Italiano gentilmente
La monarchia PRIMA PARTE DEL BRANO: COMPRENSIONE
completta la seguente tabella
PAROCEDIMENTI
VIRTù IMPLICATE
AUTORI
GUIDE
APPROFONDIMENTI
Rifletti sul modo in cui,in questo capitolo Dante affronta il tema della pace ,facendo opportuni riferimenti al contesto storico e alle vicende personali dell'autore.
completta la seguente tabella
PAROCEDIMENTI
VIRTù IMPLICATE
AUTORI
GUIDE
APPROFONDIMENTI
Rifletti sul modo in cui,in questo capitolo Dante affronta il tema della pace ,facendo opportuni riferimenti al contesto storico e alle vicende personali dell'autore.
Risposte
http://it.wikipedia.org/wiki/De_Monarchia PER QUANTO RIGUARDA LA PRIMA PARTE, IL RESTO sono miei appunti di scuola superiore.
Jessica, sei pregata di aggiungere le fonti da cui prendi le informazioni.
È d'obblig se non sono cose scritte da te mettere la fonte.
Ciao Laura!
È d'obblig se non sono cose scritte da te mettere la fonte.
Ciao Laura!
Nel libro I si dimostra, innanzitutto, la necessità di avere un singolo Monarca. Si descrive come solo un unico Monarca sarebbe in grado di tendere verso il bene comune, in quanto egli soltanto può rappresentare l'insieme degli uomini. Il Monarca è sopra ogni passione, dove invece i singoli cadono.
libro II: Cap. 1. Dante esordisce dicendo c’è stato un tempo in cui egli si meravigliava del fatto che il popolo romano fosse diventato padrone del mondo e ne individuava il motivo nella forza delle armi. Poi, guardando più in profondità, capì che tutto ciò era invece un disegno della divina provvidenza: allo stupore subentrò la derisione per lo sforzo vano delle nazioni che tumultuarono contro il dominio di Roma. Dopo la derisione deve insorgere, in un uomo impegnato, la luce della correzione: egli dunque scriverà e diraderà le nebbie che offuscano gli occhi di re e principi. La soluzione del problema è chiarita non solo alla luce dell’umana ragione, ma anche alla luce della grazia divina.
Cap. 2. La questione è la seguente: il popolo romano si è attribuito di diritto o meno l’Impero universale? Come l’arte si presenta in tre gradi, nella mente dell’artista, nello strumento e nella materia, così anche la natura può essere indagata in tre gradi: infatti è nella mente di Dio, poi nel cielo (strumento) e dunque nella realtà. E come, se l’artista e lo strumento sono perfetti, se c’è difetto nell’opera finita, bisogna attribuirlo solo alla materia, così, siccome Dio e il cielo non hanno difetto alcuno, ogni difetto è nella materia e ogni bene deriva da Dio e poi dal cielo. Quindi il “diritto”, essendo un bene, è nella mente di Dio, è Dio ed è voluto da Lui nel massimo grado. Il diritto qui sulla terra è un'immagine della volontà di Dio, per questo tutto ciò che non concorda con la volontà di Dio non è diritto, e viceversa. Ma la volontà di Dio è imperscrutabile: la dovremo indagare perciò per mezzo di indizi e un’attenta considerazione delle sue opere.
Cap. 3. I Romani non hanno usurpato il ruolo di Monarca nel mondo perché al più nobile dei popoli spetta l’Impero e i Romani furono la gente più nobile. Dante riporta poi esempi tratti dall’Eneide virgiliana per dimostrare la nobiltà del popolo romano e la predestinazione divina affinché Roma fosse la guida del mondo.
Cap. 4. Ciò che raggiunge la propria perfezione con l’aiuto di miracoli è voluto da Dio ed avviene perciò di diritto, quindi è sacrosanto ammettere che il miracolo sia opera di Dio: l’Impero romano, per realizzarsi, ha avuto bisogno di miracoli, dunque è voluto da Dio, quindi ha il diritto di esistere. Che Dio abbia operato dei miracoli per affermare Roma sul mondo è attestato dagli antichi scrittori.
Cap. 5. Chi mira al bene dello stato mira al fine del diritto; infatti li diritto è un rapporto reale fra uomo e uomo il quale, mantenuto, mantiene la società, corrotto, la corrompe: se il fine di ogni società è il fine dei suoi membri, è necessario che il fine del diritto sia il bene comune, e se il diritto, cioè le leggi, non fosse diretto all’utilità degli uomini, non sarebbe un vero diritto. Dunque se i romani hanno mirato al bene dello stato, hanno mirato al diritto. E ciò si vede bene, considerando le imprese dei romani nelle quali, annullando la cupidigia e amando la pace, hanno trascurato il proprio utile. Le buone intenzioni del popolo romano sono riportate da illustri scrittori, tra i quali Cicerone. Dante riporta i casi di singole persone che eroicamente hanno composto la gloria di Roma: Cincinnato, Fabrizio, Camillo, Bruto, Muzio Scevola, Catone. Chi mira al fine del diritto, procede secondo il diritto; Roma ha mirato al fine del diritto, quindi giustamente è stata arbitra del mondo. Raggiungere il fine del diritto, senza averne diritto, è come, secondo Dante, elargire un’elemosina attingendo da una refurtiva, cosa che, se fosse invece fatta con i propri averi, sarebbe giusta. Quindi in ogni caso il popolo romano si è attribuito di diritto la dignità dell’impero universale.
