Riassunto " La felicità" di Guy de Maupassant
riassunto di "un amore felice" guy de maupassant, pag 376 caffe letterario, lascio anche il test :Era l’ora del tè, non avevano ancora portato le lampade. La villa dominava il mare; il sole appena sparito aveva lasciato il cielo tutto rosato dal suo passaggio, come cosparso di polvere d’oro; e il Mediterraneo, senza una ruga, senza un brivido, lucente ancora sotto la luce del giorno morente, pareva una lastra di metallo levigata e smisurata. In lontananza, sulla destra, le montagne dentellate stagliavano il loro profilo scuro sulla porpora impallidita del tramonto.
Si parlava dell’amore, si discuteva su questo vecchio argomento, si tornavano a dire cose già dette molte volte. La dolce melanconia del crepuscolo rallentava le parole, e faceva aleggiare una commozione negli animi; e questa parola <>, che tornava incessantemente, ora pronunciata da una forte voce maschile, ora detta da una voce di donna dal timbro leggero, pareva riempire il piccolo salotto, volteggiarvi come un uccello, planarvi come uno spirito.
Si può amare per più anni di seguito?
<> sostenevano alcuni.
<> affermavano gli altri.
Si distinguevano i casi, si stabilivano demarcazioni, si citavano esempi, e tutti uomini e donne, pieni di ricordi ridestati e inquietanti che non potevano citare e che salivano loro alle labbra, parevano commossi, parlavano di quella cosa banale e sovrana, l’accordo tenero e misterioso di due esseri, con profonda emozione e interesse ardente.
Ma a un tratto qualcuno, con gli occhi fissi lontano, esclamò:
<>.
Sul mare, all’estremo orizzonte, sorgeva una massa grigia, enorme e confusa. Le donne s’erano alzate e guardavano senza capire quella cosa straordinaria che non avevano mai vista.
Qualcuno disse:
<<È la Corsica! La si vede così due o tre volte all’anno, in certe condizioni d’atmosfera eccezionali, quando l’aria perfettamente limpida non la nasconde più con quelle brume di vapore acqueo che velano normalmente l’orizzonte>>.
Si distinguevano vagamente le creste, parve di riconoscere la neve delle cime. E tutti restavano sorpresi, colpiti, quasi atterriti dalla improvvisa apparizione d’un mondo, da quel fantasma uscito dal madre. Forse avevano avuto visioni strane di questo genere, coloro che erano partiti, come Colombo, attraverso gli oceani inesplorati.
Allora un vecchio signore, che non aveva ancora parlato, disse:
<
Dunque da un mese già stavo errando attraverso quell’isola magnifica, con la sensazione di trovarmi in capo al mondo. Nessun albergo, nessun locale pubblico, nessuna strada. Per mezzo di sentieri da muli si possono raggiungere quei paesetti inerpicati sul fianco delle montagne, sospesi su abissi tortuosi dal fondo dei quali si sente salire, la sera, il rombo continuo, la voce sorda e profonda del torrente. Si bussa alle porte delle case. Si chiede ospitalità per la notte e di che vivere sino al giorno dopo. E ci si siede all’umile tavola, e si dorme sotto l’umile tetto; e al mattino, si stringe la mano tesa dell’ospite che ci ha accompagnati sino all’uscita del paese.
Una sera, dopo dieci ore di marcia, raggiunsi una piccola casa isolata in fondo a uno stretto vallone che sboccava in mare, una lega più avanti. I due ripidi pendii della montagna, coperti di boscaglia, di rocce scoscese e di grandi alberi, racchiudevano come due scure pareti quel borro desolato e triste. Intorno alla casupola qualche vigna, un giardinetto, e, più in là, alcuni alti castagni, insomma di che vivere, una fortuna in quel paese povero. La donna che mi accolse era vecchia, severa e pulita, un’eccezione. L’uomo, seduto su una seggiola di paglia, si alzò per salutarmi, poi tornò a sedersi senza dire una parola. La sua compagna mi disse:
– Scusatelo; è sordo, adesso. Ha novantadue anni.
