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francy-francy
analisi del personaggio principale del racconto PLENILUNIO di guy de maupassant per favoreeee!!!!

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Henri-Renè-Albert-Guy de Maupassant, fu tra i più grandi maestri della novella.

Nacque nel castello di Miromesnil-Normandia, il 5 agosto 1850,da Gustave de Maupassant, nobile di provincia, tipico rappresentante della piccola nobiltà provinciale e da Laure Le Poitevin,che era figlia di un piccolo industriale di Rouen.

Sullo sfondo del paesaggio normanno, la sua infanzia, turbata dagli aspri contrasti che opponevano i genitori , si svolse sotto la guida attenta della madre: colta, sorella di Alfred Le Poitevin, intimo amico di G. Flaubert, amica lei stessa del severo e rigoroso scrittore, si preoccupò soprattutto di sviluppare nel figlio qualità di gusto artistico e letterario.

Alla separazione dei genitori, nel 1860, il piccolo Guy, che porterà i segni di questo periodo familiare tormentato, rimase con la madre e, poco dopo, fu iscritto al collegio ecclesiastico di Yvetot.

Lì, all’età di tredici anni, sperimentò i riti severi della disciplina, a cui tentò di reagire dedicandosi a letture «proibite» di cui conserverà il ricordo e l’impronta: V. Hugo, Ch. de Laclos, Sade.

Espulso dal collegio dopo un anno per aver scritto versi «indecenti» in occasione del matrimonio di una cugina, fu iscritto al liceo di Rouen.

Conobbe in quel periodo il poeta L. Bouilhet, amico di famiglia e di Flaubert; a lui mostrò i primi versi, richiedendogli consigli di composizione poetica.

Entrambi lo stimolarono a leggere i contemporanei: Hugo, Balzac, Baudelaire, e diedero un proficuo orientamento alla sua vena creatrice.

Dopo aver studiato presso il liceo di Rouen, si trasferì a Parigi per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza, ma venne chiamato sotto le armi: nel 1870 prese parte alla guerra franco-prussiana e assistette alla disfatta dell'esercito francese, sviluppando un forte spirito antimilitarista.

La crudeltà del conflitto lasciò in lui una traccia profonda che si rivela soprattutto nelle prime novelle.

Nel 1871, tornato alla vita civile, andò a vivere a Parigi, dove svolse un lavoro impiegatizio prima presso il ministero della Marina e delle Colonie, e in seguito al Ministero della Pubblica Istruzione su intercessione del padre.

La vita da impiegato tuttavia non lo soddisfava, e inoltre a Parigi era per lui assente il contatto con la natura, con il mare e le coste della Normandia.

Nel 1880 lasciò definitivamente il lavoro da impiegato per dedicarsi interamente alla letteratura.

Sotto la costante guida dell'amico Flaubert, sempre pronto a fornirgli preziosi consigli sull'arte della scrittura e su come affrontare la vita, Maupassant iniziò la sua brillante attività di scrittore.

Conobbe Ivan Turgenev, Edmond de Goncourt, Léon Daudet, e iniziò a frequentare il gruppo di letterati riuniti intorno alla forte personalità di Emile Zola.
Nel 1880 apparve la sua prima novella, "Palla di sego", inclusa in una raccolta dal titolo "Le veglie di Medan", a cui collaborarono diversi scrittori della scuola zoliana con racconti ispirati alla guerra del '70.

La morte di Flaubert, il 5 maggio 1880, fu un colpo gravissimo per Maupassant e segnò l'inizio di un periodo di straordinario vigore creativo: scrisse circa trecento racconti (molti dei quali sono variazioni sul tema sempre presente della follia e della crudeltà umana), sei romanzi e numerose opere minori.

Al successo letterario fece seguito anche l'agiatezza economica, che gli permise di dedicarsi alle cose che più amava: il lusso, le belle donne ed i viaggi.

Fu in Italia, in Corsica ed in Africa, e spesso si concedeva lunghe crociere in mare sullo yacht "Bel-Ami".

In questo periodo però la sua salute, minata dalla sifilide che aveva contratto in gioventù (oppure ereditato dal padre), iniziò a peggiorare drammaticamente.

Iniziarono i problemi alla vista, le emicranie, l'insonnia, tutti disturbi che lo sottoposero ad uno stress logorante.

I dolori continui gli causarono un tracollo psicofisico.

Consultò numerosi medici a Parigi e a Nizza, senza riuscire a trovare rimedio alle sue sofferenze.

Mentre si trovava a Cannes, nella notte del 1° gennaio 1892 tentò il suicidio.

Dopo qualche giorno fu trasportato a Parigi e ricoverato presso una clinica psichiatrica, dove, ormai in preda alla follia, il 6 luglio 1893, morì all'età di quarantatre anni.

Maupassant ebbe tre figli da Joséphine Litzelmann, unica figura femminile di qualche importanza nella sua vita.




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Le sue opere




Fra le sue importanti opere ci sono i sei romanzi:

"Una vita" (1883), "Bel-Ami" (1885), "Mont-Oriol" (1887), "Pierre e Jean" (1888), "Forte come la morte" (1889), "Il nostro cuore" (1890).
Fra le innumerevoli raccolte di novelle ricordiamo le più famose:

"Palla di sego" (1880), "La casa Tellier" (1881), "La signorina Fifi" (1882), "Miss Harriet" (1884), "Le sorelle Rondoli" (1884), "Chiaro di luna" (1884), "Le Horla" (1887),"La mano sinistra" (1889).
La produzione di Maupassant comprende anche una raccolta di poesie, due commedie, tre volumi di viaggi (tra questi , "La vita errante", pubblicato nel 1890, raccoglie impressioni su città e paesaggi italiani).

Inoltre scrisse tanti altri testi, comprese memorie e testimonianze pubblicate sui giornali e sulle riviste dell'epoca.

Vicino ai naturalisti per quanto riguarda le sue origini letterarie, Maupassant non aderì a questa corrente, preferendo mantenere una visione della realtà sociale libera da ogni teoria filosofica e scientifica.

La novella fu il genere letterario che meglio pose in risalto la perfezione del suo stile e la sua arte raffinata.

Si tratta di una serie ininterrotta di tranches de vie nei modi di un naturalismo rigorosamente dominato da un controllo stilistico e intellettuale di derivazione flaubertiana, storie attraversate da temi ricorrenti: la Normandia, bambini abbandonati, amori infelici, le crudeltà della guerra, le mediocrità della vita borghese.

L’incessante produzione letteraria fu sostenuta da ripetuti successi.

Lavoratore indefesso, dedito all’uso degli stupefacenti, vitalista appassionato, amante instancabile, ebbe un primo cedimento della sua irruente esuberanza nel 1879, quando si trovò costretto a rinchiudere in manicomio il fratello Hervé.

In realtà la malattia del fratello era il tragico segno della sifilide ereditata dal padre, e che non tardò a manifestarsi anche nello scrittore.