Cap. 6. Ciò che la natura ha ordinato si conserva di diritto. L’ordine della natura delle cose si conserva solo con il diritto. E il popolo romano è stato ordinato dalla natura all’impero: infatti, come un’artista che trascura i mezzi e mira solo al fine non raggiunge la perfezione, così la natura, se mirasse soltanto al fine delle cose, farebbe cose imperfette. Ma, essendo essa opera di Dio, non può essere imperfetta. Siccome il fine dell’uomo è uno dei mezzi necessari al fine della natura, la natura mira ad essa. E poiché non può raggiungere tale scopo per mezzo di un solo uomo, ma per mezzo di molti, è necessario che la natura produca una moltitudine di uomini. Non v’è dunque dubbio alcuno che la natura abbia predisposto nel mondo un luogo e un popolo per l’impero universale: Roma. Seguono testimonianze d’illustri scrittori romani.
Cap. 7. Il giudizio di Dio sull’uomo, a volte è chiaro, a volte no. Se è chiaro, lo può essere in due modi: per ragione e per fede. Se è nascosto non può essere compreso né per ragione né per fede, ma per grazie speciali: questo accade in diversi modi, per rivelazione o mediante una prova. Per rivelazione in due modi: per volontà di Dio o per mezzo di preghiere; per volontà di Dio in due modi: direttamente o tramite un segno. Mediante una prova in due modi: per sorteggio o per contesa. Per contesa in due modi: attraverso lo scontro di due forze o attraverso una competizione tra più concorrenti. Mentre nel primo modo i duellanti possono ostacolarsi a vicenda, nel secondo no. Gli argomenti della competizione e dei campioni saranno svolti nel seguito.
Cap. 8. Quel popolo vincitore della gara per l’Impero è arrivato primo per giudizio di Dio. Il popolo romano è giunto primo nell’egemonia del mondo a dispetto di Nino e Semiramide, Vesage, re egiziano, Ciro, Serse, Alessandro, colui che più d’ogni altro si avvicinò all’Impero universale.
Cap. 9. Ciò che si ottiene in duello, si ottiene di diritto. Infatti qualora il giudizio umano venisse meno, bisognerebbe interpellare quello divino. Le condizioni essenziali di un duello sono due: primo, ricorrere al duello solo in casi estremi, dopo aver percorso ogni via possibile, secondo, scendere in campo non per odio, ma per pura esigenzIl tumulto contro l’Impero Romano è opera soprattutto dei religiosi che si dicono seguaci della fede cristiana. Se l’Impero Romano non fosse avvenuto di diritto, Cristo, con la sua nascita, avrebbe sanzionato un’ingiustizia. Ciò è falso, è dunque vero il contrario. Infatti chi si attiene a un editto, sanziona che esso è giusto. Ma Cristo, nascendo sotto l’editto e la giurisdizione romana, ha sanzionato tale autorità di diritto, e Augusto imperatore di Roma.
Cap. 11. Se l’Impero romano non fosse esistito di diritto, il peccato di Adamo non sarebbe stato espiato da Cristo. Ciò è falso: è vera la premessa; infatti, se ci fosse ancora l’antico peccato, saremmo ancora figli dell’ira: ciò non è. Smettano dunque gli avversari di Roma di condannare l’Impero sacrosanto, sanzionato da Cristo con la sua nascita e morte.
Libro III: Cap. 1. Non resta che affrontare la terza ed ultima questione, il rapporto tra Pontefice e Monarca, la cui soluzione sarà forse motivo di scandalo, ma, poiché bisogna amare la verità al di sopra di tutto, Dante non si sofferma davanti a nessun ostacolo sociale. Il problema è dunque il seguente: l’autorità del sommo Monarca dipende da Dio o dal suo vicario in terra, il papa?
Cap. 2. Bisogna assumere, come già fatto negli altri libri, un fondamento logico sul quale fondare i propri argomenti e trovare la soluzione al problema. Ora il fondamento è questo: Dio non approva ciò che ostacola l’intenzione della natura, la cui dimostrazione può essere fatta in diversi modi.
Cap. 3. Dante ricorda che la prima questione è stato risolta per combattere l’ignoranza, più che risolvere un conflitto ideologico, la seconda per eliminare l’ignoranza e il conflitto. Invece la soluzione della terza implica un grande conflitto che diventa motivo d’ignoranza. Agli uomini spesso accade d’essere travolti dalle passioni, di abbandonare la via della ragione, sì che si fa strada non soltanto la falsità, ma anche l’uscire fuori dalla competenza. Alla soluzione di questo problema si oppongono tre persone: il papa e i suoi seguaci, quelli ottenebrati dalla cupidigia, cristiani solo di nome, e i “decretalisti”, falsi teologi, seguaci dei Decretali, la cui autorità deve essere posposta a quella di Cristo. Dante si rivolge ai veri cristiani che semplicemente ignorano la verità.