Parlava il francese di Francia. Rimasi sorpreso.
Le domandai:
– Non siete della Corsica?
Lei rispose:
– No, siamo del continente. Ma da ormai cinquant’anni viviamo qui.
Una sensazione d’angoscia e di paura mi prese al pensiero di quei cinquant’anni trascorsi in quel buco oscuro, così lontano dalle città in cui vivono gli uomini. Un vecchio pastore tornò a casa, e si mise a mangiare l’unico piatto della cena, una zuppa densa in cui erano cotti insieme patate, lardo e cavoli. Quando il breve pasto fu terminato, andai a sedermi davanti alla porta, con il cuore stretto dalla malinconia del triste paesaggio, in preda allo sconforto che prende a volte i viaggiatori in certe sere tristi, in certi luoghi desolati. Pare che tutto stia per finire, l’esistenza e l’universo. Si percepisce a un tratto l’orribile tristezza della vita, l’isolamento di tutti, la nullità di ogni cosa, e la nera solitudine del cuore che si culla e s’inganna da sé con sogni, sino alla morte.
La vecchia donna mi raggiunse e, torturata da quella curiosità che vive sempre nel fondo degli animi più rassegnati mi domandò:
– Allora voi venite dalla Francia?
– Sì, e viaggio per mio piacere.
– Siete di Parigi, forse?
– No, sono di Nancy.
Mi parve che fosse agitata da una straordinaria emozione. Come lo vidi o meglio lo sentii, non saprei dire.
Lei ripeté lentamente:
– Siete di Nancy?
L’uomo comparve nel vano della porta, impassibile come sono i sordi. La donna riprese:
– Non fa nulla. Non sente.
Poi, dopo alcuni istanti:
– Allora, conoscete gente a Nancy?
– Ma sì, quasi tutti.
– La famiglia Sainte-Allaize?
– Sì, molto bene; erano amici di mio padre.
– Come vi chiamate?
Dissi il mio nome. Mi guardò fisso, poi disse, con la voce bassa dei ricordi ridestati:
– Sì, sì, ricordo bene. E i Brisemare, casa n’è di loro?
– Sono tutti morti.
– Ah! E i Sirmont, li conoscevate?
– Sì, l’ultimo è generale.
Allora lei disse, fremente d’emozione, d’angoscia, di non so quale sentimento confuso, forte e sacro, di non so qual bisogno di confessare, di dire tutto, di parlare di quelle cose che sino a quel momento aveva tenute racchiuse nel fondo del cuore, e di quelle persone il cui nome le sconvolgeva l’anima:
– Sì, Henri de Sirmont. Lo so, lo so. E’ mio fratello.
Alzai gli occhi su di lei, sgomento dalla sorpresa. E a un tratto il ricordo ritornò in me. La cosa aveva costituito, una volta, un grosso scandalo nella nobiltà lorenese. Una fanciulla bella e ricca, Suzanne de Sirmont, era stata rapita da un sottufficiale degli ussari del reggimento comandato da suo padre. Era un bel ragazzo, figlio di contadini, che portava molto bene il dolman azzurro, quel soldato che aveva sedotto la figlia del suo colonnello. Lei lo aveva visto, notato, amato guardando sfilare gli squadroni, certamente. Ma come aveva potuto parlargli, come avevano potuto vedersi, intendersi? Come aveva osato lei, fargli capire che lo amava? Questo, non lo si seppe mai. Nessuno aveva intuito nulla, previsto nulla. Una sera, che il soldato aveva finito il suo turno, scomparve con lei. Li cercarono, non li trovarono. Non si ebbero più notizie di loro, e la ragazza venne considerata morta. E io la ritrovavo così, in quella valle sinistra.
Allora dissi a mia volta:
– Sì, ricordo bene, voi siete la signorina Suzanne.
Accennò di sì con la testa. Le lacrime le cadevano dagli occhi. Allora, indicandomi con gli occhi il vecchio immobile mi disse:
– E’ lui.
E capii che lo amava ancora, che lo vedeva ancora con gli stessi occhi affascinati.