Nelle sue novelle emergono gli aspetti principali della sua estetica: la concezione dell'amore come sentimento capace di esaltare le passioni dell'uomo; la natura, intesa nel suo rapporto ambivalente con l'uomo; la dolorosa presa di coscienza del male fisico e morale che domina il mondo; la sopraffazione delle leggi dell'istinto sulle leggi morali; lo sgomento della decadenza e della morte.

Nella sua arte è possibile cogliere la presenza di un'inquietudine e un pessimismo sia artistico che umano, aspetto che fa di Maupassant un seguace del realismo ed insieme un precorritore della nuova narrativa decadente.

Da questa vasta produzione esce un quadro impietoso della borghesia francese del tempo, prigioniera delle sue miserie e priva una prospettiva ideale, senza speranza e senza attese.




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Il valletto fedelissimo era il suo primo lettore di Daria Galateria





Baciato dal successo, Guy de Maupassant decise, nel novembre del 1883, di concedersi un valletto.

Si presentò, referenziatissimo, un belga.

Aveva i favoriti, e era distinto; Maupassant gli comunicò che avrebbe indossato la livrea; l'altro, dolcemente, disse: no.

Stava per esser congedato, quando accennò che aveva avuto una volta l'onore di servire a tavola Gustave Flaubert.

La padrona di casa anzi, aggiunse, gli aveva fatto servire l'eminente scrittore prima delle signore.

Maupassant assunse il valletto, che gli rimase accanto, devotissimo, tutta la vita.

Accoglieva impassibile dame e cocottes, che si accalcavano, e all'occorrenza le metteva alla porta; porgeva allo scrittore le pistole per le sedute quotidiane di tiro; fendeva il Mediterraneo sul suo yacht Bel-Ami "dal fianco di cigno", e lo assistè quando, "toro triste", era perseguitato dalle allucinazioni.

E Maupassant confidava a lui i segreti delle sue novelle che, francesi come erano, conquistavano il mondo, e avevano subito entusiasmato Tolstoj: la tattica del meno cerebrale degli scrittori di Francia era semplice, "guardare molto", e usare solo l'unica parola "giusta".

Anche il valletto dunque sapeva del sentimento filiale che aveva unito il giovane Maupassant al maestro Flaubert.

E anche quello che si diceva, che fosse suo figlio.

Nel 1893, alla scomparsa di Maupassant, un amico di gioventù, lo scrittore Paul Alexis, andò a trovare devotamente la madre, e madame Maupassant, tra due lapsus e una mezza confessione, lo aveva lasciato convinto che Guy fosse effettivamente figlio di Flaubert.

Del resto, si assomigliavano, commentava il pettegolo Edmond de Goncourt, nel diario: sanguigno, forte e tarchiato, un'"architettura" del corpo plebea, Maupassant era la dimostrazione che le dame del bel mondo, che lo inseguivano, hanno un gusto canaille.

Non troppo a spartire comunque con il Gustave Maupassant, dandy libertino e violento che la madre, coltissima, aveva acconsentito a sposare solo quando aveva ottenuto dal tribunale civile di Rouen il diritto alla particella nobilitante de.

Come che sia (la corrispondenza con Laure de Maupassant non lascia intuire nessun commercio intimo), Flaubert ebbe per Guy tenerezze e attenzioni di padre spirituale.

"Troppo canottaggio! Troppo moto! Troppe puttane!", protestava: "siete nato per scrivere, seguite la vostra vocazione".

Aveva già fiducia incrollabile in lui, quando Maupassant non aveva ancora dato prova di sé, e mostrava i muscoli, in costume a righe, allo stabilimento, caro agli impressionisti, "La Grenouillère", tra canottieri e donnine - che gli attaccarono la sifilide.

Vogava di notte, quando di giorno lavorava al Ministero della Marina, raccogliendo esempi di impiegatizie miserie per i futuri racconti; i ranocchi notturni della Senna erano così abituati a lui che non si scansavano più.

Con alcuni versi osceni Guy era anche riuscito a procurarsi un processo per oltraggio ai costumi, sospeso per l'intervento - di nuovo - di Flaubert.

Poi, a trent'anni, era stato scoperto.

Aveva inserito una novella, Pallina di burro, dentro a una piccola raccolta di giovani scrittori naturalisti sotto l'egida del notissimo Zola.

"Un capolavoro! un capolavoro!", esclamò subito Flaubert; e il pubblico cominciò a amare di passione quei racconti secchi e veloci, atroci, comici e emozionanti, "ritratto in nero" - scrive nella bellissima introduzione la curatrice e traduttrice Tiziana Goruppi della nuova versione, per La Repubblica, dei Racconti di Maupassant - "della borghesia stagnante della Terza Repubblica, estranea a ogni tipo d'iniziativa individuale, gretta e attenta solo al risparmio e alle eredità, rispetto a quella ben altrimenti dinamica e aperta alle grandi ambizioni di Balzac".

La scelta operata dalla Goruppi tra le trecento novelle che Maupassant alternò ai romanzi - 27 volumi cioè in dieci anni - ne offre un quadro tematico completo: indimenticabili, i contadini della Normandia dell'infanzia, e poi la città, la guerra, i viaggi, gli animali, il fantastico, e le soglie della follia.

Così, alla fine, questo mondo di storie senza illusioni, con rapide incursioni di tenerezza, i particolari curiosi, inattesi e minuti in cui Maupassant si è disperso, si ricompongono in forma di autoritratto.

Infatti la fama, i guadagni pretesi con certosina serietà, e ogni sera la vita di società, il mare e la natura amati "come un animale selvatico" furono dispersi dalla follia.

La madre, che nel 1850 aveva affittato un castello per farvi nascere Guy, lo fece accogliere in una casa di cura mondanissima, quella del dottor Blanche, che sorgeva nel vecchio palazzo della principessa di Lamballe, finita, nella Rivoluzione, su una picca.

Il valletto e i marinai dello yacht venivano a soccorrere Guy tutti i giorni; ma "insetti intelligenti" sorgevano da ogni parte, e anche Flaubert, invisibile, gli parlava; ma con una voce debole, lontana; non era più il suo caro timbro roboante




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Bel ami





Bel ami







Trama :

George Duroy è il prototipo dell'arrampicatore sociale d'ogni tempo: un giovane e fatuo provinciale che scende a Parigi dopo una deludente avventura militare e, sfruttando il successo con le donne, si trasforma in un giornalista di grido imparentato con l'alta finanza.

Dietro la sua cinica, insopprimibile vitalità si cela però un'ossessionante paura della morte che vanifica la sua sfrenata ricerca del successo.



Recensione:

Pensate a questo, giovanotto, pensateci per giorni, mesi, anni, e vedrete l’esistenza in un altro modo.