Cap. 4. Questo capitolo e i seguenti sono rivolti a coloro che, erroneamente, argomentano che il potere temporale derivi da quello spirituale. Dalla Bibbia prendono lo spunto dall’immagine dei due astri (sole e luna = potere spirituale, temporale), ma essi sono in errore. Si può errare in due modi: assumendo un qualcosa di falso, oppure ragionando in modo falso. Riguardo al significato delle Scritture si erra in due modi: cercandolo dove esso non c’è, oppure interpretandolo in modo errato. Si può dunque dimostrare in due modi l’allegoria degli astri. In primo luogo perché, essendo i poteri “accidenti” dell’uomo, Dio avrebbe rovesciato l’ordine creando prima questi (nel quarto giorno) che l’uomo (nel sesto giorno): ciò è assurdo. In secondo luogo, essendo i poteri guide verso fini, se l’uomo fosse rimasto innocente come Dio l’aveva creato, non avrebbe avuto bisogno delle guide: i poteri sono dunque rimedi al peccato. E poiché nel quarto giorno l’uomo non era ancora peccatore, sarebbero stati rimedi inutili.
Cap. 5. Un altro falso argomento ricavato dalle Scritture è quello dei figli di Giacobbe, Levi e Giuda, allegorie dei poteri. Questo argomento è facilmente confutabile, pur ammettendo la premessa dei significati allegorici, considerando bene la natura del sillogismo.
Cap. 6. Inoltre, prendendo spunto dal libro dei Re, per quanto attiene all’investitura di re Saul, essi affermano che, come il vicario di Dio, cioè Samuele, ha avuto l’autorità di dare e togliere il potere temporale, così il papa, vicario di Cristo, può fare lo stesso. La confutazione parte dal presupposto che Samuele non è stato un vicario di Cristo, ma un semplice delegato. Sbagliato è quindi il sillogismo a cui si affidano.
Cap. 7. Ancora: affermano che i doni regalati dai Magi a Cristo simboleggiano i due poteri e quindi il vicario di Cristo ha potere sulle cose spirituali e temporali allo stesso tempo. Anche in questo caso è errato il sillogismo: il vicario non equivale a Dio, ma è soltanto un’espressione ridotta della potenza divina.
Cap. 8. Ancora: dal Vangelo argomentano dalle parole di Cristo a Pietro: “Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata nei cieli”. Da ciò argomentano che il successore di Pietro può sciogliere e legare ogni cosa per concessione di Dio. Attenti a quell’ “ogni cosa” ! Se ciò fosse preso alla lettera, il papa potrebbe sciogliere un matrimonio, sciogliere i peccati anche senza pentimento ecc. Perciò l’espressione non va interpretata in senso assoluto, ma rispetto a qualcosa. Che cosa? Dice Cristo a Pietro: “Ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”. Perciò quell’ “ogni cosa” significherà “qualunque cosa riguarderà il tuo ufficio”. Le leggi dell’Impero riguardano l’ufficio papale? No, come sarà dimostrato in seguito.
Cap. 9. Ancora dal Vangelo; Pietro, in occasione della Pasqua, disse a Cristo: “Ecco due spade”; essi sostengono che queste due spade rappresentano i due poteri, entrambi nelle mani di lui. Ciò è falso, sia perché la risposta non sarebbe adeguata all’intenzione di Cristo, sia perché Pietro era solito rispondere in maniera immediata e irriflessiva (si rilegga il brano dal Vangelo di Luca).
Cap. 10. Un altro argomento preso a vessillo della loro teoria è la donazione di Costantino a papa Silvestro del territorio della Chiesa. Ma Costantino non poteva di diritto fare questo, cioè privarsi di una parte del territorio e donarla ad altri, perché contro le leggi. Inoltre sia la Chiesa che l’Impero hanno i loro fondamenti distinti, né è lecito pretendere l’uno dall’altro. Il fondamento della Chiesa è Cristo, quello dell’Impero è il diritto umano. Inoltre ogni giurisdizione esiste prima del suo giudice: l’Impero è una giurisdizione, dunque è anteriore al suo giudice, l’Imperatore. Perciò egli non può trasferire la sua giurisdizione ad altri, ricevendo da essa la sua stessa esistenza. Inoltre la Chiesa, nata povera, non aveva il diritto di accettare un dono così significativo.
Cap. 11. Ancora, da Aristotele: tutto quello che appartiene ad una stessa categoria deve essere riferito ad una sola unità: gli uomini, unica categoria, devono essere riferiti ad una sola unità. Anche il papa e l’imperatore, essendo uomini, devono sottostare a questa verità. Ma il papa non può essere riferito ad altri, l’Imperatore deve essere riferito a lui. Ancora una volta è errato il sillogismo: una cosa è essere uomo, un’altra papa o imperatore. Quindi, essendo uomini, devono entrambi essere riferiti ad un unico ente, Dio.
Cap. 12. Dimostrati falsi gli errori, bisogna dimostrare la vera soluzione del problema. Sarà sufficiente dimostrare che l’autorità imperiale dipende semplicemente da Dio. La dimostrazione è che l’autorità della Chiesa è separata da quella dell’Impero, perché l’Impero è precedente ad essa, e non soggetto ad alcuna dipendenza di virtù. Inoltre, se Costantino non avesse avuto autorità, non avrebbe potuto assegnare alla Chiesa quei beni che le ha assegnato, e la Chiesa usufruirebbe ingiustamente di quella donazione.