Domandai:
– Siete stata felice, almeno?
E lei rispose con una voce che veniva dal cuore:
– Oh, sì, molto felice. Lui mi ha resa molto felice. Non ho mai rimpianto nulla.
La contemplavo, triste, sorpreso, meravigliato dalla potenza dell’amore! Quella ragazza ricca aveva seguito quell’uomo, quel contadino. Era diventata anche lei una contadina. S’era abituata alla sua vita senza incanti, senza lusso, senza delicatezze di alcun genere, s’era piegata alle abitudini semplici di lui. E lo amava ancora. Era diventata la moglie di un uomo rozzo, in cuffia e gonna di tela. Mangiava in un piatto di terracotta su un tavolo di legno grezzo, seduta su una sedia di paglia, una zuppa di cavoli e patate col lardo. E dormiva su un pagliericcio accanto a lui. Non aveva mai pensato a nulla, soltanto a lui! Non aveva rimpianto né gioielli, né abiti, né eleganze, né la mollezza dei divani, né il tepore profumato delle stanze imbottite di tappezzerie, né la dolcezza delle piume in cui si immerge il corpo per il riposo. Aveva avuto sempre bisogno soltanto di lui; purché fosse lì, con lei, non desiderava nulla. Aveva abbandonato la vita, ancora giovane, e la compagnia della gente, e coloro che l’avevano educata e amata. Ed era venuta, sola con lui, in quel borro selvaggio. E lui era stato tutto per lei, tutto ciò che si può desiderare, che si può sognare, tutto quello che sempre si aspetta, che si spera indefinitamente. Lui aveva riempito di gioia la sua esistenza, dal principio alla fine. E lei non avrebbe potuto essere più felice. E per tutta la notte, ascoltando il respiro rauco del vecchio soldato disteso sul giaciglio accanto a colei che l’aveva seguito così lontano, pensai a quella strana e semplice avventura, a quella felicità così completa, fatta di così poco. Me ne andai al levar del sole, dopo aver stretto la mano ai vecchi coniugi>>.
Il narratore tacque. Una donna disse:
<>.
Un’altra disse lentamente:
<>.
E laggiù, all’estremo orizzonte, la Corsica affondava nella notte, rientrando lentamente nel mare, e cancellava la sua grande ombra apparsa come per raccontare lei stessa la storia dei due umili amanti che le sue rive ospitavano.
Si parlava dell’amore, si discuteva su questo vecchio argomento, si tornavano a dire cose già dette molte volte. La dolce melanconia del crepuscolo rallentava le parole, e faceva aleggiare una commozione negli animi; e questa parola <
Si può amare per più anni di seguito?
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Si distinguevano i casi, si stabilivano demarcazioni, si citavano esempi, e tutti uomini e donne, pieni di ricordi ridestati e inquietanti che non potevano citare e che salivano loro alle labbra, parevano commossi, parlavano di quella cosa banale e sovrana, l’accordo tenero e misterioso di due esseri, con profonda emozione e interesse ardente.
Ma a un tratto qualcuno, con gli occhi fissi lontano, esclamò:
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Sul mare, all’estremo orizzonte, sorgeva una massa grigia, enorme e confusa. Le donne s’erano alzate e guardavano senza capire quella cosa straordinaria che non avevano mai vista.
Qualcuno disse:
<<È la Corsica! La si vede così due o tre volte all’anno, in certe condizioni d’atmosfera eccezionali, quando l’aria perfettamente limpida non la nasconde più con quelle brume di vapore acqueo che velano normalmente l’orizzonte>>.
Si distinguevano vagamente le creste, parve di riconoscere la neve delle cime. E tutti restavano sorpresi, colpiti, quasi atterriti dalla improvvisa apparizione d’un mondo, da quel fantasma uscito dal madre. Forse avevano avuto visioni strane di questo genere, coloro che erano partiti, come Colombo, attraverso gli oceani inesplorati.
