Odissea (42643)

giulia3b
Alla spelonca divenuti in breve,
Lui non trovammo, che per l'erte cime
Le pecore lanigere aderbava. 275
Entrati, gli occhi stupefatti in giro
Noi portavam: le aggraticciate corbe
Cedeano al peso de' formaggi, e piene
D'agnelli e di capretti eran le stalle:
E i più grandi, i mezzani, i nati appena, 280
Tutti, come l'etade, avean del pari
Lor propria stanza, e i pastorali vasi,
Secchie, conche, catini, ov'ei le poppe
Premer solea delle feconde madri,
Entro il siere nôtavano. Qui forte 285
I compagni pregavanmi che, tolto
Pria di quel cacio, si tornasse addietro,
Capretti s'adducessero ed agnelli
Alla nave di fretta, e in mar s'entrasse.
Ma io non volli, benché il meglio fosse: 290
Quando io bramava pur vederlo in faccia,
E trar doni da lui, che rïuscirci
Ospite sì inamabile dovea.
Racceso il foco, un sagrifizio ai numi
Femmo, e assaggiammo del rappreso latte: 295
Indi l'attendevam nell'antro assisi.

Venne, pascendo la sua greggia, e in collo
Pondo non lieve di risecca selva
Che la cena cocessegli, portando.
Davanti all'antro gittò il carco, e tale 300
Levòssene un romor, che sbigottiti
Nel più interno di quel ci ritraemmo.
Ei dentro mise le feconde madri,
E gl'irchi a cielo aperto, ed i montoni
Nella corte lasciò. Poscia una vasta 305
Sollevò in alto ponderosa pietra,
Che ventidue da quattro ruote e forti
Carri di loco non avrìano smossa,
E l'ingresso acciecò della spelonca.
Fatto, le agnelle, assiso, e le belanti 310
Capre mugnea, tutto serbando il rito,
E a questa i parti mettea sotto, e a quella.
Mezzo il candido latte insieme strinse,
E su i canestri d'intrecciato vinco
Collocollo ammontato; e l'altro mezzo, 315
Che dovea della cena esser bevanda,
Il ricevero i pastorecci vasi.

Di queste sciolto cotidiane cure,
Mentre il foco accendea, ci scòrse, e disse:
"Forestieri, chi siete? E da quai lidi 320
Prendeste a frequentar l'umide strade?
Siete voi trafficanti? O errando andate,
Come corsari che la vita in forse,
Per danno altrui recar, metton su i flutti?"
Della voce al rimbombo, ed all'orrenda 325
Faccia del mostro, ci s'infranse il core.
Pure io così gli rispondea: Siam Greci
Che di Troia partiti e trabalzati
Su pel ceruleo mar da molti venti
Cercando il suol natìo, per altre vie, 330
E con vïaggi non pensati, a queste
(Così piacque agli dèi), sponde afferrammo.
Seguimmo, e cen vantiam, per nostro capo
Quell'Atrìde Agamennone che il mondo
Empièo della sua fama, ei che distrusse 335
Città sì grande, e tante genti ancise.
Ed or, prostesi alle ginocchia tue,
Averci ti preghiam d'ospiti in grado,
E d'un tuo dono rimandarci lieti.
Ah! temi, o potentissimo, gli dèi: 340
Che tuoi supplici siam, pensa, e che Giove
Il supplicante vendica, e l'estrano,
Giove ospital, che l'accompagna e il rende
Venerabile altrui". Ciò detto, io tacqui.

Ed ei con atroce alma: "O ti fallisce 345
Straniero, il senno, o tu di lunge vieni,
Che vuoi che i numi io riverisca e tema.
L'Egidarmato di Saturno figlio
Non temono i Ciclopi, o gli altri iddii:
Ché di loro siam noi molto più forti. 350
Né perché Giove inimicarmi io debba,
A te concederò perdono, e a questi
Compagni tuoi, se a me il mio cor nol detta.
Ma dimmi: ove approdasti? All'orlo estremo
Di questa terra, o a più propinquo lido?" 355
Così egli tastommi; ed io, che molto
D'esperïenza ricettai nel petto,
Ravvìstomi del tratto, incontanente
Arte in tal modo gli rendei per arte:
"Nettuno là, 've termina e s'avanza 360
La vostra terra con gran punta in mare,
Spinse la nave mia contra uno scoglio,
E le spezzate tavole per l'onda
Sen portò il vento. Dall'estremo danno
Con questi pochi io mi sottrassi appena". 365
Nulla il barbaro a ciò: ma, dando un lancio,
La man ponea sovra i compagni, e due
Brancavane ad un tempo, e, quai cagnuoli,
Percoteali alla terra, e ne spargea
Le cervella ed il sangue. A brano a brano 370
Dilacerolli, e s'imbandì la cena.
Qual digiuno leon, che in monte alberga,
Carni ed interïora, ossa e midolle,
Tutto vorò, consumò tutto. E noi
A Giove ambo le man tra il pianto alzammo, 375
Spettacol miserabile scorgendo
Con gli occhi nostri, e disperando scampo.

Poiché la gran ventraia empiuto s'ebbe,
Pasteggiando dell'uomo, e puro latte
Tracannandovi sopra, in fra le agnelle 380
Tutto quant'era ei si distese, e giacque.
Io, di me ricordandomi, pensai
Fàrmigli presso, e la pungente spada
Tirar nuda dal fianco, e al petto, dove
La coràta dal fegato si cinge, 385
Ferirlo. Se non ch'io vidi che certa
Morte noi pure incontreremmo, e acerba:
Che non era da noi tôr dall'immenso
Vano dell'antro la sformata pietra
Che il Ciclope fortissimo v'impose. 390
Però, gemendo, attendevam l'aurora.