Cap. 13. Se la Chiesa avesse la facoltà d’autorità sull’Imperatore, l’avrebbe o da Dio, o da sé stessa, o da un Imperatore, o dal consenso di tutti gli uomini. Essa, in verità, non l’ha ricevuta da alcuna di queste vie: non la possiede. Non da Dio, perché non si trova passo nell’Antico Testamento che lo affermi, anzi vi sono luoghi dove si afferma il contrario, né dalla natura, a completo servizio di Dio, né da sé stessa perché nulla può dare ciò che non ha. È ovvio e anche fastidioso dimostrare che né l’Imperatore né il popolo abbiano avuto il potere di fare una cosa del genere.
Cap. 14. Inoltre l’esercizio dell’autorità temporale è contro la natura della Chiesa, quindi non rientra nelle sue facoltà. Infatti la natura della Chiesa è la sua stessa forma, cioè Cristo ed i Suoi insegnamenti. Cristo disse: “Il mio regno non è di questo mondo”. Non osservare questo comandamento è non seguire la forma della Chiesa.
Cap. 15. Ancora resta da dimostrare come l’autorità dell’Impero discenda direttamente da Dio. Bisogna considerare che l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le cose incorruttibili, racchiudendo in sé stesso entrambe le nature (corpo e anima), quindi è necessario che partecipi ad entrambe. E poiché ogni natura è ordinata ad un fine, ne consegue che esiste un duplice fine, uno corruttibile e uno incorruttibile, la felicità in questa vita e la felicità nella vita eterna. Alla prima si giunge per mezzo della filosofia, alla seconda per mezzo della teologia. Perciò l’uomo ha anche bisogno di due guide, il papa per la vita eterna, e l’Imperatore per realizzare la vita terrena. Ma Dio è il solo che ha predisposto questo ordinamento, provvedendo egli stesso a collocare ogni cosa secondo i suoi piani. La soluzione della presente questione non va però fraintesa: l’Imperatore deve essere un po’ subordinato al papa, così come la felicità terrena è subordinata a quella ultraterrena. Cesare dunque si rivolga a Pietro con quel rispetto che un figlio primogenito deve al padre, affinché, irradiato dalla luce del padre, possa illuminare egli stesso con più efficacia il mondo.
VITA E CONTESTO STORICO
Nacque a Firenze da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà cittadina. Il fatto di essere nobile ha inciso molto nell’orgoglio di Dante, che non ci fornisce mai notizie sulla sua famiglia. A 8-9 anni perse la madre. Il padre si risposò e morì quando Dante aveva 18 anni. Venne educato come un gentiluomo dell’epoca studiando retorica, poesia, filosofia e dispose di molte amicizie con le quali discutere d’amore e politica. Nel 1274 conosce Bice di Folco Portinari, che sarà la Beatrice da egli tanto amata. La famiglia della giovane era ricchissima e risiedeva vicino agli Alighieri. Ella per Dante fu solo un amore platonico. Fa risalire il loro primo incontro all’età di nove anni e il secondo circa nove anni dopo. Nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino contro i Ghibellini. Dopo il 1290 la situazione a Firenze divenne insostenibile per i vari sanguinosi scontri. I priori successivi a Dante richiamarono i Guelfi Bianchi a Firenze ma i Neri si allearono con il papa per tornare in patria aiutati dal fatto che alcuni di loro erano suoi personali banchieri. Nel 1300 Dante si reca a Roma a sondare le intenzioni di Bonifacio VIII, ma non ottenendo buoni risultati, torna a Firenze. Nel 1301 il papa incarica il fratello del re di Francia Carlo di Valois di entrare a Firenze con delle truppe Francesi per portare ordine e pace e far rientrare i Neri. Dopo il loro ritorno dall’esilio iniziò un lungo periodo di scontri e saccheggi. Nel 1302 i Neri accusarono Dante di essersi arricchito facendo politica. Per rimanere a Firenze deve:
PAGARE UNA MULTA; NON FARE PIÙ POLITICA; CHIEDERE SCUSA.
Si rifiuta di fare ciò e viene condannato all’esilio. A Dante rimane quindi solo il suo talento e così decide di offrirsi come segretario di molte ricche famiglie. Coloro

che diedero maggiore sostegno a Dante furono: i Malaspina (nord della Toscana), i Da Camino (Treviso), i Della Scala (Verona), i Da Polenta (Ravenna) e gli Scaligeri (Verona, Padova, Vicenza e per un po’ anche Treviso). Colui che dà fiducia a Dante è Cangrande Della Scala a cui Dante dedicherà una lettera nel Paradiso. Nel 1310 scende in Italia Arrigo VII di Lussemburgo che rappresenta l’unica speranza per Dante di tornare in patria. Il poeta comincia a simpatizzare per i Ghibellini. Nel 1313 Arrigo muore senza aver risolto nulla e viene sepolto a Siena. A Dante rimane solo la speranza di rientrare in patria come grande poeta ma i fiorentini non lo considerano tale. Nel 1315 viene proclamata l’amnistia e gli esuli possono rientrare a Firenze a patto che confessino le loro colpe; il poeta nemmeno questa volta accetta e gli viene riconfermato l’esilio. Nel 1318 abbandona Verona e si trasferisce a Ravenna, dove muore nel 1321.
