 (ore 18+minuti). E' appena il caso di dire che il suo tenore è pregnante e meritevole di tutta la mia attenzione. Data l'ora (01.30 del 27/4) non ho il tempo necessario per riflettere intorno al suo contennuto; mi riservo però di dare una risposta al più presto possibile.
Grazie
mario1
Solo ora ho letto il tuo commento del 22/4 (ore 18+minuti). E' appena il caso di dire che il suo tenore è pregnante e meritevole di tutta la mia attenzione. Data l'ora (01.30 del 27/4) non ho il tempo necessario per riflettere intorno al suo contennuto; mi riservo però di dare una risposta al più presto possibile.
Grazie
mario1
Bentornato, mariodic, spero che tutto sia andato per il meglio.
Provo a dare una mia opinione riguardo a quest'ultimo intervento. Come ha detto giustamente wedge, esiste una differenza tra "dimostrabilità" e "verità". Direi che il concetto di verità è sempre relativo a un osservatore cosciente, per usare questo termine, in quanto implica necessariamente un giudizio cosciente, mentre il concetto di dimostrabilità è, per così dire, statico, puramente logico, e dunque indipendente da un osservatore. Dato un insieme di simboli e di proprietà assiomatiche degli stessi, e presa una formula A scritta su un foglio di carta possono darsi i seguenti casi:
1) la formula A può essere dimostrata;
2) la formula not(A) può essere dimostrata;
3) non può esistere una dimostrazione di A né di not(A).
Questa triplice alternativa è caratteristica di un sistema formale, come la matematica. Le formule matematiche sono un insieme numerabile, pertanto potrebbero, in linea di principio, essere enumerate da un computer, ed eventualmente dimostrate tutte, in quanto anche le dimostrazioni possibili sono formule matematiche, dunque enumerabili. La natura degli enti matematici è puramente astratta: se l'osservatore fosse un cervello sospeso nel nulla, privo di qualsivoglia contatto col mondo esterno (e quindi incapace di osservare), non potrebbe attribuire alcuna interpretazione ai termini in questione, quali un numero, o al concetto di retta o di integrale, perché non avrebbe esperienze a cui associarlo. Noto che il processo di associazione è un processo esclusivamente euristico, in quanto non riscontriamo mai che una data entità sensibile è un ente matematico, ma che esiste una qualche sorta di analogia tra le due. Ciononostante, il nostro povero "osservatore" mutilato potrebbe benissimo, dimostrare (mentalmente) le formule matematiche seguendo solo le regole assegnate; in particolare potrebbe riconoscere, data una formula, quale dei casi 1) 2) 3) si verifica.
Questa "scelta" è una scelta algoritmica, che non richiede un processo interpretativo "dinamico". Ma è chiaro che essa non ha nulla a che vedere con il concetto di verità. Pensate a questo triste cervello, chiuso nel buio silenzioso di un mondo senza sensazioni. Una dimostrazione non è per lui che sequenza (mentale) di simboli che termina con una data sottosequenza. Quando invece noi parliamo del concetto di verità, è perché associamo a una proposizione un significato analogo quello che associamo a una proposizione circa il mondo fisico. Che senso avrebbe infatti dire che una sequenza di simboli è vera? Questo dipende solo da un'interpretazione.
Diversamente, ad una affermazione che non riguardi un sistema formale non si applica la casistica 1) 2) 3), in quanto non sono definiti i termini del linguaggio. Quando parliamo di "automobile", di "possedere", di "mesi", e soprattutto di "io", utilizziamo termini che hanno un senso euristico che (quasi) tutti noi siamo in grado di comprendere, ma di cui non è possibile dare una definizione formale. Al limite, dovremmo parlare di "possesso", pensando al fatto che sul certificato di proprietà dell'autovettura è scritto il nostro nome, riferendoci alla configurazione fisica della materia costituente il certificato di proprietà, ma è immediato che ci scontreremmo con l'ambiguità di una tale definizione (credo sia sufficiente pensare ad Heisenberg). Ma poiché non abbiamo la possibilità di parlare di dimostrabilità, non ci resta che utilizzare il concetto di "verità", che è un concetto interpretativo, euristico. In questo è la differenza tra le proposizioni di un linguaggio formale e quelle di un qualsiasi altro tipo. A mio avviso rimane una differenza netta tra matematica e fisica.
Provo a dare una mia opinione riguardo a quest'ultimo intervento. Come ha detto giustamente wedge, esiste una differenza tra "dimostrabilità" e "verità". Direi che il concetto di verità è sempre relativo a un osservatore cosciente, per usare questo termine, in quanto implica necessariamente un giudizio cosciente, mentre il concetto di dimostrabilità è, per così dire, statico, puramente logico, e dunque indipendente da un osservatore. Dato un insieme di simboli e di proprietà assiomatiche degli stessi, e presa una formula A scritta su un foglio di carta possono darsi i seguenti casi:
1) la formula A può essere dimostrata;
2) la formula not(A) può essere dimostrata;
3) non può esistere una dimostrazione di A né di not(A).