Cercate di liberarvi da tutto ciò che vi inceppa, fate il sovrumano sforzo di uscire vivo dal vostro corpo, dai vostri interessi, dai vostri pensieri, dall’umanità intera, per guardare da un’altra parte, e capirete come abbiano poca importanza le dispute fra romantici e naturalisti, e la discussione sul bilancio.

Ma conoscerete la spaventevole solitudine dei disperati.

Vi dibatterete smarrito, sopraffatto, nelle incertezze.

Griderete «aiuto!» da tutte le parti, e nessuno vi risponderà.

Tenderete le braccia, chiamerete per essere soccorso, e non verrà nessuno...

Perché soffriamo così?

Eravamo nati per vivere di più secondo la materia e meno secondo lo spirito; ma a forza di pensare si è creato uno squilibrio fra la nostra intelligenza aumentata e le condizioni immutabili della nostra vita.

Guardate i mediocri: a meno che non piombino loro addosso le grandi sventure, sono contenti, non soffrono della sventura comune.

Neanche le bestie la sentono.

Duroy riprese a camminare col cuore stretto.

Mormorò: - Diavolo, non deve esserci allegria in casa sua. Non vorrei un posto di proscenio per assistere alla sfilata dei suoi pensieri, mondo cane! Poi si fermò per lasciare passare una donna che scendeva da una vettura rincasando, e ne aspirò avidamente, a pieni polmoni, il profumo di verbena e gaggiolo sparso nell’aria. Il cuore gli batté di speranza e di gioia; e il ricordo della signora de Marelle che doveva vedere il giorno dopo, lo invase da capo a piedi. Tutto gli sorrideva, la vita lo accoglieva amorevolmente. Che felicità vedere le speranze avverarsi.-

Fallita una breve esperienza militare, Georges Duroy si trasferisce a Parigi alla ricerca di fortuna.

Un impiego modesto alle ferrovie non gli consente che una vita di stenti, e la frustrazione è ancor più acuta, nella mondanità della capitale francese di fine XIX secolo.

Sarà il casuale incontro con un ex compagno di leva, tale Forestier, a trasformare la sua vita.

Duroy viene iniziato dal solidale amico al giornalismo e all’alta borghesia.

Il giovane di bell’aspetto, all’apparenza sprovveduto, lentamente si svela paradigma di cinismo e prototipo universale dell’arrampicatore sociale.

Se volubilità ideologica di politica e giornalismo sono nel romanzo elementi contingenti e particolari, la loro sostanza, il delirio del potere, è essenziale e costitutivo nell’umanità intera.

Nell’eroe maupassantiano risiede una forza senza età a cui è difficile resistere.

Si celebra il trionfo dell’arrivismo, nel viaggio in cui Duroy (soprannominato Bel-Ami, con affetto e involontaria ironia), suddivide i propri compagni tra ostacoli e strumenti per il conseguimento della propria destinazione.

Se c’è chi si fregia di posizioni notabili, perché mostrarsi arrendevoli o reputarsi non all’altezza?

Bel-Ami non conosce scrupoli; dedica la vita all’affermazione personale, sinonimo di felicità e felice appare, nel suo livello di consapevolezza.

Per un solo istante nel romanzo il protagonista viene messo in contatto con qualcosa che trascende le sue preoccupazioni contingenti, ciò che chi Vive, non senza titanismo, si ostina a indagare con continuo dispendio di serenità.

Bel-Ami prova tristezza, nell’estratto sopra riportato dal dialogo con il filosofeggiante Norbert de Varenne, che sussurrandogli l’inconsistenza del tempo, la caducità dell’essere, la comprensione della vita in sé sullo sfondo della morte, attenta all’indifferenza di cui egli ha temprato la propria missione.

L’intima affermazione di se stesso, e i suoi riflessi nella società, ne dirigono l’ingegno in sotterfugi vili, utilitaristici, così da consentirgli l’ampio successo materiale.

Il fascino della propria presenza e la scientifica estraneità da ogni coinvolgimento, gli permettono la sottomissione dell’universo femminile, via maestra nella sua ascesa.

Il protagonista è incapace di soffrire; se lo fa il suo male è “invidia” e mai “rimorso”.

L’attualità dello stereotipo, la modernità della narrazione, che a dispetto della data di pubblicazione ha un ritmo e leggi spazio-temporali proprie al racconto moderno, ne fanno un romanzo estremamente interessante.

Il lettore viene immediatamente proiettato in media res per assistere al progressivo dispiegarsi di una personalità di coerenza tale, da risultare tanto simpatica quanto abietta.

Per quanto non fosse necessaria, un’ulteriore affermazione di potere e denaro a “vergogna degli umani”

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Una vita




Non importa quello che succede,cio' che conta,alla fine, e' la vita stessa.

Uscito nel 1883, si tratta del primo romanzo scritto dall’autore francese, già capace di una prova d’autore alquanto matura.

Una cosa da notare è che la traduzione su cui è stata fatta la lettura è piuttosto antiquata così da risultare un poco stonata rispetto al linguaggio odierno.
In particolare un aspetto poco piacevole tipico delle vecchie traduzioni è quello di tradurre i nomi dei personaggi in italiano.

Così Jeanne diventa Giovanna, Julien diventa Giuliano, Paul è Paolo e così via.

A parte questo, comunque, trovo che il primo romanzo di Maupassant riesca nell’intento verista che l’autore si riproponeva perché tratteggia con partecipazione e semplicità il racconto di una vita.

La vita di Giovanna che, giovinetta appena uscita dal collegio, piena di sogni e speranze, si troverà suo malgrado tradita da tutti, dai genitori, dal marito, dal figlio e persino da se stessa, incapace di ribellarsi alle tante avversità ma portata solamente a sopportare e subire.

Tuttavia l’impronta verista del romanzo fa in modo che un tale susseguirsi di dispiaceri non lo trasformi in una storia epica e non faccia della protagonista un’eroina.

La simpatia con cui è guardata fa sì che essa non sia un emblema tragico, ma un attore come tanti di una vita che poteva andare meglio ma poteva andare anche peggio.

Infatti, sebbene le avversità si abbattano l’una dopo l’altra sulla protagonista, noi sentiamo che l’autore non eccede perché avvertiamo che quelle di Giovanna non sono disgrazie, sono solo le delusioni, i dispiaceri, le amarezze che talvolta riserva la vita.

Quello di Maupassant non è altro che il racconto di “una vita”, certo romanzata e circoscritta ma, dopotutto, può anche essere che da queste pagine si avverta il riflesso “della vita” o, almeno, l’essenza di un frammento di essa.

Forse è proprio come dice la servitrice Rosalia alla sua padrona Giovanna, che ritrova dopo tanti anni e dopo tante vicissitudini:

“La vita, vedete, non è né così bella né così brutta come si crede.”