PARTICOLARITÁ
Dante è uno dei pochi poeti che si è occupato di politica. Era fondamentale in quel periodo appartenere ad una corporazione e D. non potendo iscriversi a quella degli scrittori, poiché non esisteva, si iscrisse a quella dei medici. Per lui la politica era il modo per esorcizzare la morte di Beatrice e manifestare le sue convinzioni.
Troviamo un ritratto di Dante tendente all’anacronistico.
libro II: Cap. 1. Dante esordisce dicendo c’è stato un tempo in cui egli si meravigliava del fatto che il popolo romano fosse diventato padrone del mondo e ne individuava il motivo nella forza delle armi. Poi, guardando più in profondità, capì che tutto ciò era invece un disegno della divina provvidenza: allo stupore subentrò la derisione per lo sforzo vano delle nazioni che tumultuarono contro il dominio di Roma. Dopo la derisione deve insorgere, in un uomo impegnato, la luce della correzione: egli dunque scriverà e diraderà le nebbie che offuscano gli occhi di re e principi. La soluzione del problema è chiarita non solo alla luce dell’umana ragione, ma anche alla luce della grazia divina.
Cap. 2. La questione è la seguente: il popolo romano si è attribuito di diritto o meno l’Impero universale? Come l’arte si presenta in tre gradi, nella mente dell’artista, nello strumento e nella materia, così anche la natura può essere indagata in tre gradi: infatti è nella mente di Dio, poi nel cielo (strumento) e dunque nella realtà. E come, se l’artista e lo strumento sono perfetti, se c’è difetto nell’opera finita, bisogna attribuirlo solo alla materia, così, siccome Dio e il cielo non hanno difetto alcuno, ogni difetto è nella materia e ogni bene deriva da Dio e poi dal cielo. Quindi il “diritto”, essendo un bene, è nella mente di Dio, è Dio ed è voluto da Lui nel massimo grado. Il diritto qui sulla terra è un'immagine della volontà di Dio, per questo tutto ciò che non concorda con la volontà di Dio non è diritto, e viceversa. Ma la volontà di Dio è imperscrutabile: la dovremo indagare perciò per mezzo di indizi e un’attenta considerazione delle sue opere.
Cap. 3. I Romani non hanno usurpato il ruolo di Monarca nel mondo perché al più nobile dei popoli spetta l’Impero e i Romani furono la gente più nobile. Dante riporta poi esempi tratti dall’Eneide virgiliana per dimostrare la nobiltà del popolo romano e la predestinazione divina affinché Roma fosse la guida del mondo.
Cap. 4. Ciò che raggiunge la propria perfezione con l’aiuto di miracoli è voluto da Dio ed avviene perciò di diritto, quindi è sacrosanto ammettere che il miracolo sia opera di Dio: l’Impero romano, per realizzarsi, ha avuto bisogno di miracoli, dunque è voluto da Dio, quindi ha il diritto di esistere. Che Dio abbia operato dei miracoli per affermare Roma sul mondo è attestato dagli antichi scrittori.
Cap. 5. Chi mira al bene dello stato mira al fine del diritto; infatti li diritto è un rapporto reale fra uomo e uomo il quale, mantenuto, mantiene la società, corrotto, la corrompe: se il fine di ogni società è il fine dei suoi membri, è necessario che il fine del diritto sia il bene comune, e se il diritto, cioè le leggi, non fosse diretto all’utilità degli uomini, non sarebbe un vero diritto. Dunque se i romani hanno mirato al bene dello stato, hanno mirato al diritto. E ciò si vede bene, considerando le imprese dei romani nelle quali, annullando la cupidigia e amando la pace, hanno trascurato il proprio utile. Le buone intenzioni del popolo romano sono riportate da illustri scrittori, tra i quali Cicerone. Dante riporta i casi di singole persone che eroicamente hanno composto la gloria di Roma: Cincinnato, Fabrizio, Camillo, Bruto, Muzio Scevola, Catone. Chi mira al fine del diritto, procede secondo il diritto; Roma ha mirato al fine del diritto, quindi giustamente è stata arbitra del mondo. Raggiungere il fine del diritto, senza averne diritto, è come, secondo Dante, elargire un’elemosina attingendo da una refurtiva, cosa che, se fosse invece fatta con i propri averi, sarebbe giusta. Quindi in ogni caso il popolo romano si è attribuito di diritto la dignità dell’impero universale.
Cap. 6. Ciò che la natura ha ordinato si conserva di diritto. L’ordine della natura delle cose si conserva solo con il diritto. E il popolo romano è stato ordinato dalla natura all’impero: infatti, come un’artista che trascura i mezzi e mira solo al fine non raggiunge la perfezione, così la natura, se mirasse soltanto al fine delle cose, farebbe cose imperfette. Ma, essendo essa opera di Dio, non può essere imperfetta. Siccome il fine dell’uomo è uno dei mezzi necessari al fine della natura, la natura mira ad essa. E poiché non può raggiungere tale scopo per mezzo di un solo uomo, ma per mezzo di molti, è necessario che la natura produca una moltitudine di uomini. Non v’è dunque dubbio alcuno che la natura abbia predisposto nel mondo un luogo e un popolo per l’impero universale: Roma. Seguono testimonianze d’illustri scrittori romani.