Questa triplice alternativa è caratteristica di un sistema formale, come la matematica. Le formule matematiche sono un insieme numerabile, pertanto potrebbero, in linea di principio, essere enumerate da un computer, ed eventualmente dimostrate tutte, in quanto anche le dimostrazioni possibili sono formule matematiche, dunque enumerabili. La natura degli enti matematici è puramente astratta: se l'osservatore fosse un cervello sospeso nel nulla, privo di qualsivoglia contatto col mondo esterno (e quindi incapace di osservare), non potrebbe attribuire alcuna interpretazione ai termini in questione, quali un numero, o al concetto di retta o di integrale, perché non avrebbe esperienze a cui associarlo. Noto che il processo di associazione è un processo esclusivamente euristico, in quanto non riscontriamo mai che una data entità sensibile è un ente matematico, ma che esiste una qualche sorta di analogia tra le due. Ciononostante, il nostro povero "osservatore" mutilato potrebbe benissimo, dimostrare (mentalmente) le formule matematiche seguendo solo le regole assegnate; in particolare potrebbe riconoscere, data una formula, quale dei casi 1) 2) 3) si verifica.
Questa "scelta" è una scelta algoritmica, che non richiede un processo interpretativo "dinamico". Ma è chiaro che essa non ha nulla a che vedere con il concetto di verità. Pensate a questo triste cervello, chiuso nel buio silenzioso di un mondo senza sensazioni. Una dimostrazione non è per lui che sequenza (mentale) di simboli che termina con una data sottosequenza. Quando invece noi parliamo del concetto di verità, è perché associamo a una proposizione un significato analogo quello che associamo a una proposizione circa il mondo fisico. Che senso avrebbe infatti dire che una sequenza di simboli è vera? Questo dipende solo da un'interpretazione.
Diversamente, ad una affermazione che non riguardi un sistema formale non si applica la casistica 1) 2) 3), in quanto non sono definiti i termini del linguaggio. Quando parliamo di "automobile", di "possedere", di "mesi", e soprattutto di "io", utilizziamo termini che hanno un senso euristico che (quasi) tutti noi siamo in grado di comprendere, ma di cui non è possibile dare una definizione formale. Al limite, dovremmo parlare di "possesso", pensando al fatto che sul certificato di proprietà dell'autovettura è scritto il nostro nome, riferendoci alla configurazione fisica della materia costituente il certificato di proprietà, ma è immediato che ci scontreremmo con l'ambiguità di una tale definizione (credo sia sufficiente pensare ad Heisenberg). Ma poiché non abbiamo la possibilità di parlare di dimostrabilità, non ci resta che utilizzare il concetto di "verità", che è un concetto interpretativo, euristico. In questo è la differenza tra le proposizioni di un linguaggio formale e quelle di un qualsiasi altro tipo. A mio avviso rimane una differenza netta tra matematica e fisica.
mi riferisco ad alcuni un interventi che, mi sembrano, abbiano colto megli di altri il senso dell’argomentazione variamente ispirate dal Teorema di Godel, una di queste è proprio na delle mie dove mi piace sostenere che tra matematica e fisica non c'è differenza qualitativa ma quantitativa; mi è piaciuto leggere un intervento di qualcuno che chi mi ha seguito e che ha sintetizzato la cosa come isoformismo di fondo tra il lavoro del matematico e quello del fisico.
Chi ha compreso il senso profondo della prova di Godel non può che abbandonare, prima o poi, l’ingenuo convincimento che il lavoro del fisico sia cosa qualitativamente diversa da quella del matematico; se differenza c’è, come in effetti c’è, si tratta di differenza esprimibile, come vedremo, in termini quantitativi.
Per dar ragione di questa “quantità” ricorro ad un solito e familiare esempio: supponiamo che “IO” l’Osservatore dica a me stesso “entro sei mesi al massimo, con la probabilità del 90%, avrò una nuova automobile”; orbene, il valore di probabilità del 90% denuncia la quasi certezza dell’evento da “IO” auspicata, e questa “quasi” certezza non è che la sintesi olistica di tutta una storia che l’attore fondamentale “IO” ha modellato e “inciso” sul grande supporto costituito dall’intero universo, che poi è niente meno che il “corpo esteso” e generalizzato dell’Osservatore stesso:l’Osservatore Universale.
E’ potenzialmente possibile che l’Osservatore, cioè “IO”, impegni ulteriori risorse per fa sì che quel 90% si accresca, ma mai più può sperare di raggiungere la certezza assoluta di quell’evento “futuro”, infatti il sistema aleatorio descritto, essendo costruito con la finalità di “osservare” e favorire un evento futuro del mondo fisico, è, per questo, inevitabilmente aperto al possibile suo fallimento anche nell’ipotesi impossibile di ulteriori sforzi infinitamente intensi.
E’ chiaro che quel valore quantitativo del 90% è un valore di probabilità che sintetizza lo stato “Conoscitivo” dell’Osservatore “IO”. Una funzione decrescente, monotona arbitraria di questa probabilità “p = 0.9” può essere interpretata come una “distanza” che separa l’evento “automobile nuova entro sei mesi” dall’origine di una coordinata dello spazio della conoscenza; tale origine è da porsi necessariamente nella “singolarità IO”. Per inciso, un esempio di tale funzione può essere: (1-p)/p ma potrebbe anche essere –k*ln (p).