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I gioielli




Il signor Lantin, dopo che ebbe incontrato la giovane donna a una festa in casa del suo capufficio, fu avvolto dall'amore come in una rete.
Era la figlia d'un esattore di provincia, morto da parecchi anni. In seguito, era venuta a Parigi con sua madre, la quale cominciò a frequentare alcune famiglie borghesi, con la speranza di trovar marito alla giovane. Erano persone povere e onorate, tranquille e dolci. La ragazza sembrava il prototipo della donna onesta alla quale il giovane ammodo sogna di affidar la sua vita. La sua modesta bellezza aveva il fascino d'un angelico pudore, e il lievissimo sorriso che non lasciava mai le sue labbra sembrava un riflesso del cuore.
Tutti cantavano le sue lodi; coloro che la conoscevano non facevano altro che dire: - Beato chi se la piglierà. Non si potrebbe fare una scelta migliore.
Lantin, il quale era allora archivista capo al ministero dell'Interno con lo stipendio annuale di tremilacinquecento franchi, la chiese in moglie e la sposò.
Con lei fu straordinariamente felice. Ella governò la casa con una economia tanto accorta che sembravano vivere nel lusso. Non esistevano premure, delicatezze, moine, ch'ella non prodigasse a suo marito; e tanta era la forza della sua seduzione che a sei anni dal loro incontro, egli l'amava ancor più dei primi giorni.
Le rimproverava soltanto due abitudini, quella del teatro e quella dei gioielli falsi.
Le sue amiche (conosceva alcune mogli di modesti funzionari) le procuravano continuamente dei palchi per le commedie in voga, perfino per le prime rappresentazioni; e di buona o di malavoglia si portava dietro il marito, che dopo una giornata di lavoro si stancava tremendamente a simili passatempi. La supplicò di andarci con qualche signora di sua conoscenza che dopo la riaccompagnasse a casa. Ella aspettò molto tempo prima di cedere, perché riteneva che far così fosse sconveniente. Infine si decise, per fargli piacere, ed egli le fu assai grato.
Ben presto il gusto del teatro fece nascere in lei il bisogno di adornarsi. I suoi abiti rimasero sempre semplici, di buon gusto, sì, ma modesti; e la sua grazia dolce e irresistibile, umile e sorridente, pareva acquistar nuovo sapore dalla semplicità dei suoi abiti; però prese l'abitudine di mettersi alle orecchie due grosse pietre del Reno, che parevano diamanti, e di portare collane di perle false, braccialetti di similoro, pettini adorni di varii vetruzzi, che volevano imitare le pietre di valore.
Suo marito, un po' seccato per quell'amore dei lustrini, ripeteva spesso: - Cara, quando non si ha la possibilità di comprarsi i gioielli veri, ci si adorna soltanto della propria bellezza e della propria grazia, che son sempre i gioielli più rari.
Ella sorrideva con dolcezza rispondendo:
- Che vuoi farci? Mi piace. È il mio vizio. Lo so che hai ragione, ma non mi posso mica riformare. Mi sarebbe tanto piaciuto avere dei gioielli!
E si faceva scorrere fra le dita le collane di perle, faceva scintillare le faccette dei cristalli tagliati, dicendo: - Ma guarda, guarda com'è fatto bene. Si potrebbe giurare che è vero.
Il marito sorridendo le rispondeva: - Hai dei gusti da zingara.
Qualche volta, la sera, quando stavano seduti tutti e due accanto al fuoco, la donna portava sul tavolino dove prendevano il tè la scatola di marocchino nella quale teneva chiusa la «paccottiglia», come la chiamava Lantin; e si metteva a contemplare i gioielli finti con tanta appassionata attenzione che si sarebbe detto che ne traesse un godimento segreto e profondo; per forza voleva mettere una collana attorno al collo del marito, e poi rideva di cuore, esclamando: - Come sei buffo! - e gli si gettava fra le braccia baciandolo con passione.
Una notte d'inverno rientrò dall'Opera tutta piena di brividi. L'indomani aveva la tosse. Otto giorni dopo morì d'una flussione al petto.
Per poco Lantin non la seguì nella tomba. La sua disperazione fu così tremenda che in un mese gli vennero i capelli bianchi. Piangeva dalla mattina alla sera, con l'anima straziata da un dolore insopportabile, perseguitato dal ricordo, dal sorriso, dalla voce, da tutte le attrattive della morta.
Il tempo non placò il suo dolore. Spesso, in ufficio, mentre i suoi colleghi facevano quattro chiacchiere sui fatti del giorno, all'improvviso gli si vedevano le gote gonfiarsi, il naso raggrinzirsi, gli occhi empirsi di lacrime; faceva una smorfia orrenda e cominciava a singhiozzare.
Aveva lasciato intatta la camera della sua compagna, e vi si chiudeva tutti i giorni per pensare a lei; e tutti i mobili, i vestiti perfino, erano rimasti dove si trovavano l'ultimo giorno.
Però la vita cominciava a farsi dura per lui. Il suo stipendio, che in mano alla moglie bastava a tutti i bisogni della casa, ora non era sufficiente più neanche per lui solo. Con stupore si chiedeva come lei aveva potuto destreggiarsi per riuscire a fargli bere sempre vini squisiti e mangiare cibi delicati, che ora con le sue modeste risorse non riusciva più a procurarsi.
Fece qualche debito, e corse dietro al denaro come tutta la gente ridotta a vivere d'espedienti. Finalmente, una mattina, siccome era senza un soldo, e mancava una settimana intera alla fine del mese, pensò di vendere qualcosa; e gli venne subito in mente di disfarsi della «paccottiglia» di sua moglie, perché in fondo al cuore gli era rimasto come un rancore verso quelle illusioni che prima lo irritavano. Perfino vederli, tutti i giorni, gli sciupava un poco il ricordo della sua diletta.
Cercò a lungo nel luccicante mucchietto che ella aveva lasciato, perché fino agli ultimi giorni di vita aveva seguitato ostinatamente a comprare, portando una cosa nuova quasi ogni sera; e si decise per la grande collana, che ella preferiva, pensando che potesse valere sette o otto franchi perché, per essere falso, era un lavoro fatto con molta cura.
Se la mise in tasca e si diresse verso il ministero passando dai boulevards e cercando una gioielleria che gl'ispirasse fiducia.
Alla fine ne vide una ed entrò, vergognandosi un poco di mettere in mostra la sua miseria nel cercare di vendere un oggetto di così scarso valore.
- Signore, - disse al negoziante, - vorrei sapere quanto stimate quest'oggetto.
L'uomo lo prese, lo esaminò, lo rigirò, lo soppesò, prese una lente, chiamò il commesso e sottovoce gli fece osservare qualcosa, rimise la collana sul banco, e la guardò da lontano per giudicarne meglio l'effetto.