Cap. 7. Il giudizio di Dio sull’uomo, a volte è chiaro, a volte no. Se è chiaro, lo può essere in due modi: per ragione e per fede. Se è nascosto non può essere compreso né per ragione né per fede, ma per grazie speciali: questo accade in diversi modi, per rivelazione o mediante una prova. Per rivelazione in due modi: per volontà di Dio o per mezzo di preghiere; per volontà di Dio in due modi: direttamente o tramite un segno. Mediante una prova in due modi: per sorteggio o per contesa. Per contesa in due modi: attraverso lo scontro di due forze o attraverso una competizione tra più concorrenti. Mentre nel primo modo i duellanti possono ostacolarsi a vicenda, nel secondo no. Gli argomenti della competizione e dei campioni saranno svolti nel seguito.
Cap. 8. Quel popolo vincitore della gara per l’Impero è arrivato primo per giudizio di Dio. Il popolo romano è giunto primo nell’egemonia del mondo a dispetto di Nino e Semiramide, Vesage, re egiziano, Ciro, Serse, Alessandro, colui che più d’ogni altro si avvicinò all’Impero universale.
Cap. 9. Ciò che si ottiene in duello, si ottiene di diritto. Infatti qualora il giudizio umano venisse meno, bisognerebbe interpellare quello divino. Le condizioni essenziali di un duello sono due: primo, ricorrere al duello solo in casi estremi, dopo aver percorso ogni via possibile, secondo, scendere in campo non per odio, ma per pura esigenzIl tumulto contro l’Impero Romano è opera soprattutto dei religiosi che si dicono seguaci della fede cristiana. Se l’Impero Romano non fosse avvenuto di diritto, Cristo, con la sua nascita, avrebbe sanzionato un’ingiustizia. Ciò è falso, è dunque vero il contrario. Infatti chi si attiene a un editto, sanziona che esso è giusto. Ma Cristo, nascendo sotto l’editto e la giurisdizione romana, ha sanzionato tale autorità di diritto, e Augusto imperatore di Roma.
Cap. 11. Se l’Impero romano non fosse esistito di diritto, il peccato di Adamo non sarebbe stato espiato da Cristo. Ciò è falso: è vera la premessa; infatti, se ci fosse ancora l’antico peccato, saremmo ancora figli dell’ira: ciò non è. Smettano dunque gli avversari di Roma di condannare l’Impero sacrosanto, sanzionato da Cristo con la sua nascita e morte.
Libro III: Cap. 1. Non resta che affrontare la terza ed ultima questione, il rapporto tra Pontefice e Monarca, la cui soluzione sarà forse motivo di scandalo, ma, poiché bisogna amare la verità al di sopra di tutto, Dante non si sofferma davanti a nessun ostacolo sociale. Il problema è dunque il seguente: l’autorità del sommo Monarca dipende da Dio o dal suo vicario in terra, il papa?
Cap. 2. Bisogna assumere, come già fatto negli altri libri, un fondamento logico sul quale fondare i propri argomenti e trovare la soluzione al problema. Ora il fondamento è questo: Dio non approva ciò che ostacola l’intenzione della natura, la cui dimostrazione può essere fatta in diversi modi.
Cap. 3. Dante ricorda che la prima questione è stato risolta per combattere l’ignoranza, più che risolvere un conflitto ideologico, la seconda per eliminare l’ignoranza e il conflitto. Invece la soluzione della terza implica un grande conflitto che diventa motivo d’ignoranza. Agli uomini spesso accade d’essere travolti dalle passioni, di abbandonare la via della ragione, sì che si fa strada non soltanto la falsità, ma anche l’uscire fuori dalla competenza. Alla soluzione di questo problema si oppongono tre persone: il papa e i suoi seguaci, quelli ottenebrati dalla cupidigia, cristiani solo di nome, e i “decretalisti”, falsi teologi, seguaci dei Decretali, la cui autorità deve essere posposta a quella di Cristo. Dante si rivolge ai veri cristiani che semplicemente ignorano la verità.
Cap. 4. Questo capitolo e i seguenti sono rivolti a coloro che, erroneamente, argomentano che il potere temporale derivi da quello spirituale. Dalla Bibbia prendono lo spunto dall’immagine dei due astri (sole e luna = potere spirituale, temporale), ma essi sono in errore. Si può errare in due modi: assumendo un qualcosa di falso, oppure ragionando in modo falso. Riguardo al significato delle Scritture si erra in due modi: cercandolo dove esso non c’è, oppure interpretandolo in modo errato. Si può dunque dimostrare in due modi l’allegoria degli astri. In primo luogo perché, essendo i poteri “accidenti” dell’uomo, Dio avrebbe rovesciato l’ordine creando prima questi (nel quarto giorno) che l’uomo (nel sesto giorno): ciò è assurdo. In secondo luogo, essendo i poteri guide verso fini, se l’uomo fosse rimasto innocente come Dio l’aveva creato, non avrebbe avuto bisogno delle guide: i poteri sono dunque rimedi al peccato. E poiché nel quarto giorno l’uomo non era ancora peccatore, sarebbero stati rimedi inutili.