Qui termino la prima parte dell’intervento.
Grazie per l’attenzione.
Riprendo con la seconda parte della mia risposta.
Dicevo che la differenza tra il lavoro di un fisico e quello di un matematico non è qualitativa ma quantitativa. Nel precedente mezzo intervento ho fornito un criterio di misura (una specie di “distanza” nella metrica dello “spazio” della conoscenza, precisamente la coordinata della probabilità, cha ha origine nel punto della singolarità rappresentata dall’essenza ultima dell’Osservatore Universale) riguardante un evento del mondo fisico ma trasposto nello “spazio” del sistema di conoscenza dell’“IO”, cioè dell’Osservatore Universale, la natura del quale andrebbe definita nei termini fisico-matematici come appunto la sua duplice matura richiede; questo farò non ora, per ovvi motivi di spazio e di tempo.
Ora supponiamo che “IO” pensi ad un evento non fisico ma classicamente matematico, precisamente alla proprietà presunta che ogni numero pari sia costruibile come somma di due numeri primi, appunto la congettura di Goldbach. Sono in grado o c’è qualcosa che mi vieti di stimare un valore probabilità, cioè un mio livello di credenza, diciamo, del 99,999% che la congettura sia praticamente vera e del 65% che verrà effettivamente dimostrata entro un termine finito ma illimitato di tempo, profondendovi, è ovvio, adeguate risorse di impegno? Certamente niente mi vieta questo. Qui però sono state espresse due misure di probabilità: la prima rappresenta la fiducia nella verità pratica della congettura, sulla quale potrei fare, ove vestissi l'abito del fisico, pieno affidamento per qualsiasi utilizzazione pratica nell’esercizio del mio lavoro, anche senza l’avvento di una dimostrazione. Nel mondo fisico, per inciso, le due probabilità si fondono in una. Orbene, se la matematica non avesse la stessa forma della fisica, come si è sempre fortemente creduto (e molti ancora credono), allora la prima stima di probabilità sarebbe stata lecita mentre la seconda non avrebbe avuto senso poiché il sistema matematico è sempre stato ritenuto chiuso e quindi una dimostrazione di validità o di non validità di un teorema, prima o dopo, verrebbe fuori. Ma Godel prova, niente meno, che
a) nulla ci garantisce che gli assiomi di un sistema siano sufficienti per decidere su certe proposizioni, il ché significa che non solo non esiste modo di sapere se un sistema è chiuso o no ma che...
b) non esistono affatto sistemi assolutamente chiusi, e qui aggiungo: in presenza dell’Osservatore; mentre in assenza di questi la questione sarebbe priva di senso in quanto, evidentemente, non esisterebbero né mondi, né sistemi, né universo da osservare. Allora, concludo, c’è isoformismo, come qualcuno ha ben detto e che ringrazio, tra fisica e matematica
mario1
Chi ha compreso il senso profondo della prova di Godel non può che abbandonare, prima o poi, l’ingenuo convincimento che il lavoro del fisico sia cosa qualitativamente diversa da quella del matematico; se differenza c’è, come in effetti c’è, si tratta di differenza esprimibile, come vedremo, in termini quantitativi.
Per dar ragione di questa “quantità” ricorro ad un solito e familiare esempio: supponiamo che “IO” l’Osservatore dica a me stesso “entro sei mesi al massimo, con la probabilità del 90%, avrò una nuova automobile”; orbene, il valore di probabilità del 90% denuncia la quasi certezza dell’evento da “IO” auspicata, e questa “quasi” certezza non è che la sintesi olistica di tutta una storia che l’attore fondamentale “IO” ha modellato e “inciso” sul grande supporto costituito dall’intero universo, che poi è niente meno che il “corpo esteso” e generalizzato dell’Osservatore stesso:l’Osservatore Universale.
E’ potenzialmente possibile che l’Osservatore, cioè “IO”, impegni ulteriori risorse per fa sì che quel 90% si accresca, ma mai più può sperare di raggiungere la certezza assoluta di quell’evento “futuro”, infatti il sistema aleatorio descritto, essendo costruito con la finalità di “osservare” e favorire un evento futuro del mondo fisico, è, per questo, inevitabilmente aperto al possibile suo fallimento anche nell’ipotesi impossibile di ulteriori sforzi infinitamente intensi.
E’ chiaro che quel valore quantitativo del 90% è un valore di probabilità che sintetizza lo stato “Conoscitivo” dell’Osservatore “IO”. Una funzione decrescente, monotona arbitraria di questa probabilità “p = 0.9” può essere interpretata come una “distanza” che separa l’evento “automobile nuova entro sei mesi” dall’origine di una coordinata dello spazio della conoscenza; tale origine è da porsi necessariamente nella “singolarità IO”. Per inciso, un esempio di tale funzione può essere: (1-p)/p ma potrebbe anche essere –k*ln (p).