Sorta l'aurora, e tinto in roseo il cielo,
Il foco ei raccendea, mugnea le grasse
Pecore belle, acconciamente il tutto,
E i parti a questa mettea sotto e a quella. 395
Né appena fu delle sue cure uscito,
Che altri due mi ghermì de' cari amici,
E carne umana desinò. Satollo,
Cacciava il gregge fuor dell'antro, tolto
Senza fatica il disonesto sasso, 400
Che dell'antro alla bocca indi ripose,
Qual chi a farètra il suo coverchio assesta.
Poi su pel monte si mandava il pingue
Gregge davanti, alto per via fischiando.

Ed io tutti a raccolta i miei pensieri 405
Chiamai, per iscoprir come di lui
Vendicarmi io potessi, e un'immortale
Gloria comprarmi col favor di Palla.
Ciò al fin mi parve il meglio. Un verde, enorme
Tronco d'oliva, che il Ciclope svelse 410
Di terra, onde fermar con quello i passi,
Entro la stalla a inaridir giacea.
Albero scorger credevam di nave
Larga, mercanteggiante, e l'onde brune
Con venti remi a valicare usata: 415
Sì lungo era e sì grosso. Io ne recisi
Quanto è sei piedi, e la recisa parte
Diedi ai compagni da polirla. Come
Polita fu, da un lato io l'affilai,
L'abbrustolai nel foco, e sotto il fimo, 420
Ch'ivi in gran copia s'accogliea, l'ascosi.
Quindi a sorte tirar coloro io feci,
Che alzar meco dovessero, e al Ciclope
L'adusto palo conficcar nell'occhio,
Tosto che i sensi gli togliesse il sonno. 425
Fortuna i quattro, ch'io bramava, appunto
Donommi, e il quinto io fui. Cadea la sera,
E dai campi tornava il fier pastore,
Che la sua greggia di lucenti lane
Tutta introdusse nel capace speco: 430
O di noi sospettasse, o prescrivesse
Così il Saturnio. Novamente imposto
Quel, che rimosso avea, disconcio masso,
Pecore e capre alla tremola voce
Mungea sedendo, a maraviglia il tutto, 435
E a questa mettea sotto e a quella i parti.
Fornita ogni opra, m'abbrancò di nuovo
Due de' compagni, e cenò d'essi il mostro.
Allora io trassi avanti, e, in man tenendo
D'edra una coppa: "Te' Ciclope", io dissi: 440
"Poiché cibasti umana carne, vino
Bevi ora, e impara, qual su l'onde salse
Bevanda carreggiava il nostro legno.
Questa, con cui libar, recarti io volli,
Se mai, compunto di nuova pietade, 445
Mi rimandassi alle paterne case.
Ma il tuo furor passa ogni segno. Iniquo!
Chi più tra gl'infiniti uomini in terra
Fia che s'accosti a te? Male adoprasti".

La coppa ei tolse, e bevve, ed un supremo 450
Del soave licor prese diletto,
E un'altra volta men chiedea: "Straniero,
Darmene ancor ti piaccia, e mi palesa
Subito il nome tuo, perch'io ti porga
L'ospital dono che ti metta in festa. 455
Vino ai Ciclopi la feconda terra
Produce col favor di tempestiva
Pioggia, onde Giove le nostre uve ingrossa:
Ma questo è ambrosia e nèttare celeste".

Un'altra volta io gli stendea la coppa. 460
Tre volte io la gli stesi; ed ei ne vide
Nella stoltezza sua tre volte il fondo.
Quando m'accorsi che saliti al capo
Del possente licor gli erano i fumi,
Voci blande io drizzavagli: "Il mio nome 465
Ciclope, vuoi? L'avrai: ma non frodarmi
Tu del promesso a me dono ospitale.
Nessuno è il nome; me la madre e il padre
Chiaman Nessuno, e tutti gli altri amici".
Ed ei con fiero cor: "L'ultimo ch'io 470
Divorerò, sarà Nessuno. Questo
Riceverai da me dono ospitale".

Disse, diè indietro, e rovescion cascò.
Giacea nell'antro con la gran cervice
Ripiegata su l'omero: e dal sonno, 475
Che tutti doma, vinto, e dalla molta
Crapula oppresso, per la gola fuori
Il negro vino e della carne i pezzi,
Con sonanti mandava orrendi rutti.
Immantinente dell'ulivo il palo 480
Tra la cenere io spinsi; e in questo gli altri
Rincorava, non forse alcun per tema
M'abbandonasse nel miglior dell'opra.
Come, verde quantunque, a prender fiamma
Vicin mi parve, rosseggiante il trassi 485
Dalle ceneri ardenti, e al mostro andai
Con intorno i compagni: un dio per fermo
D'insolito ardimento il cor ci armava.
Quelli afferrâr l'acuto palo, e in mezzo
Dell'occhio il conficcaro; ed io di sopra, 490
Levandomi su i piè, movealo in giro.
E come allor che tavola di nave
Il trapano appuntato investe e fora,
Che altri il regge con mano, altri tirando
Va d'ambo i lati le corregge, e attorno 495
L'instancabile trapano si volve:
Sì nell'ampia lucerna il trave acceso
Noi giravamo. Scaturiva il sangue,
La pupilla bruciava, ed un focoso
Vapor, che tutta la palpèbra e il ciglio 500
Struggeva, uscìa della pupilla, e l'ime
Crepitarne io sentìa rotte radici.
Qual se fabbro talor nell'onda fredda
Attuffò un'ascia o una stridente scure,
E temprò il ferro, e gli diè forza; tale, 505
L'occhio intorno al troncon cigola e frigge.


MI PARAFRASATE QUESTA PARTE?? GRAZIE

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