CORREZIONE GRECO

giu92d
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La Dike nelle Tragedie di Eschilo.
La giustizia di Zeus.

I Greci ebbero coscienza della sacralità del concetto e della prassi della giustizia. Essi erano convinti che il destino dei singoli e dei popoli fosse sottoposto a una norma, di cui le divinità erano garanti.
In effetti la giustizia riguardava la convivenza umana e nello stesso tempo l'universo, il kosmos, che obbedisce a un ordine divino universale, per cui ogni cosa occupa un posto ed ha un compito ben definito, in opposizione al kaos, disordine e bruttezza, scompostezza e terrore.
Themis, sposa di Zeus, e la figlia Dike esprimono la profonda esigenza di giustizia insita nell'animo umano, e sono le due facce, i due concetti primordiali dell’ordine giuridico.
Zeus salvatore, come dice Pindaro, celebra le nozze con Themis, figlia di Gea e di Urano e pertanto sorella dei Titani. . Era la dea della giustizia per gli altri dei e per gli uomini, dea delle leggi non scritte e, pertanto, indistruttibili; leggi eterne, che non sono di oggi né di ieri e nessuno sa da quando sono apparse.

Dike esprime il concetto di ordine immanente, al quale deve uniformarsi l'azione dell'individuo, in quanto membro della collettività.

Eschilo si fa portavoce del problema della giustizia divina.

Cento volte almeno risuona la parola dike nelle tragedie di Eschilo.
Themis e Dike, Zeus e Ate, Moira ed Erinni forniscono immagini particolarmente idonee ad esprimere poeticamente un'esperienza spirituale molto viva e intensa: Clitennestra Ag 911 dice: - Si disponga subito una strada coperta di porpora in modo che Dike lo conduca alla dimora insperata -
- Anche questi inviolabili miei giuramenti tu ascolti: per Dike vendicatrice di mia figlia, per Ate e l’Erinni, alle quali io ho dedicato l’immolazione di costui; Ag 1611 – ora per me è bello anche morire avendo visto costui nelle reti di Dike, della giustizia.

C’è alla base l'intuizione, propria anche di Omero, Esiodo e Solone, che uomini e dei siano protagonisti di una vicenda comune, corresponsabili del bene e del male di cui l'uomo è artefice.
La tracotanza umana, la Ύβρις, attira la giusta punizione divina, su quanti, come afferma Solone (Fragmenta 4.11) – si arricchiscono facendo azioni ingiuste; (Fragmenta 4.14) – non rispettano le sacrosante leggi di Dike. -
Gli dei apparivano come i custodi di un ordine eterno di giustizia, insieme cosmico, morale e civile. Il dramma, che vede uomini e dei ora contrapposti, ora affiancati, è essenzialmente il dramma della giustizia divina, cara agli dei e violata spesso dall'uomo non di rado per malvagia passione, talora per cieca ignoranza, ma anche e più frequentemente per pura fatalità.
E poiché la giustizia esige che alla colpa segua la pena, la tragedia diventa la rappresentazione esemplare della sofferenza umana, degli ingiusti e degli innocenti, dei colpevoli e delle loro vittime.

Al dramma della sofferenza si aggiunge, in Eschilo, quello della lotta tra le antiche divinità figlie della Terra, e le nuove, figlie del Cielo luminoso, il contrasto cioè tra la concezione pre-razionale e la nuova, razionale, del concetto etico di giustizia, che si inserisce forse nella riflessione dei filosofi a lui contemporanei su giustizia, colpa, responsabilità. Era un periodo storico ricco di fermenti e di incertezze e la tragedia eschilea indicava certamente le prospettive etico-religiose e socio-politiche entro cui i cittadini dovevano regolarsi nel loro agire. Anche uno schiavo poteva agire nobilmente e poteva dar prova della sua aretè.


Ma la visione cosmica di Eschilo non è dogmatica; conosce il limite dell’umano sentire e pensare, la difficoltà di giudicare con giustizia. Il dramma di Oreste è esemplare: il suo matricidio, come atto di giusta vendetta per l’uccisione di suo padre da parte della madre, lascia in parità il voto dei giudici e non si raggiunge la maggioranza richiesta per la sua condanna.
Ma cos’è la giustizia nell’Orestea? Nella prima tragedia essa coincide con le azioni di Clitennestra, che si fa giustizia da sola per i torti subiti. L’astuzia, la ferocia e l’odio della moglie di Agamennone dominano le prime due tragedie al punto che anche Egisto non è che un burattino nelle sue mani. Nella seconda tragedia ad Oreste si pongono due alternative, entrambe dolorose e sconvolgenti: uccidere la propria madre, oppure non farlo, macchiandosi così di grave mancanza verso il padre e verso il dio Apollo che gli ha dato l’ordine. Oreste qui fa fatica ad individuare cosa sia giusto, e infatti la sua vendetta non è priva di esitazioni e rimorsi.
Strettamente congiunti, il mondo divino e quello umano, nella polis con le sue leggi e le sue istituzioni, costituiscono un consolidato sistema di valori, in cui le ragioni dell'individuo sono legate alle norme della collettività.