Qui termino la prima parte dell’intervento.
Grazie per l’attenzione.
Riprendo con la seconda parte della mia risposta.
Dicevo che la differenza tra il lavoro di un fisico e quello di un matematico non è qualitativa ma quantitativa. Nel precedente mezzo intervento ho fornito un criterio di misura (una specie di “distanza” nella metrica dello “spazio” della conoscenza, precisamente la coordinata della probabilità, cha ha origine nel punto della singolarità rappresentata dall’essenza ultima dell’Osservatore Universale) riguardante un evento del mondo fisico ma trasposto nello “spazio” del sistema di conoscenza dell’“IO”, cioè dell’Osservatore Universale, la natura del quale andrebbe definita nei termini fisico-matematici come appunto la sua duplice matura richiede; questo farò non ora, per ovvi motivi di spazio e di tempo.
Ora supponiamo che “IO” pensi ad un evento non fisico ma classicamente matematico, precisamente alla proprietà presunta che ogni numero pari sia costruibile come somma di due numeri primi, appunto la congettura di Goldbach. Sono in grado o c’è qualcosa che mi vieti di stimare un valore probabilità, cioè un mio livello di credenza, diciamo, del 99,999% che la congettura sia praticamente vera e del 65% che verrà effettivamente dimostrata entro un termine finito ma illimitato di tempo, profondendovi, è ovvio, adeguate risorse di impegno? Certamente niente mi vieta questo. Qui però sono state espresse due misure di probabilità: la prima rappresenta la fiducia nella verità pratica della congettura, sulla quale potrei fare, ove vestissi l'abito del fisico, pieno affidamento per qualsiasi utilizzazione pratica nell’esercizio del mio lavoro, anche senza l’avvento di una dimostrazione. Nel mondo fisico, per inciso, le due probabilità si fondono in una. Orbene, se la matematica non avesse la stessa forma della fisica, come si è sempre fortemente creduto (e molti ancora credono), allora la prima stima di probabilità sarebbe stata lecita mentre la seconda non avrebbe avuto senso poiché il sistema matematico è sempre stato ritenuto chiuso e quindi una dimostrazione di validità o di non validità di un teorema, prima o dopo, verrebbe fuori. Ma Godel prova, niente meno, che
a) nulla ci garantisce che gli assiomi di un sistema siano sufficienti per decidere su certe proposizioni, il ché significa che non solo non esiste modo di sapere se un sistema è chiuso o no ma che...
b) non esistono affatto sistemi assolutamente chiusi, e qui aggiungo: in presenza dell’Osservatore; mentre in assenza di questi la questione sarebbe priva di senso in quanto, evidentemente, non esisterebbero né mondi, né sistemi, né universo da osservare. Allora, concludo, c’è isoformismo, come qualcuno ha ben detto e che ringrazio, tra fisica e matematica
mario1
Quello che tu spieghi è esattamente quello che credo di aver capito dal libro, e che cercavo a mia volta di spiegare. In parte mi ha tradito il fatto che ho letto il libro al liceo, circa 5 anni fa, quindi non ricordo bene tutto. Comunque a me sembrava evidente che, con un minimo d'attenzione, si potesse distinguere fra i concetti di "verità" e "dimostrabilità" nel senso di "decidibilità" di una proposizione. E credo che Penrose voglia dire (e mi sembra che lo presenti come un risultato precedente trovato da qualcun altro piuttosto che come suo) che aggiungendo le proposizioni indecidibili del linguaggio (una, ma immagino che sia lo stesso se vengono aggiunte tutte) agli assiomi si ottiene un nuovo linguaggio, che avrà a sua volta le sue proposizioni indecidibili (ma sempre vere) e così via. E' qui che io mi domandavo (ma credo che la mia considerazione non sia che una banalità conseguente da quanto si legge sul libro, posto che io l'abbia ben capito) se, dimostrando che una proposizione è del tipo di Godel, non stiamo di fatto dimostrando la sua "verità semantica", e paradossalmente usando come strumento dimostrativo il teorema dell'indecidibilità! Cito il libro:
"[...] usando la nostra percezione istintiva del significato delle operazioni in questione, possiamo vedere chiaramente che una specifica proposizione di Godel - né dimostrabile né indimostrabile usando gli assiomi e le regole del sistema formale in questione - è una proposizione vera!"
Quanto ad esempi di proposizioni vere ma indecidibili, sono chiaramente macchinosi da formulare (e raramente di qualche utilità), però sul libro ce n'è uno, riportato in una nota:
"Nel seguito le lettere minuscole rappresentano numeri naturali e le lettere maiuscole stanno per insiemi finiti di numeri naturali. Poniamo che m -> [n,k,r] stia per l'enunciato <> Qui "grande" significa che Y ha più elementi del numero naturale che è il più piccolo elementi di Y. Consideriamo la proposizione: < m0 l'enunciato m -> [n,k,r] sia sempre vero>>. J. Paris e L. Harrington (1977) hanno mostrato che questa proposizione è equivalente a una proposizione del tipo di Godel per gli assiomi standard (di Peano) per l'aritmetica, indimostrabile a partire da tali assiomi, la quale afferma nondimeno qualcosa su tali assiomi che è "ovviamente vero" (ossia, in questo caso, che le proposizioni deducibili dagli assiomi sono vere).