Lantin era imbarazzato per tutte quelle cerimonie, e stava per dire: - Oh! ma lo so che non ha nessun valore, - quando il gioielliere disse:
- Questa collana, signore, vale da dodici a quindicimila franchi; però non posso comprarla se prima non mi direte la sua esatta provenienza.
Il vedovo spalancò gli occhi e restò a bocca aperta, senza capire. Alla fine balbettò: - Dite che...? Siete sicuro? - L'altro interpretò male il suo stupore e disse con tono asciutto: - Potete andare da un altro a sentire se vi danno di più. Per me vale al massimo quindicimila franchi. Tornate, se non trovate di meglio.
Lantin, completamente istupidito, si riprese la collana e uscì obbedendo a un confuso bisogno di restare solo, e di pensare.
Ma appena fu per la strada gli venne voglia di ridere e pensò:«Che imbecille, oh, che imbecille! Se però l'avessi preso in parola! Ecco un gioielliere che non è neanche capace di distinguere la roba vera da quella falsa!».
Entrò in un'altra bottega, al principio di via della Pace. L'orefice, appena ebbe visto il gioiello, esclamò:
- Perbacco, la conosco bene questa collana: proviene di qui.
Assai sconvolto Lantin chiese:
- Quanto vale?
- L'ho venduta per venticinquemila franchi, signore. Son disposto a riprenderla per diciottomila se mi direte, in obbedienza alle disposizioni legali, in quale modo ne siete venuto in possesso.
Lantin questa volta dovette sedersi, annientato dallo stupore.
- Ma guardatela bene, - disse, - io fino ad oggi avevo creduto che fosse... falsa.
Il gioielliere: - Volete dirmi come vi chiamate?
- Certo. Mi chiamo Lantin, sono impiegato al ministero dell'Interno, sto in via dei Martiri, 16.
Il negoziante aprì il registro, cercò e poi disse: - Questa collana difatti è stata mandata all'indirizzo della signora Lantin, in via dei Martiri 16, il 20 luglio 1876.
I due uomini si guardarono negli occhi, l'impiegato smarrito per la sorpresa, l'orefice credendo di aver di fronte un ladro.
- Volete lasciarmi la collana soltanto per ventiquattr'ore? - riprese quest'ultimo, - vi faccio una ricevuta.
Lantin balbettò: - Sì, sì; certo.
E uscì piegando il foglietto e infilandoselo in tasca.
Attraversò la strada, la risalì, s'accorse che andava in una direzione sbagliata, riscese alle Tuileries, varcò la Senna, s'accorse un'altra volta che sbagliava, tornò ai Champs Elysées, senza avere in testa un'idea chiara. Cercava di ragionare, di capire. Sua moglie non aveva potuto comprare un oggetto di tanto valore. No, di certo. Allora si trattava d'un regalo! Un regalo! Un regalo di chi? Perché?
S'era fermato, immobile in mezzo al viale. L'orrendo dubbio lo sfiorò. Lei? Allora anche tutti gli altri gioielli erano dei regali! Gli parve che la terra ondeggiasse; che un albero davanti a lui crollasse; stese le braccia e cadde, privo di sensi.
Riprese conoscenza in una farmacia dove l'avevano portato a braccia alcuni passanti. Si fece condurre a casa, e si rinchiuse dentro.
Pianse disperatamente fino a notte, mordendo un fazzoletto per non urlare. Poi si coricò, affranto dalla fatica e dal dispiacere, e s'addormentò d'un sonno pesante.
Lo svegliò un raggio di sole; lentamente s'alzò per andare al ministero. Dopo un simile colpo era duro mettersi a lavorare. Pensò che avrebbe potuto scusarsi col capufficio, e gli scrisse. Poi gli venne in mente che doveva tornare dal gioielliere, e arrossì per la vergogna. Rimase parecchio tempo a pensare. In ogni caso non poteva lasciare la collana a quell'uomo, sicché si vestì e uscì.
Era bel tempo, il cielo azzurro si stendeva sulla città che pareva sorridere. Alcune persone bighellonavano davanti a lui, con le mani in tasca.
Vedendole passare Lantin si disse:«Com'è felice chi ha soldi! Col denaro ci si può liberare perfino dei dispiaceri, si va dove ci pare, si viaggia, ci si distrae. Oh! se fossi ricco!».
S'accorse d'aver fame, perché era a digiuno dalla sera prima. Ma aveva le tasche vuote, e allora pensò alla collana. Diciottomila franchi! Diciottomila franchi erano una somma!
Raggiunse la via della Pace, e cominciò a passeggiare su e giù sul marciapiede, di fronte al negozio. Diciottomila franchi! Per venti volte fu sul punto d'entrare, trattenuto sempre dalla vergogna.
Però aveva fame e tanta, e non un centesimo in tasca. Si decise all'improvviso, di corsa attraversò la strada per non darsi tempo di riflettere, e si precipitò nella gioielleria.
Il negoziante appena lo vide accorse sollecito, e gli offrì una sedia sorridendo con gentilezza. Anche i commessi vennero, e guardavano in tralice Lantin, con gli occhi e le labbra scoppiettanti dall'allegria.
Il gioielliere disse: - Mi sono informato, e se non avete cambiato idea son pronto a pagarvi la somma che ho proposto.
- Certo, - balbettò l'impiegato.
L'orefice tirò fuori da un cassetto diciotto grandi biglietti, li contò, li porse a Lantin, il quale firmò una ricevuta e con mano fremente si mise il denaro in tasca.
Poi, mentre stava per uscire, si voltò verso il negoziante, il quale continuava a sorridere, e disse chinando lo sguardo: - Ne avrei... ne avrei degli altri, di gioielli... che mi vengono dalla stessa eredità. Sareste disposto a prenderli?
Il negoziante s'inchinò: - Certo, signore.
Uno dei commessi uscì, per ridere con comodo; un altro si soffiava fragorosamente il naso.
Lantin, impassibile, rosso e serio, disse:
- Ora ve li porto.
E prese una carrozza per andare a prendere i gioielli.
Quando, un'ora dopo, tornò al negozio, non aveva ancora mangiato. Cominciarono a esaminare i gioielli ad uno ad uno, stimandoli. Provenivano quasi tutti da quella gioielleria.
Ora Lantin discuteva le valutazioni del negoziante, s'incolleriva, esigeva che gli fossero mostrati i libri delle vendite, e via via che la somma aumentava, parlava con voce sempre più alta.
I grandi orecchini valevano ventimila franchi; i braccialetti trentacinquemila; gli spilli, gli anelli, e i medaglioni sedicimila; un finimento di smeraldi e zaffiri quattordicimila; un solitario che, sospeso a una catena d'oro, formava una collana, quarantamila; in tutto s'arrivava a centonovantaseimila franchi. Il negoziante disse, con scherzosa bonomia: - Questa era una persona che spendeva in gioielli tutti i suoi risparmi.
- È un modo come un altro di collocare il proprio denaro, - rispose gravemente Lantin.
E se ne andò, dopo aver concordato col negoziante, per il giorno dopo, una controperizia.
Appena fu in strada, guardò la colonna Vendôme con la voglia d'arrampicarcisi, come se fosse stato l'albero della cuccagna. Si sentiva così leggero che avrebbe saltato a piè pari la statua dell'Imperatore arrampicata lassù in cielo.
Andò a mangiare da Voisin e bevve vino da venti franchi la bottiglia.
Dopo prese una carrozza e fece un giro nel parco.
Guardava le altre vetrine con un certo disprezzo, bramoso di gridare ai passanti: - Anch'io son ricco. Possiedo duecentomila franchi.
Gli venne a mente il ministero. Vi si fece portare, entrò decisamente dal capufficio e annunciò:
- Signore, vengo a dimettermi. Ho ereditato trecentomila franchi.
Andò a salutare i suoi ex colleghi, facendoli partecipi dei suoi progetti di nuova vita, poi andò a mangiare al caffè Inglese.
Siccome accanto a lui c'era un signore di aspetto perbene, non poté resistere alla smania di raccontargli, con una certa qual civetteria, che proprio allora aveva ereditato quattrocentomila franchi.
Per la prima volta in vita sua non s'annoiò, al teatro, e passò la notte con alcune ragazze allegre.
Si risposò dopo sei mesi. La sua seconda moglie era onestissima, ma con un brutto carattere. Lo fece soffrire molto.