Cap. 5. Un altro falso argomento ricavato dalle Scritture è quello dei figli di Giacobbe, Levi e Giuda, allegorie dei poteri. Questo argomento è facilmente confutabile, pur ammettendo la premessa dei significati allegorici, considerando bene la natura del sillogismo.
Cap. 6. Inoltre, prendendo spunto dal libro dei Re, per quanto attiene all’investitura di re Saul, essi affermano che, come il vicario di Dio, cioè Samuele, ha avuto l’autorità di dare e togliere il potere temporale, così il papa, vicario di Cristo, può fare lo stesso. La confutazione parte dal presupposto che Samuele non è stato un vicario di Cristo, ma un semplice delegato. Sbagliato è quindi il sillogismo a cui si affidano.
Cap. 7. Ancora: affermano che i doni regalati dai Magi a Cristo simboleggiano i due poteri e quindi il vicario di Cristo ha potere sulle cose spirituali e temporali allo stesso tempo. Anche in questo caso è errato il sillogismo: il vicario non equivale a Dio, ma è soltanto un’espressione ridotta della potenza divina.
Cap. 8. Ancora: dal Vangelo argomentano dalle parole di Cristo a Pietro: “Qualunque cosa legherai sulla terra, sarà legata nei cieli”. Da ciò argomentano che il successore di Pietro può sciogliere e legare ogni cosa per concessione di Dio. Attenti a quell’ “ogni cosa” ! Se ciò fosse preso alla lettera, il papa potrebbe sciogliere un matrimonio, sciogliere i peccati anche senza pentimento ecc. Perciò l’espressione non va interpretata in senso assoluto, ma rispetto a qualcosa. Che cosa? Dice Cristo a Pietro: “Ti darò le chiavi del Regno dei Cieli”. Perciò quell’ “ogni cosa” significherà “qualunque cosa riguarderà il tuo ufficio”. Le leggi dell’Impero riguardano l’ufficio papale? No, come sarà dimostrato in seguito.
Cap. 9. Ancora dal Vangelo; Pietro, in occasione della Pasqua, disse a Cristo: “Ecco due spade”; essi sostengono che queste due spade rappresentano i due poteri, entrambi nelle mani di lui. Ciò è falso, sia perché la risposta non sarebbe adeguata all’intenzione di Cristo, sia perché Pietro era solito rispondere in maniera immediata e irriflessiva (si rilegga il brano dal Vangelo di Luca).
Cap. 10. Un altro argomento preso a vessillo della loro teoria è la donazione di Costantino a papa Silvestro del territorio della Chiesa. Ma Costantino non poteva di diritto fare questo, cioè privarsi di una parte del territorio e donarla ad altri, perché contro le leggi. Inoltre sia la Chiesa che l’Impero hanno i loro fondamenti distinti, né è lecito pretendere l’uno dall’altro. Il fondamento della Chiesa è Cristo, quello dell’Impero è il diritto umano. Inoltre ogni giurisdizione esiste prima del suo giudice: l’Impero è una giurisdizione, dunque è anteriore al suo giudice, l’Imperatore. Perciò egli non può trasferire la sua giurisdizione ad altri, ricevendo da essa la sua stessa esistenza. Inoltre la Chiesa, nata povera, non aveva il diritto di accettare un dono così significativo.
Cap. 11. Ancora, da Aristotele: tutto quello che appartiene ad una stessa categoria deve essere riferito ad una sola unità: gli uomini, unica categoria, devono essere riferiti ad una sola unità. Anche il papa e l’imperatore, essendo uomini, devono sottostare a questa verità. Ma il papa non può essere riferito ad altri, l’Imperatore deve essere riferito a lui. Ancora una volta è errato il sillogismo: una cosa è essere uomo, un’altra papa o imperatore. Quindi, essendo uomini, devono entrambi essere riferiti ad un unico ente, Dio.
Cap. 12. Dimostrati falsi gli errori, bisogna dimostrare la vera soluzione del problema. Sarà sufficiente dimostrare che l’autorità imperiale dipende semplicemente da Dio. La dimostrazione è che l’autorità della Chiesa è separata da quella dell’Impero, perché l’Impero è precedente ad essa, e non soggetto ad alcuna dipendenza di virtù. Inoltre, se Costantino non avesse avuto autorità, non avrebbe potuto assegnare alla Chiesa quei beni che le ha assegnato, e la Chiesa usufruirebbe ingiustamente di quella donazione.
Cap. 13. Se la Chiesa avesse la facoltà d’autorità sull’Imperatore, l’avrebbe o da Dio, o da sé stessa, o da un Imperatore, o dal consenso di tutti gli uomini. Essa, in verità, non l’ha ricevuta da alcuna di queste vie: non la possiede. Non da Dio, perché non si trova passo nell’Antico Testamento che lo affermi, anzi vi sono luoghi dove si afferma il contrario, né dalla natura, a completo servizio di Dio, né da sé stessa perché nulla può dare ciò che non ha. È ovvio e anche fastidioso dimostrare che né l’Imperatore né il popolo abbiano avuto il potere di fare una cosa del genere.