Scusatemi se ci sono errori di battitura, ma ho scritto guardando il libro e non la tastiera!
"[...] usando la nostra percezione istintiva del significato delle operazioni in questione, possiamo vedere chiaramente che una specifica proposizione di Godel - né dimostrabile né indimostrabile usando gli assiomi e le regole del sistema formale in questione - è una proposizione vera!"
Quanto ad esempi di proposizioni vere ma indecidibili, sono chiaramente macchinosi da formulare (e raramente di qualche utilità), però sul libro ce n'è uno, riportato in una nota:
"Nel seguito le lettere minuscole rappresentano numeri naturali e le lettere maiuscole stanno per insiemi finiti di numeri naturali. Poniamo che m -> [n,k,r] stia per l'enunciato <
Scusatemi se ci sono errori di battitura, ma ho scritto guardando il libro e non la tastiera!

ciao ragazzi, sono tornato dopo una lunga assenza... la vostra discussione mi ha interressato molto, domani compro il libro di Penrose.
credo che la questione possa essere così riassunta (corregetemi se sbaglio!)
di ogni proposizione possiamo definire due "criteri di verità":
_una proposizione è sintatticamente vera (dimostrabile) se in un numero finito di passaggi è ottenibile a partire dagli assiomi utilizzando le regole di costruzione
_una proposizione è semanticamente vera se rappresenta una proprietà che gli elementi del modello in considerazione verificano.
ingenuamentente si sarebbe portati a pensare che le due cose sono corrispondenti
esempio 1: (per ogni x)(per ogni y): (Sx+Sy)=SS(x+y)
S significa "successore di" secondo il linguaggio di Peano
tale proposizione è infatti facilmente ottenibile a partire dall'assioma 3 di Peano [(per ogni x)(per ogni y): (x+Sy)=S(x+y)]
e in effetti in N tale proposizione è verificata
esempio 2: (per ogni x): (x=Sx)
tale proposizione non è ottenibile dagli assiomi (anzi è contraddetta dall'assioma 2) e tantomeno non rappresenta una proprietà vera per i numeri appartenenti ad N.
con Godel il giochino si rompe. esiste una classe di proposizioni vere ma non dimostrabili all'interno di ogni sistema.
il dubbio che avevo in origine è: la proposizione G di Godel (quella che viene "tradotta" come "questa proposizione non è dimostrabile") appartiene o no alla "teoria di primo ordine" (aritmetica di Peano)? mi chiedo questo perchè (per la formulazione del teorema mi baso al momento su La Prova di Godel di Nagel-Newmann) essa è costruita con un linguaggio che non appartiene affatto a PA... appunto sfrutta un metalinguaggio e l'isomorfismo tra l'aritmetica e il linguaggio logico (mi riferisco alla godelizzazione). dunque, per rendere il sistema "più potente" agli assiomi non andrebbe affatto aggiunta la proposizione G ma le singole proposizioni indecidibili all'interno di PA, è esatto?
mi chiedo inoltre da dove si ottengono tali proposizioni indecidibili. personalmente conosco solo il Teorema di Goodstein... (http://www.maths.bris.ac.uk/~maadb/rese ... ine/fgfut/)
credo che la questione possa essere così riassunta (corregetemi se sbaglio!)
di ogni proposizione possiamo definire due "criteri di verità":
_una proposizione è sintatticamente vera (dimostrabile) se in un numero finito di passaggi è ottenibile a partire dagli assiomi utilizzando le regole di costruzione
_una proposizione è semanticamente vera se rappresenta una proprietà che gli elementi del modello in considerazione verificano.
ingenuamentente si sarebbe portati a pensare che le due cose sono corrispondenti
esempio 1: (per ogni x)(per ogni y): (Sx+Sy)=SS(x+y)
S significa "successore di" secondo il linguaggio di Peano
tale proposizione è infatti facilmente ottenibile a partire dall'assioma 3 di Peano [(per ogni x)(per ogni y): (x+Sy)=S(x+y)]
e in effetti in N tale proposizione è verificata
esempio 2: (per ogni x): (x=Sx)
tale proposizione non è ottenibile dagli assiomi (anzi è contraddetta dall'assioma 2) e tantomeno non rappresenta una proprietà vera per i numeri appartenenti ad N.
con Godel il giochino si rompe. esiste una classe di proposizioni vere ma non dimostrabili all'interno di ogni sistema.
il dubbio che avevo in origine è: la proposizione G di Godel (quella che viene "tradotta" come "questa proposizione non è dimostrabile") appartiene o no alla "teoria di primo ordine" (aritmetica di Peano)? mi chiedo questo perchè (per la formulazione del teorema mi baso al momento su La Prova di Godel di Nagel-Newmann) essa è costruita con un linguaggio che non appartiene affatto a PA... appunto sfrutta un metalinguaggio e l'isomorfismo tra l'aritmetica e il linguaggio logico (mi riferisco alla godelizzazione). dunque, per rendere il sistema "più potente" agli assiomi non andrebbe affatto aggiunta la proposizione G ma le singole proposizioni indecidibili all'interno di PA, è esatto?