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Plenilunio




Portava bene il suo nome battagliero, don Marignan. Era un sacerdote alto e magro, fanatico, di animo retto ma in continua esaltazione. La sua fede era salda, senza oscillazioni. Era sinceramente convinto di conoscere il suo Dio, di capirne i disegni, le volontà, le intenzioni.
Talvolta, mentre passeggiava a gran passi lungo il vialetto del suo piccolo presbiterio di campagna, gli nasceva nella mente una domanda:«Perché Dio ha fatto questo?». Cercava, con ostinazione, mettendosi nei panni di Dio, e finiva quasi sempre col trovare la risposta. Non era lui la persona da mormorare, in uno slancio di pia umiltà:«Signore, i vostri disegni sono impenetrabili...». Diceva tra sé:«Sono il servo di Dio, quindi devo sapere i motivi delle sue azioni, e prevenirli se non li so».
In natura tutto gli appariva creato secondo una logica assoluta ed ammirevole. Domande e risposte si equilibravano sempre: l'alba esisteva perché il risveglio fosse allegro, le giornate perché le biade maturassero, le serate per preparare al sonno e le notti buie per dormire.
Le quattro stagioni coincidevano con tutte le necessità dell'agricoltura; mai lo avrebbe sfiorato il sospetto che la natura non abbia intenzioni, che tutto ciò che vive si sia dovuto piegare alle dure necessità delle epoche, dei climi, della materia.
Odiava la donna, inconsciamente, la disprezzava per istinto. Spesso ripeteva le parole di Gesù Cristo:«Donna, che v'è tra me e te?», aggiungendo:«Si direbbe che anche Dio sia scontento di questa sua opera». Per lui la donna era proprio la fanciulla dodici volte impura di cui parla il poeta. Era il tentatore che aveva trascinato al peccato il primo uomo e seguitava nella sua opera di dannazione; l'essere debole, pericoloso, che misteriosamente turba. E più ancora del loro corpo, abisso di perdizione, odiava il loro animo amoroso.
Aveva sentito spesso il loro amore riversarglisi addosso, e benché fosse sicuro d'essere inattaccabile, lo faceva andare in bestia quel bisogno di amare che sentiva fremere continuamente in esse.
Secondo lui Dio aveva creato la donna soltanto per tentare l'uomo e metterlo alla prova. Ci si doveva accostare a lei con cautele difensive, temendola come una trappola. E difatti ella era come una trappola, con le sue braccia tese e le labbra dischiuse verso l'uomo.
Era indulgente con le suore, perché i voti le avevano rese innocue; ma nonostante questo le trattava con durezza, perché sentiva sempre vivo, in fondo a quei loro cuori incatenati ed umiliati, l'eterno amore che giungeva fino a lui, benché fosse prete. Lo sentiva nei loro sguardi, più intrisi di pietà degli sguardi dei monaci, nelle loro estasi in cui si mischiava il sesso nei loro slanci verso Cristo, che lo indignavano perché si accorgeva che quello era amor di donna, amor carnale; sentiva quel maledetto amore anche nella loro docilità, nella dolcezza della voce quando gli parlavano, nei loro occhi bassi, nelle loro lacrime rassegnate quando le rimproverava con durezza.
Quando usciva dal convento scrollava la sottana e se ne andava svelto svelto, come se fuggisse un pericolo.
Aveva una nipote che viveva con la madre in una casetta vicino a lui. S'era ficcato in capo di farla diventare suora di carità.
Era graziosa, spensierata, allegra. Quando lo zio le faceva la predica, rideva: quand'egli si offendeva con lei, lo abbracciava di slancio, stringendoselo al cuore, mentre lui senza volere cercava di svincolarsi da quell'abbraccio che gli faceva godere una dolce gioia, risvegliando in lui quel senso della paternità che dorme in tutti gli uomini.
Le parlava spesso di Dio, del suo Dio, quando camminavano insieme nei sentieri in mezzo ai campi. Lei non lo ascoltava e guardava il cielo, le erbe, i fiori, con una tale felicità di vivere che le sprizzava dallo sguardo. Ogni tanto si slanciava ad acchiappare un insetto e quando l'aveva preso gridava: - Ma guarda, zio, com'è carino, mi viene voglia di baciarlo... - Quel bisogno di baciare le mosche o dei fiori irritava e sconvolgeva il sacerdote, che vi ritrovava una volta di più l'insopprimibile amore che germina sempre nel cuore femminile.
Un giorno la moglie del sagrestano, che gli sbrigava le faccende di casa, gli venne a dire con una certa cautela che la sua nipote aveva l'innamorato.
Provò un turbamento terribile, restò col fiato sospeso, col viso tutto insaponato, perché si stava facendo la barba.
Quando si riprese e poté riflettere e parlare esclamò:
- Non è vero, Mélanie; questa è una bugia!
La contadina si posò una mano sul cuore:
- Che il Signore mi fulmini se dico una bugia, signor curato. Vi dico che si vedono tutte le sere, dopo che la vostra sorella è andata a letto. Si trovano al fiume. Se volete vederli andateci, dalle dieci a mezzanotte.
L'abate smise di grattarsi il mento e cominciò a passeggiare furiosamente, come faceva quand'era oppresso da gravi pensieri. Quando volle ricominciare a radersi si tagliò tre volte, dal naso fino all'orecchio.