Allora un vecchio signore, che non aveva ancora parlato, disse:
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Dunque da un mese già stavo errando attraverso quell’isola magnifica, con la sensazione di trovarmi in capo al mondo. Nessun albergo, nessun locale pubblico, nessuna strada. Per mezzo di sentieri da muli si possono raggiungere quei paesetti inerpicati sul fianco delle montagne, sospesi su abissi tortuosi dal fondo dei quali si sente salire, la sera, il rombo continuo, la voce sorda e profonda del torrente. Si bussa alle porte delle case. Si chiede ospitalità per la notte e di che vivere sino al giorno dopo. E ci si siede all’umile tavola, e si dorme sotto l’umile tetto; e al mattino, si stringe la mano tesa dell’ospite che ci ha accompagnati sino all’uscita del paese.
Una sera, dopo dieci ore di marcia, raggiunsi una piccola casa isolata in fondo a uno stretto vallone che sboccava in mare, una lega più avanti. I due ripidi pendii della montagna, coperti di boscaglia, di rocce scoscese e di grandi alberi, racchiudevano come due scure pareti quel borro desolato e triste. Intorno alla casupola qualche vigna, un giardinetto, e, più in là, alcuni alti castagni, insomma di che vivere, una fortuna in quel paese povero. La donna che mi accolse era vecchia, severa e pulita, un’eccezione. L’uomo, seduto su una seggiola di paglia, si alzò per salutarmi, poi tornò a sedersi senza dire una parola. La sua compagna mi disse:
– Scusatelo; è sordo, adesso. Ha novantadue anni.
Parlava il francese di Francia. Rimasi sorpreso.
Le domandai:
– Non siete della Corsica?
Lei rispose:
– No, siamo del continente. Ma da ormai cinquant’anni viviamo qui.
Una sensazione d’angoscia e di paura mi prese al pensiero di quei cinquant’anni trascorsi in quel buco oscuro, così lontano dalle città in cui vivono gli uomini. Un vecchio pastore tornò a casa, e si mise a mangiare l’unico piatto della cena, una zuppa densa in cui erano cotti insieme patate, lardo e cavoli. Quando il breve pasto fu terminato, andai a sedermi davanti alla porta, con il cuore stretto dalla malinconia del triste paesaggio, in preda allo sconforto che prende a volte i viaggiatori in certe sere tristi, in certi luoghi desolati. Pare che tutto stia per finire, l’esistenza e l’universo. Si percepisce a un tratto l’orribile tristezza della vita, l’isolamento di tutti, la nullità di ogni cosa, e la nera solitudine del cuore che si culla e s’inganna da sé con sogni, sino alla morte.
La vecchia donna mi raggiunse e, torturata da quella curiosità che vive sempre nel fondo degli animi più rassegnati mi domandò:
– Allora voi venite dalla Francia?
– Sì, e viaggio per mio piacere.
– Siete di Parigi, forse?
– No, sono di Nancy.
Mi parve che fosse agitata da una straordinaria emozione. Come lo vidi o meglio lo sentii, non saprei dire.
Lei ripeté lentamente:
– Siete di Nancy?
L’uomo comparve nel vano della porta, impassibile come sono i sordi. La donna riprese:
– Non fa nulla. Non sente.
Poi, dopo alcuni istanti:
– Allora, conoscete gente a Nancy?
– Ma sì, quasi tutti.
– La famiglia Sainte-Allaize?
– Sì, molto bene; erano amici di mio padre.
– Come vi chiamate?
Dissi il mio nome. Mi guardò fisso, poi disse, con la voce bassa dei ricordi ridestati:
– Sì, sì, ricordo bene. E i Brisemare, casa n’è di loro?
– Sono tutti morti.
– Ah! E i Sirmont, li conoscevate?
– Sì, l’ultimo è generale.
Allora lei disse, fremente d’emozione, d’angoscia, di non so quale sentimento confuso, forte e sacro, di non so qual bisogno di confessare, di dire tutto, di parlare di quelle cose che sino a quel momento aveva tenute racchiuse nel fondo del cuore, e di quelle persone il cui nome le sconvolgeva l’anima:
– Sì, Henri de Sirmont. Lo so, lo so. E’ mio fratello.