mi chiedo inoltre da dove si ottengono tali proposizioni indecidibili. personalmente conosco solo il Teorema di Goodstein... (http://www.maths.bris.ac.uk/~maadb/rese ... ine/fgfut/)
La cosa migliore da fare sarebbe leggere le pagine cui mi riferisco, che evidentemente non sono in grado di riassumere bene. Chiaramente non mi va di starle a ricopiare, ci vorrebbe un po'. Comunque il libro si dovrebbe trovare facilmente in giro, ed è anche molto interessante. Poi quel paragrafo si può leggere anche senza aver letto il resto, è a sé stante.
probabilmente sono io ke nn capisco ciò ke intendi dire. aspetto ke passi qualcuno ke sappia illuminarmi rispetto ciò ke dici riguardo questo argomento.
una proposizione è vera quando è vera; è dimostrabile quando ne esiste una dimostrazione. c'è una profonda differenza. una proposizione indimostrabile è, ad esempio, un assioma. la proposizione "io sono un bugiardo" non è né vera né falsa, perché in entrambi i casi si avrebbe contraddizione. si può costruire (e sul libro c'è un esempio non troppo complicato) una frase dall'evidente contenuto di verità, di cui all'interno del sistema formale non è però possibile dare una dimostrazione.
scusa, ma una proposizione nn è vera quando viene dimostrata? dire ke una proposizione è indecidibile significa dire ke è "indecidibile" (ossia nn ne possiamo dimostrare la verità o la falsità. ed è scontato ke sia attraverso il linguaggio usato). quindi possiamo dire ke una proposizione indecidibile nn è ne "vera" ne "falsa" (possiamo nn usare tali termini, ma vogliamo davvero passare ad un linguaggio formale?).
nn credo ke i teoremi di Godel siano attaccabili da quel punto di vista. per il fatto ke il "limite" (virgolettato...) posto da Godel lascia poco alle kiakkiere; un linguaggio logico-matematico giungerà sempre (...) in contraddizione. ora, di preciso cosa dice R.Penrose nn lo so. ma so ke ad esempio il teorema di Godel, esclude a priori la possibilità per un calcolatore elettronico di sostituirsi completamente al cervello umano. credo siano interessanti le implicazioni del teorema di Godel come questa, piokè ci riguardano da vicino; e poikè molte volte, nn se ne comprende il significato (i romanzi di Asimov forse rimarranno fantascienza...
).
nn credo ke i teoremi di Godel siano attaccabili da quel punto di vista. per il fatto ke il "limite" (virgolettato...) posto da Godel lascia poco alle kiakkiere; un linguaggio logico-matematico giungerà sempre (...) in contraddizione. ora, di preciso cosa dice R.Penrose nn lo so. ma so ke ad esempio il teorema di Godel, esclude a priori la possibilità per un calcolatore elettronico di sostituirsi completamente al cervello umano. credo siano interessanti le implicazioni del teorema di Godel come questa, piokè ci riguardano da vicino; e poikè molte volte, nn se ne comprende il significato (i romanzi di Asimov forse rimarranno fantascienza...

Dire che una proposizione è indecidibile non significa che non sia né vera né falsa, ma solo che non si è in grado di stabilirne la verità attraverso le altre proposizioni del sistema formale in esame. Il teorema di Godel dice che è sempre possibile costruire una proposizione che è vera, ma che solo se fosse possibile dimostrarla cadremmo in contraddizione. Leggi La mente nuova dell'imperatore, di Roger Penrose. A me pare molto convincente.
una proposizione "indecidibile", è appunto indecidibile. nel senso ke tale caratteristica la rende ne "vera", ne "falsa". questo aspetto pone l'impossibilità di porla come assioma (il teorema di Godel afferma l'impossibilità di provare la nn contraddittorietà di un sitema logico-matematico (l'aritmetica ad esempio)) avvalendosi del linguaggio proprio al sistema in esame. quindi dimostrare ke una proposizione è del tipo di Godel significa dimostrare ke essa è "indecidibile". il grado di verità ke tu concedi a tale proposizione, è:
-il fatto ke essa è indecidibile; quindi "è veramente" del tipo di Godel.
ma questa considerazione (se ho capito bene intendi questo) nn c'entra con il fatto ke tale proposizione è "indecidibile". essa infatti è indecidibile perkè porta in se contraddizioni come (riferendomi al "paradosso" del mentitore di Creta):
-se il mentitore di Creta mente, egli dice la verità;
-se egli nn mente, egli nn dice la verità.
quindi il fatto ke una proposizione sia indecidibile nn significa dire ke ha un grado di verità (nel senso, ke è "veramente" del tipo di Godel); ma significa ke essa esprime in sè una contraddizione (come per il mentitore di Creta); poikè (come dice il teorema di Godel) un sistema logico-formale giunge ad una contraddizione se si avvale del linguaggio proprio al sistema stesso.