Pisistrato aveva messo ordine nei culti misterici ufficiali. Eschilo se ne fa portavoce. Dio è giusto perché il male è punito e non c'è chi possa sfuggire alle conseguenze delle proprie colpe:
Ch 1009 - anche per chi sopravvive germoglia sventura. -

Ma perché soffre anche chi non opera il male, perché mai soffre il magnanimo Prometeo o il generoso Eteocle? Dice il Re (Pers 294): – inevitabile sopportare le sventure quando gli dei le inviano: calmati anche se soffri. -
Due concezioni fondamentali si incontrano, dunque, nel pensiero eschileo: da un lato quella della religione, di una giustizia naturale, immutabile e ineluttabile, il cui trionfo non può mancare; dall'altra quella dell’eterna e disperata lotta dell'uomo contro un destino invidioso ed ostile.
Onnipresenti sono gli dei nel mondo di Eschilo, onnipresente è anche la giustizia divina. Ma non si tratta di un mondo ordinato. È un mondo che aspira all'ordine, un mondo dove la violenza regna sovrana, dove si uccide e si è uccisi.
Ma pur nell'angoscia e nella paura, il poeta coglie e invita a cogliere le tracce di una giustizia divina, che difficilmente si scorge perché oscura, anzi addirittura demoniaca e incomprensibile.

Le Coefore (vv. 61-69) chiaramente avvertono: "Ma la bilancia di Dike rapida | sorprende alcuni in piena luce, | altri fra luce e tenebra indugianti | li attendono le pene, | altri li avvolge la notte infinita. || E quando il sangue bevuto dalla madre terra | a futura vendetta in grumo s’è rappreso incancellabile, | allora implacabile Ate trascina il colpevole | a fiorire di un male che basta a pagare tutto". Presto o tardi, inesorabile, dunque, giunge la vendetta quando la terra per nefando delitto ha assorbito sangue. È la giustizia che fin dalla soloniana Elegia alle Muse (fr. 1 D., vv. 15-16) taciturna mira, che vede il passato e il futuro, e infallibile un giorno torna a chiedere il conto.

La dike implica l'infallibile legge del sangue che esige espiazione, ad ogni costo, altrimenti non è Giustizia.

Oreste afferma Ch 990 - Egisto muore come vuole la legge;
Ch 1027– Ho ucciso mia madre non senza giustizia;
Atena: Eum 573 - Conviene che la città tutta taccia e apprenda i miei decreti validi in eterno e che per costoro sia decretata in modo conveniente la giustizia.

I personaggi che operano nella realtà tragica spesso hanno dinanzi a sé scelte che pur conformi alla giustizia sono in contrasto tra loro.
Tale dissidio è enuciato nella formula Dike contro Dike delle Coefore (v. 461). La giustizia assoluta non esiste. Le Danaidi temono che la loro Dike non si attui; rimane una sola possibilità, che ottengano protezione nel riconoscimento della hybris degli Egizi, ma non si può dire conforme a giustizia il comportamento delle Danaidi che, disdegnando le nozze, non onorano Afrodite. Tutti gli dei devono essere onorati, per cui, secondo Eschilo, la lotta tra gli Egizi e le Danaidi non è lotta di ingiusti contro giusti ma di ingiusti contro ingiusti: alla Dike delle figlie di Danao si contrappone quella dei figli di Egitto. Ogni diritto è necessariamente legato a una colpa. Pelasgo, il re di Argo, accoglie il disperato appello delle Danaidi, che a lui si sono rivolte chiedendo protezione in nome di Themis, protettrice dei supplici, figlia di Zeus dispensatore del destino (Sup 360). Egli sa di dover prendere una decisione fra due diritti, ciascuno dei quali implica una colpa. Il contrasto insanabile fra due diritti è rappresentato dal sovrano, tormentato nel dubbio senza soluzione: "Siamo arenati a questo punto: è del tutto inevitabile suscitare una grave guerra o con gli uni o con gli altri, e la nave è inchiodata come se fosse trascinata a riva da argani navali. Senza dolore non c'è via d'uscita" (Sup 438-442).

Nell'Agamennone Clitennestra, che si proclama artefice di giustizia (v. 1406), insiste sulla propria Dike (vv. 1430-1432), dopo aver biasimato il coro “giudice severo” (v. 1421) delle sue azioni. La Dike di Clitennestra si contrappone a quella di Agamennone, così come la Dike di Agamennone (vv. 1665-1669) appare antitetica a quella di Egisto (vv. 1607-1611). Oreste per onorare Dike, gravemente offesa da Clitennestra, è spinto a nuovi delitti. Il giovane, costretto a commetterli, pagherà con una colpa l'esecuzione ineluttabile della vendetta.

Esplicito si fa, nelle Eumenidi (vv. 149-154) il conflitto finale, dove a un diritto divino si contrappone un altro diritto, anch'esso divino. Le Erinni oppongono la propria Dike a quella degli dei nuovi e si rivolgono ad Apollo: "Oh, figlio di Zeus, sei un gran furfante | e tu giovane metti sotto i piedi antiche dee | proteggendo il tuo supplice, uomo senza dio | e spietato con chi l’ha messo al mondo, | e mi hai sottratto il matricida, tu, un dio! | Quale di queste azioni potrebbe dirsi giusta?".