Restò taciturno per tutta la giornata, pieno d'indignazione e di collera. Al suo furore di sacerdote davanti all'invincibile amore si aggiungeva l'esasperazione del padre morale, del tutore, del reggitore d'anima, ingannato, derubato, preso in giro da una ragazzina; l'egoistica sensazione dei genitori ai quali una fanciulla annuncia che senza di loro e malgrado loro, ha scelto il suo sposo.
Dopo cena si sforzò di leggere un po', ma non ci riuscì; e la sua furia cresceva. Quando suonarono le dieci prese il bastone, un enorme bastone di quercia che usava sempre nelle sue uscite notturne, quando andava da qualche malato. Sorridendo guardò il grosso randello, col suo solido pugno di campagnolo gli fece fare dei minacciosi mulinelli. Ad un tratto lo alzò, e digrignando i denti lo fece piombare su una seggiola la cui spalliera, spezzata, cadde sul pavimento.
Aprì la porta e si fermò sulla soglia, sorpreso dallo splendore del plenilunio, tale che di rado capitava di vederlo.
E poiché la sua mente era eccitabile, come dovevano averla quei poeti sognatori dei padri della Chiesa, egli fu subito distratto e commosso dalla grandiosa e serena bellezza della pallida notte.
Nel suo giardinetto immerso in quella dolce luce, gli alberi da frutta allineati disegnavano sul viale, con l'ombra, le loro gracili membra di legno appena rivestito di foglie; e il caprifoglio gigante arrampicato sul muro della casa esalava un olezzo delizioso, come zuccherino, facendo ondeggiare nell'aria tiepida e limpida della sera una sorta di anima profumata.
Respirò profondamente, bevendo l'aria come gli ubriachi bevono il vino, e cominciò a camminare a passi lenti, meravigliato, estasiato, quasi dimentico della nipote.
Appena fu in aperta campagna, si fermò per contemplare la pianura inondata da quella luce carezzevole, immersa nell'incantesimo languido e dolce delle notti serene. I rospi, senza interruzione, lanciavano nell'aria il loro verso corto e metallico, e gli usignoli lontani mischiavano la loro musica che fa sognare senza pensare, musica lieve e vibrante fatta per i baci, alla seduzione del plenilunio.
Don Marignan riprese a camminare, sentendosi quasi mancare senza motivo. Era come improvvisamente indebolito, stremato; aveva voglia di mettersi seduto e di star fermo a contemplare, ad ammirare Dio attraverso la sua opera.
In fondo, seguendo le ondulazioni del fiumicello, serpeggiava una lunga fila di pioppi. Un vapore fine e bianco, solcato, tinto d'argento e reso lucente dai raggi della luna, era sospeso intorno e sulle sponde avviluppando il corso tortuoso dell'acqua con una specie di ovatta leggera e trasparente.
Il sacerdote si fermò un'altra volta, pervaso da una commozione crescente ed irresistibile.
Lo prese un dubbio, una vaga inquietudine; sorgeva in lui una di quelle domande che talvolta si poneva.
Perché Dio aveva fatto tutto ciò? Se la notte è destinata al sonno, all'incoscienza, al riposo, all'oblio di tutto, perché farla più bella del giorno, più dolce dell'alba e della sera; e perché quell'astro lento e incantevole, più poetico del sole, che pare destinato, per la sua discrezione, a illuminare cose troppo delicate e misteriose per la luce del sole, perché rendeva le tenebre così trasparenti?
Perché il più bravo degli uccelli cantori non si riposava come gli altri e gorgheggiava nell'ombra inquietante?
Perché quel mezzo velo gettato sul mondo? Perché quei brividi nel cuore, quella commozione nell'anima, quel languore della carne?
Perché un tale sfoggio di seduzioni, che gli uomini non potevano vedere, se dormivano nei loro letti? A chi era destinato un così sublime spettacolo, una simile abbondanza di poesia gettata dal cielo sulla terra?
Don Marignan non capiva.
Ed ecco che in fondo alla prateria, sotto la volta di alberi bagnati di nebbia lucente, apparvero due esseri che camminavano stretti.
L'uomo era più alto, teneva per la spalla la sua compagna e ogni tanto la baciava sulla fronte. Essi animarono d'un tratto l'immobile paesaggio che li circondava come una divina cornice fatta apposta per loro. Parevano un essere solo, a cui quella notte calma e silenziosa fosse destinata; e camminavano in direzione del sacerdote come una vivente risposta, la risposta che il suo Signore dava alle sue domande.
Il sacerdote restò immobile, col cuore che gli batteva forte sconvolto; gli pareva di assistere ad una scena biblica, come gli amori di Ruth e Booz, al compiersi della volontà divina in mezzo a uno di quegli scenari grandiosi di cui parlano i sacri libri. Cominciarono a ronzargli per il capo i versetti del Cantico dei Cantici, le grida ardenti, i richiami dei corpi, tutta la calda poesia del poema ardente d'amore.
«Forse Dio ha creato queste notti per velare con l'ideale gli amori degli uomini», disse tra sé.
E indietreggiò davanti alla coppia allacciata che seguitava a camminare. Eppure era la sua nipote; ma si chiedeva se non avrebbe disubbidito a Dio. Dio non permette l'amore, se lo circonda d'un simile splendore?
Fuggì smarrito, quasi vergognandosi, come se fosse penetrato in un tempio nel quale non aveva diritto d'entrare.