Cap. 14. Inoltre l’esercizio dell’autorità temporale è contro la natura della Chiesa, quindi non rientra nelle sue facoltà. Infatti la natura della Chiesa è la sua stessa forma, cioè Cristo ed i Suoi insegnamenti. Cristo disse: “Il mio regno non è di questo mondo”. Non osservare questo comandamento è non seguire la forma della Chiesa.
Cap. 15. Ancora resta da dimostrare come l’autorità dell’Impero discenda direttamente da Dio. Bisogna considerare che l’uomo è termine medio tra le cose corruttibili e le cose incorruttibili, racchiudendo in sé stesso entrambe le nature (corpo e anima), quindi è necessario che partecipi ad entrambe. E poiché ogni natura è ordinata ad un fine, ne consegue che esiste un duplice fine, uno corruttibile e uno incorruttibile, la felicità in questa vita e la felicità nella vita eterna. Alla prima si giunge per mezzo della filosofia, alla seconda per mezzo della teologia. Perciò l’uomo ha anche bisogno di due guide, il papa per la vita eterna, e l’Imperatore per realizzare la vita terrena. Ma Dio è il solo che ha predisposto questo ordinamento, provvedendo egli stesso a collocare ogni cosa secondo i suoi piani. La soluzione della presente questione non va però fraintesa: l’Imperatore deve essere un po’ subordinato al papa, così come la felicità terrena è subordinata a quella ultraterrena. Cesare dunque si rivolga a Pietro con quel rispetto che un figlio primogenito deve al padre, affinché, irradiato dalla luce del padre, possa illuminare egli stesso con più efficacia il mondo.
VITA E CONTESTO STORICO
Nacque a Firenze da una famiglia appartenente alla piccola nobiltà cittadina. Il fatto di essere nobile ha inciso molto nell’orgoglio di Dante, che non ci fornisce mai notizie sulla sua famiglia. A 8-9 anni perse la madre. Il padre si risposò e morì quando Dante aveva 18 anni. Venne educato come un gentiluomo dell’epoca studiando retorica, poesia, filosofia e dispose di molte amicizie con le quali discutere d’amore e politica. Nel 1274 conosce Bice di Folco Portinari, che sarà la Beatrice da egli tanto amata. La famiglia della giovane era ricchissima e risiedeva vicino agli Alighieri. Ella per Dante fu solo un amore platonico. Fa risalire il loro primo incontro all’età di nove anni e il secondo circa nove anni dopo. Nel 1289 partecipò alla battaglia di Campaldino contro i Ghibellini. Dopo il 1290 la situazione a Firenze divenne insostenibile per i vari sanguinosi scontri. I priori successivi a Dante richiamarono i Guelfi Bianchi a Firenze ma i Neri si allearono con il papa per tornare in patria aiutati dal fatto che alcuni di loro erano suoi personali banchieri. Nel 1300 Dante si reca a Roma a sondare le intenzioni di Bonifacio VIII, ma non ottenendo buoni risultati, torna a Firenze. Nel 1301 il papa incarica il fratello del re di Francia Carlo di Valois di entrare a Firenze con delle truppe Francesi per portare ordine e pace e far rientrare i Neri. Dopo il loro ritorno dall’esilio iniziò un lungo periodo di scontri e saccheggi. Nel 1302 i Neri accusarono Dante di essersi arricchito facendo politica. Per rimanere a Firenze deve:
PAGARE UNA MULTA; NON FARE PIÙ POLITICA; CHIEDERE SCUSA.
Si rifiuta di fare ciò e viene condannato all’esilio. A Dante rimane quindi solo il suo talento e così decide di offrirsi come segretario di molte ricche famiglie. Coloro

che diedero maggiore sostegno a Dante furono: i Malaspina (nord della Toscana), i Da Camino (Treviso), i Della Scala (Verona), i Da Polenta (Ravenna) e gli Scaligeri (Verona, Padova, Vicenza e per un po’ anche Treviso). Colui che dà fiducia a Dante è Cangrande Della Scala a cui Dante dedicherà una lettera nel Paradiso. Nel 1310 scende in Italia Arrigo VII di Lussemburgo che rappresenta l’unica speranza per Dante di tornare in patria. Il poeta comincia a simpatizzare per i Ghibellini. Nel 1313 Arrigo muore senza aver risolto nulla e viene sepolto a Siena. A Dante rimane solo la speranza di rientrare in patria come grande poeta ma i fiorentini non lo considerano tale. Nel 1315 viene proclamata l’amnistia e gli esuli possono rientrare a Firenze a patto che confessino le loro colpe; il poeta nemmeno questa volta accetta e gli viene riconfermato l’esilio. Nel 1318 abbandona Verona e si trasferisce a Ravenna, dove muore nel 1321.
PARTICOLARITÁ
Dante è uno dei pochi poeti che si è occupato di politica. Era fondamentale in quel periodo appartenere ad una corporazione e D. non potendo iscriversi a quella degli scrittori, poiché non esisteva, si iscrisse a quella dei medici. Per lui la politica era il modo per esorcizzare la morte di Beatrice e manifestare le sue convinzioni.
Troviamo un ritratto di Dante tendente all’anacronistico.