Parafraasi odissea libro V versi da 149 a 224 (14184)
perfavore è il secondo topic che scrivo dmn ho interrogazione su epica mi servono sti versi di parafrasi pls rispendete
Risposte
PREGO
grazie
Ma la patria bensì, gli amici e l'alto
Riveder suo palagio, è a lui destino”.
Inorridì Calipso, e con alate
Parole rispondendo: “Ah, numi ingiusti,”
Sclamò, “che invidia non più intesa è questa,
Che se una dea con maritale amplesso
Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?
Quando la tinta di rosato Aurora
Orïone rapì, voi, dèi, cui vita
Facile scorre, acre livor mordea,
Finché in Ortigia il rintracciò la casta
Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa
Morte il colpì con invisibil dardo.
E allor che venne, inanellata il crine,
Cerere a Giasïon tutta amorosa,
E nel maggese, che il pesante aratro
Tre volte aperto avea, se gli concesse,
Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise
Giasïon con la folgore affocata.
Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco
Mi vedete un eroe da me serbato,
Che solo stava in su i meschini avanzi
Della nave, che il telo igneo di Giove
Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.
Io raccogliealo amica, io lo nutria
Gelosamente, io prometteagli eterni
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.
Ma quando troppo è ver che alcun di Giove
Precetto vïolare a un altro nume
Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,
Se il comandò l'Egidarmato, i campi
Non seminati. Io nol rimando certo;
Ché navi a me non sono e non compagni,
Che del mare il carreggino sul tergo.
Ben sovverrógli di consiglio, e il modo
Gli additerò, che alla sua dolce terra
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso”.
“Ogni modo il rimanda,” l'Argicida
Soggiunse, “e pensa che infiammarsi d'ira
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno”.
E sul fin di tai detti a lei si tolse.
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché della ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
“Sciagurato”, gli disse, in questi pianti
“Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioia dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno”.
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e: “O dea”, rispose
Con alate parole, “altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Riveder suo palagio, è a lui destino”.
Inorridì Calipso, e con alate
Parole rispondendo: “Ah, numi ingiusti,”
Sclamò, “che invidia non più intesa è questa,
Che se una dea con maritale amplesso
Si congiunge a un mortal, voi non soffrite?
Quando la tinta di rosato Aurora
Orïone rapì, voi, dèi, cui vita
Facile scorre, acre livor mordea,
Finché in Ortigia il rintracciò la casta
Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa
Morte il colpì con invisibil dardo.
E allor che venne, inanellata il crine,
Cerere a Giasïon tutta amorosa,
E nel maggese, che il pesante aratro
Tre volte aperto avea, se gli concesse,
Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise
Giasïon con la folgore affocata.
Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco
Mi vedete un eroe da me serbato,
Che solo stava in su i meschini avanzi
Della nave, che il telo igneo di Giove
Nel mare oscuro gli percosse e sciolse.
Io raccogliealo amica, io lo nutria
Gelosamente, io prometteagli eterni
Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni.
Ma quando troppo è ver che alcun di Giove
Precetto vïolare a un altro nume
Non lice, od obblïar, parta egli e solchi,
Se il comandò l'Egidarmato, i campi
Non seminati. Io nol rimando certo;
Ché navi a me non sono e non compagni,
Che del mare il carreggino sul tergo.
Ben sovverrógli di consiglio, e il modo
Gli additerò, che alla sua dolce terra
Su i perigliosi flutti ei giunga illeso”.
“Ogni modo il rimanda,” l'Argicida
Soggiunse, “e pensa che infiammarsi d'ira
Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno”.
E sul fin di tai detti a lei si tolse.
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché della ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
“Sciagurato”, gli disse, in questi pianti
“Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioia dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno”.
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e: “O dea”, rispose
Con alate parole, “altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
i versi da 149 a 224
dimmi i versi