E’ evidente il dissenso tra le due stirpi di dei, la più recente delle quali è accusata di violare le antiche norme etiche dando protezione a un matricida. Proprio le Erinni vedono duplice l'azione di Oreste, quando la definiscono Dike e colpa. Nel dilemma che la scelta tra due azioni comporta, l'eroe tragico spesso non sa quale decisione prendere, come il re di Argo, angosciato al pensiero di dovere scegliere se agire o non agire (Sup 380). Colpa e responsabilità sono centrali nella problematica del concetto di giustizia: colpa nel senso che qualcuno deve rispondere di qualcosa, a meno che tutto non sia da attribuire solo agli dei o, meglio, alla moira.

Gli dei sono coinvolti anche quando non compaiono sulla scena, e l'uomo, stretto ancora da un legame religioso, si domanda, ogni volta, fino a che punto nel suo agire gli dei siano corresponsabili, se non addirittura responsabili e quindi colpevoli.

La hybris fa traviare l'uomo, facendogli dimenticare la sua condizione mortale e facendogli oltrepassre i limiti.
Essa nasce sempre da un eccesso di potenza o di ricchezza o di felicità. L'uomo allora si erge a dio. E dio deve ricordargli la condizione di mortale, e dunque i suoi limiti. Entra così in gioco il destino, che manda Ate, l'errore, che pesantemente graverà sulla sua caduta.
La colpa appare sempre come un traviamento, il delitto di hybris, nato da un istante di oblio della condizione di mortale, è immediatamente rinforzato e appesantito da Ate, l'Errore, mandato dagli dei perché “più sicuramente il colpevole si perda”.

Gli uomini sono per natura spontaneamente ragionevoli, belli, grandi. Soltanto le cause esteriori li fanno inciampare. La malvagità umana, nell'Orestiade, è la prima autrice del peccato, ma l'eredità delle colpe si trasmette alla stirpe.

"Ma quando uno si affretta egli stesso alla sua rovina anche il dio lo aiuta" (Pers 742).

La colpa è dell’uomo che accelera il proprio destino, e allora, solo allora, intervengono gli dei. La sua azione lo rende colpevole. La tragica catena di delitti, che porta a totale rovina una stirpe maledetta, ha il suo primo anello nella colpa di un antenato, che l'ha freddamente commessa.

"Dike leva alto il suo grido. | Per colpo mortale, mortale | colpo si paghi. Chi fa patire. | Parola tre volte antica così proclama" (Co 309-313, v.311).
Agire dunque vuol dire soffrire. Ma allora perché agire, perché scegliere, perché non abbandonarsi al destino, che la moira ha preparato per l'uomo? "Il pensiero di Zeus non è facile da comprendere; dappertutto sfolgora anche nella tenebra, con vicissitudini oscure per le genti mortali" (Sup 87-90).
Attraverso l'esperienza del dolore, la difficoltà della scelta, il rimorso delle colpe, l'uomo impara a comprendere il senso della tuke, che nella realtà è la zona incognita entro cui si collocano gli eventi.
La sorte è per lo più oscura, ma è anche divina. Zeus ha condotto l'uomo ad esser saggio, stabilendo che avesse valore l'apprendere attraverso la sofferenza: - pathei mathos, Ag 176-178 (v. 177).
"Dike fa pendere la bilancia della salvezza verso chi ha sofferto" (Ag 249-251).

Esiodo aveva detto: "Lo stolto impara dopo aver sofferto” (Opere e Giorni 218).
Il pathei mathos rappresenta il fondamento ultimo della sua religione tragica, è l’esperienza del dolore, che ricorda a quanti lo dimenticano, la loro condizione di mortali, il limite, cioè, invalicabile fra gli dei beati e gli uomini votati alla morte. E tale insegnamento non riguarda solo la persona singola, ma a volte anche tutta la stirpe obbligata a riconoscere il castigo per le colpe commesse.

L'umana tracotanza e stoltezza attirano la giusta punizione divina, come già aveva affermato Solone.
Dice Oreste: Eum 277) – So parlare quando è giusto e so tacere quando è opportuno: ammaestrato son così nei dolori.
Dal pathos al mathos, dunque: è questa la legge che la saggezza di Zeus ha dato ai mortali, il dio ha stabilito che la saggezza dell’uomo deve essere appresa attraverso la sofferenza; è una legge, “è Dike e salda rimane, finché rimane Zeus sul trono”.

Gli dei, non più con potere e violenza (kratos e bia), insegneranno che se il diritto è migliore della forza, la giustizia è migliore del diritto e allora, finalmente, ci sarà pace fra i mortali.

FINE :thx

Risposte
giu92d
si scusa con la nuova grafica mi son confuso.
chiudi questa discussione allora
ciao e grazie.
puoi darmi una mano? ho postato nel forum come domanda

cichinella
ciao...cortesemente dovresti inserire la tua richiesta come domanda e non come discussione...grazie :)

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