-il fatto ke essa è indecidibile; quindi "è veramente" del tipo di Godel.
ma questa considerazione (se ho capito bene intendi questo) nn c'entra con il fatto ke tale proposizione è "indecidibile". essa infatti è indecidibile perkè porta in se contraddizioni come (riferendomi al "paradosso" del mentitore di Creta):
-se il mentitore di Creta mente, egli dice la verità;
-se egli nn mente, egli nn dice la verità.
quindi il fatto ke una proposizione sia indecidibile nn significa dire ke ha un grado di verità (nel senso, ke è "veramente" del tipo di Godel); ma significa ke essa esprime in sè una contraddizione (come per il mentitore di Creta); poikè (come dice il teorema di Godel) un sistema logico-formale giunge ad una contraddizione se si avvale del linguaggio proprio al sistema stesso.
Significa dimostrare che è indecidibile, appunto, ma indecidibile "nel senso di tuo" (di Godel
). Non so se il paradosso del mentitore sia una proposizione del tipo Godel. Fatto sta che la proposizione indecidibile di Godel potrebbe essere presa come assioma, perché ha un valore di verità.

"Dimostrare" ke una proposizione è del tipo di godel significa dire ke è una proposizione indecidibile. "Il mentitore di Creta afferma ke a Creta, tutti sono mentitori. Egli mente?". Questo sarebbe un esempio di proposizione (naturalmente linguistica) indecidibile.
d'accordo la formula A non è un teorema, appunto però può essere inclusa come assioma data la sua verità. è dimostrare che una proposizione A è del tipo di godel, non significa comunque dimostrare che è vera?
Elijah82 , forse ho capito che intendi dire...Forse...Ma sicuramente dato che il teorema di incompletezza di Godel afferma che, se un sistema di assiomi dell'aritmetica elementare è consistente, allora non è completo (formula A: "la formula A non è dimostrabile")...Si ottiene però una situazione per certi versi analoga al famoso paradosso del mentitore di Creta:
-se A(che afferma che A non è dimostrabile) è dimostrabile, allora "A non è dimostrabile";
-se A non è dimostrabile, allora la formula A è dimostrabile.
Se dunque vogliamo che il sistema di assiomi sia consistente, al suo interno non è possibile dimostrare A, perchè immediatamente sarebbe dimostrabile la sua negazione "nonA" e si avrebbe una situazione di contraddizione. Ma allora in tale teoria, A risulta una formula "vera" (perchè effettivamente non dimostrabile), ma non può essere un "teorema" (perchè appunto non è dimostrabile).
Poichè si è ottenuta una formula vera, ma non dimostrabile, la teoria non è completa...Il senso del teorema di Godel è il seguente: l'aritmetica, con l'utilizzo dei suoi propri mezzi (e cioè attraverso il processo di aritmetizzazione ottenuto con i numeri di Godel), non può dimostrare la sua propria consistenza. D'altro canto, l'aritmetica (come l'insieme delle proposizioni riguardanti i numeri naturali) è alla base dell'intero impianto costruttivo della matematica. Quindi, esiste un limite invalicabile (ma.......invalicabile.........
) al processo di formalizzazione e di costruzione su basi logiche (facile a dirsi basi logiche......) dell'impianto matematico: esso, senza ricorrere a "livelli superiori" , non può, tramite se stesso, garantire la sua non contraddittorietà...(per ora...) Si ha come conseguenza un limite (...) più generale alle potenzialità di qualunque formalizzazione: ogni dimostrazione della matematica sulla coerenza di un sistema formale deve utilizzare principi più complessi di quelli del sistema in esame.
E qui forse c'è la risposta a wedge:
la coerenza di qualunque sistema formale o linguaggio può essere dimostrata soltanto ricorrendo a un "metalinguaggio" che utilizzi strutture più complesse di quelle impiegate dal sistema stesso.
Ogni teoria ha quindi bisogno di una metateoria e non esiste alcuna "teoria ultima" (mmm........) che fondi tutte le altre, inclusa se stessa, perchè necessariamente si autoferirebbe (mmm....).
A mio avviso sono interessanti le implicazioni e le conseguenze del teorema di incompletezza di Godel sul piano filosofico comportamentale ed individuale...
Mi sono dilungato molto, ma spero che sia tutto chiaro, anche perchè ho rispolverato i testi su cui studiavo...Tra parentesi non ho potuto fare a meno di inserire "i miei dubbi" su questioni molto complesse e spesso anche molto "discutibili"...
-se A(che afferma che A non è dimostrabile) è dimostrabile, allora "A non è dimostrabile";
-se A non è dimostrabile, allora la formula A è dimostrabile.
Se dunque vogliamo che il sistema di assiomi sia consistente, al suo interno non è possibile dimostrare A, perchè immediatamente sarebbe dimostrabile la sua negazione "nonA" e si avrebbe una situazione di contraddizione. Ma allora in tale teoria, A risulta una formula "vera" (perchè effettivamente non dimostrabile), ma non può essere un "teorema" (perchè appunto non è dimostrabile).