Alzai gli occhi su di lei, sgomento dalla sorpresa. E a un tratto il ricordo ritornò in me. La cosa aveva costituito, una volta, un grosso scandalo nella nobiltà lorenese. Una fanciulla bella e ricca, Suzanne de Sirmont, era stata rapita da un sottufficiale degli ussari del reggimento comandato da suo padre. Era un bel ragazzo, figlio di contadini, che portava molto bene il dolman azzurro, quel soldato che aveva sedotto la figlia del suo colonnello. Lei lo aveva visto, notato, amato guardando sfilare gli squadroni, certamente. Ma come aveva potuto parlargli, come avevano potuto vedersi, intendersi? Come aveva osato lei, fargli capire che lo amava? Questo, non lo si seppe mai. Nessuno aveva intuito nulla, previsto nulla. Una sera, che il soldato aveva finito il suo turno, scomparve con lei. Li cercarono, non li trovarono. Non si ebbero più notizie di loro, e la ragazza venne considerata morta. E io la ritrovavo così, in quella valle sinistra.
Allora dissi a mia volta:
– Sì, ricordo bene, voi siete la signorina Suzanne.
Accennò di sì con la testa. Le lacrime le cadevano dagli occhi. Allora, indicandomi con gli occhi il vecchio immobile mi disse:
– E’ lui.
E capii che lo amava ancora, che lo vedeva ancora con gli stessi occhi affascinati.
Domandai:
– Siete stata felice, almeno?
E lei rispose con una voce che veniva dal cuore:
– Oh, sì, molto felice. Lui mi ha resa molto felice. Non ho mai rimpianto nulla.
La contemplavo, triste, sorpreso, meravigliato dalla potenza dell’amore! Quella ragazza ricca aveva seguito quell’uomo, quel contadino. Era diventata anche lei una contadina. S’era abituata alla sua vita senza incanti, senza lusso, senza delicatezze di alcun genere, s’era piegata alle abitudini semplici di lui. E lo amava ancora. Era diventata la moglie di un uomo rozzo, in cuffia e gonna di tela. Mangiava in un piatto di terracotta su un tavolo di legno grezzo, seduta su una sedia di paglia, una zuppa di cavoli e patate col lardo. E dormiva su un pagliericcio accanto a lui. Non aveva mai pensato a nulla, soltanto a lui! Non aveva rimpianto né gioielli, né abiti, né eleganze, né la mollezza dei divani, né il tepore profumato delle stanze imbottite di tappezzerie, né la dolcezza delle piume in cui si immerge il corpo per il riposo. Aveva avuto sempre bisogno soltanto di lui; purché fosse lì, con lei, non desiderava nulla. Aveva abbandonato la vita, ancora giovane, e la compagnia della gente, e coloro che l’avevano educata e amata. Ed era venuta, sola con lui, in quel borro selvaggio. E lui era stato tutto per lei, tutto ciò che si può desiderare, che si può sognare, tutto quello che sempre si aspetta, che si spera indefinitamente. Lui aveva riempito di gioia la sua esistenza, dal principio alla fine. E lei non avrebbe potuto essere più felice. E per tutta la notte, ascoltando il respiro rauco del vecchio soldato disteso sul giaciglio accanto a colei che l’aveva seguito così lontano, pensai a quella strana e semplice avventura, a quella felicità così completa, fatta di così poco. Me ne andai al levar del sole, dopo aver stretto la mano ai vecchi coniugi>>.
Il narratore tacque. Una donna disse:
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Un’altra disse lentamente:
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E laggiù, all’estremo orizzonte, la Corsica affondava nella notte, rientrando lentamente nel mare, e cancellava la sua grande ombra apparsa come per raccontare lei stessa la storia dei due umili amanti che le sue rive ospitavano.
Miglior risposta
Ciao Gianni,
prova magari a dare un'occhiata qua: https://giorgiobaruzzi.altervista.org/blog/guy-de-maupassant-la-felicita/
Ciao,
Giorgia.
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Ciao,
Giorgia.
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