Poichè si è ottenuta una formula vera, ma non dimostrabile, la teoria non è completa...Il senso del teorema di Godel è il seguente: l'aritmetica, con l'utilizzo dei suoi propri mezzi (e cioè attraverso il processo di aritmetizzazione ottenuto con i numeri di Godel), non può dimostrare la sua propria consistenza. D'altro canto, l'aritmetica (come l'insieme delle proposizioni riguardanti i numeri naturali) è alla base dell'intero impianto costruttivo della matematica. Quindi, esiste un limite invalicabile (ma.......invalicabile.........

E qui forse c'è la risposta a wedge:
la coerenza di qualunque sistema formale o linguaggio può essere dimostrata soltanto ricorrendo a un "metalinguaggio" che utilizzi strutture più complesse di quelle impiegate dal sistema stesso.
Ogni teoria ha quindi bisogno di una metateoria e non esiste alcuna "teoria ultima" (mmm........) che fondi tutte le altre, inclusa se stessa, perchè necessariamente si autoferirebbe (mmm....).
A mio avviso sono interessanti le implicazioni e le conseguenze del teorema di incompletezza di Godel sul piano filosofico comportamentale ed individuale...
Mi sono dilungato molto, ma spero che sia tutto chiaro, anche perchè ho rispolverato i testi su cui studiavo...Tra parentesi non ho potuto fare a meno di inserire "i miei dubbi" su questioni molto complesse e spesso anche molto "discutibili"...

azz nessuno crederà mai che m'ha risposto Godel in persona!!! 
provo a essere più preciso.
a quanto ho capito, il teorema di godel afferma che, dato un insieme di proposizioni W1, che seguono da un insieme A1 di assiomi che si suppongonono veri, si può costruire (mediante un opportuno processo di diagonalizzazione) una proposizione che risulta vera in base agli assiomi iniziali A1 e alle proposizioni di W1, ma di cui è impossibile dare una dimostrazione.
nel libro di penrose, si legge che, detta P1 tale proposizione, poiché essa risulta "vera", possiamo definire un nuovo insieme di assiomi
A2 = A1 U {P1}
e dunque definire il nuovo insieme W2 delle proposizioni che seguono da A2. Chiaramente W2 conterrà W1. A questo punto, per il teorema di godel, esisterà una proposizione P2 vera ma indimostrabile che segue da W2 e A2. ripetendo il procedimento, definiamo A3 e W3, e così via.
abbiamo dunque generato una successione di insiemi di assiomi e proposizioni includendo di volta in volta come assioma le proposizioni "indimostrabili" di godel.
quindi io notavo che lo stesso teorema di godel può essere usato, al pari del principio di induzione, come strumento per dimostrare la verità di una proposizione. infatti, dimostrando che una data proposizione è del tipo di godel, ovvero che è ottenibile attraverso un opportuno processo di diagonalizzazione a partire da proposizioni vere, ne dimostriamo la verità: infatti una proposizione di godel, pur indimostrabile, è per vera per costruzione! non so se mi sono capito...
comunque, se vi interessa, penrose fa anche un esempio concreto di una proposizione, formulata da alcuni ricercatori, che è del tipo di godel, dunque indimostrabile, ma che appare "evidentemente" vera. se volete vado a prendere il libro e ve la posto

provo a essere più preciso.
a quanto ho capito, il teorema di godel afferma che, dato un insieme di proposizioni W1, che seguono da un insieme A1 di assiomi che si suppongonono veri, si può costruire (mediante un opportuno processo di diagonalizzazione) una proposizione che risulta vera in base agli assiomi iniziali A1 e alle proposizioni di W1, ma di cui è impossibile dare una dimostrazione.
nel libro di penrose, si legge che, detta P1 tale proposizione, poiché essa risulta "vera", possiamo definire un nuovo insieme di assiomi
A2 = A1 U {P1}
e dunque definire il nuovo insieme W2 delle proposizioni che seguono da A2. Chiaramente W2 conterrà W1. A questo punto, per il teorema di godel, esisterà una proposizione P2 vera ma indimostrabile che segue da W2 e A2. ripetendo il procedimento, definiamo A3 e W3, e così via.
abbiamo dunque generato una successione di insiemi di assiomi e proposizioni includendo di volta in volta come assioma le proposizioni "indimostrabili" di godel.
quindi io notavo che lo stesso teorema di godel può essere usato, al pari del principio di induzione, come strumento per dimostrare la verità di una proposizione. infatti, dimostrando che una data proposizione è del tipo di godel, ovvero che è ottenibile attraverso un opportuno processo di diagonalizzazione a partire da proposizioni vere, ne dimostriamo la verità: infatti una proposizione di godel, pur indimostrabile, è per vera per costruzione! non so se mi sono capito...
comunque, se vi interessa, penrose fa anche un esempio concreto di una proposizione, formulata da alcuni ricercatori, che è del tipo di godel, dunque indimostrabile, ma che appare "evidentemente" vera. se volete vado a prendere il libro e ve la posto