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Sant' Antonio




Lo chiamavano Sant'Antonio perché si chiamava Antoine, e fors'anche perché era un uomo vivace, allegro, scherzoso, gran mangiatore e più gran bevitore, e gagliardo cacciatore di serve, nonostante i suoi sessanta anni suonati.
Era un contadinone del paese del Caux, molto colorito, largo di petto e di pancia, e appollaiato su due gambe lunghe che parevano troppo magre in confronto al suo corpaccione.
Vedovo, viveva da solo, con una domestica e due servitori, nella fattoria che dirigeva da furbacchione qual era curando bene i suoi interessi, esperto degli affari, dell'allevamento del bestiame, e della coltivazione delle sue terre. I suoi due figlioli e le tre figlie, sposati bene, vivevano lì vicino, e andavano a mangiare col loro padre una volta al mese. La sua forza era rinomata in tutta la zona; si diceva, come se fosse un proverbio:«Forte come Sant'Antonio».
Quando venne l'invasione prussiana, Sant'Antonio, all'osteria, prometteva di mangiarsi un esercito, perché, da vero normanno, le sparava grosse, ed era un po' pauroso e fanfarone. Batteva il pugno sulla tavola di legno che traballava, facendo saltare le tazze e i bicchierini, e, col viso rosso e lo sguardo pieno di malizia, urlava, con una falsa collera, da uomo allegro qual era: - Bisognerà pure che ne mangi, perdio! - Era convinto che i prussiani non sarebbero mai giunti fino a Tanneville; ma quando venne a sapere che erano a Rautôt, non uscì più di casa, e dal finestrino di cucina teneva continuamente d'occhio la strada, aspettandosi da un momento all'altro di vedere passare le baionette.
Una mattina, mentre stava mangiando la minestra assieme ai suoi servi, s'aprì la porta, e apparve padron Chicot, sindaco del comune, seguito da un soldato che portava in capo un casco nero con la punta di rame. Sant'Antonio balzò in piedi; la sua gente lo guardava, aspettandosi di vederlo fare a pezzi il prussiano; si contentò invece di stringere la mano del sindaco, il quale gli disse: - Eccone uno per te, Sant'Antonio. Sono arrivati stanotte. Soprattutto non fare sciocchezze, dal momento che parlano di fucilare e di bruciar tutto alla minima piccolezza: t'ho avvisato. Dagli da mangiare: mi pare un buon ragazzo. Arrivederci, vado dagli altri. Ce n'è per tutti. - E uscì.
Sant'Antonio era diventato pallido: guardò il suo prussiano. Era un ragazzone grasso, con le carni bianche, gli occhi turchini, biondo, barbuto fino agli zigomi, il quale pareva sciocco, timido e buon figliolo. Il malizioso normanno capì subito con chi aveva a che fare, e rassicuratosi, gli fece segno di sedere. Poi gli chiese: - Volete un po' di minestra?
Lo straniero non capì. Allora Antoine in uno slancio d'audacia, gli spinse fin sotto il naso una scodella piena, e disse: - To', butta giù questa, maialone.
Il soldato rispose: - Ja, - e cominciò a mangiare con ingordigia, mentre il fattore, trionfante, sentendo di aver riconquistato la sua riputazione, strizzava l'occhio ai servitori i quali facevano grandi smorfie, provando a un tempo gran paura e gran voglia di ridere.
Quando il prussiano ebbe mangiato la minestra, Sant'Antonio gliene diede un'altra scodella che scomparve nello stesso modo; ma davanti alla terza che il fattore voleva fargli mangiare per forza dicendo: - Suvvia, schiaffati in pancia questa roba qui. Se non ti strozza t'ingrassa; vedrai, maialone mio! - il soldato fece marcia indietro.
Egli capiva solo che lo volevano far mangiare a sazietà, e rideva contento, facendo segno che era pieno.
Allora Sant'Antonio, entrato in piena confidenza, gli diede una manata sulla pancia, gridando:
- Ce ne va di roba, eh, dentro il buzzo del mio maiale!
E all'improvviso si contorse, rosso, da sembrare che gli venisse un colpo, incapace di parlare.
- Ecco, ecco, Sant'Antonio e il suo maiale. Eccolo il mio maiale! - I tre servi, a loro volta, scoppiarono a ridere.
Il vecchio era tanto soddisfatto che fece portar l'acquavite, quella buona, tre stelle, e la distribuì a tutti. Fecero alcuni brindisi col prussiano, e questi, per complimento, fece schioccare la lingua, per far capire che la trovava squisita. E Sant'Antonio gli urlava sul naso: - Eh? Questa è di quella buona! Al tuo paese, maiale mio, non la bevi di certo roba come questa!
Da allora Sant'Antonio non uscì più senza il suo prussiano. Aveva trovato quel che gli ci voleva: era la sua vendetta, la sua vendetta da furbacchione. Tutto il paese, pur essendo morto dalla paura, rideva pazzamente alle spalle dei vincitori per lo scherzo di Sant'Antonio. E a dire il vero, egli non aveva l'eguale negli scherzi. C'era solo lui capace di inventarne una a quel modo, quel birbante!
Andava dai vicini, tutti i giorni dopo pranzo, a braccetto col suo tedesco che presentava allegramente, battendogli sulla spalla: - Eccolo qui, il mio maiale, guardatelo un po' come mi s'ingrassa, quest'animale!
I paesani si rallegravano: - È divertente questo diavolo d'Antoine!
- Te lo vendo, César, per tre pistole.
- Lo prendo, Antoine, e t'invito a mangiare il sanguinaccio.
- Io invece voglio i piedi.
- Tastagli la pancia, vedrai, non c'è altro che grasso.
Tutti si facevan l'occhiolino, però senza ridere troppo forte, temendo che alla fine il prussiano s'accorgesse che lo prendevano in giro. Solo Antoine, che di giorno in giorno si faceva sempre più ardito, gli dava gran pizzicotti nelle cosce, gridando: - Non c'è altro che grasso! - e gran manate sul sedere urlando: - È tutta cotenna; - lo sollevava fra le sue braccia di vecchio colosso capace di portare un'incudine, dicendo: - Ne pesa seicento netti.
Aveva preso l'abitudine di far offrire da mangiare al suo maiale dovunque quegli entrasse insieme a lui. Era la grande gioia, il gran divertimento di tutti i giorni: - Dategli quel che volete, ingoia tutto. - Gli offrivano pane e burro, patate, guazzetto freddo, sanguinaccio.
Il soldato, stupido e docile, mangiava per cortesia, contentissimo di tutte quelle premure; si faceva venir l'indigestione, per non rifiutare; e ingrassava sul serio, la divisa ora gli stava stretta, e questo faceva andare in estasi Sant'Antonio, il quale ripeteva: - Sai, maiale mio, bisognerà farti un'altra stalla.
Intanto eran diventati ottimi amici; e quando il vecchio per i suoi affari doveva andare nei dintorni, il prussiano lo accompagnava di sua iniziativa, per il piacere di stare insieme a lui.
La stagione era rigida; era tutto gelato; il terribile inverno del 1870 pareva che scagliasse tutti i flagelli insieme sulla Francia.
Compare Antoine, che preparava le cose alla lunga, e approfittava di tutte le occasioni, prevedendo che sarebbe venuto a mancare il letame per i lavori di primavera, ne comprò da un vicino che si trovava in bisogno; fu convenuto che tutte le sere sarebbe andato col barroccio a prendere un carico di concime.
Così tutti i giorni, sul calar della notte, si metteva in strada, e andava alla fattoria degli Haules distante circa mezza lega, sempre accompagnato dal suo maiale. E ogni giorno, dar da mangiare all'animale era una nuova festa. Tutto il paese accorreva, come quando, la domenica, si va alla messa cantata.
Però il soldato cominciava a diffidare; e quando sentiva ridere troppo forte, girava intorno sguardi inquieti che talora s'accendevano di una fiamma di collera.
Una sera, quando si fu riempito a sazietà, si rifiutò di mangiare un boccone di più; e cercò di alzarsi per andar via. Ma Sant'Antonio lo fermò, e ponendogli le possenti mani sulle spalle lo costrinse a sedersi di nuovo, con tanta violenza, che la sedia si schiantò.
Scoppiò un uragano d'allegria; e Antoine, esultante, raccogliendo il suo maiale, finse di fasciargli immaginarie ferite, poi disse: - Dal momento che non vuoi mangiare, berrai, perdio!
Mandarono a prendere l'acquavite allo spaccio.
Il soldato si guardava attorno con occhi cattivi; però bevve; bevve quanto vollero; e Sant'Antonio, fra il giubilo dei presenti, gli tenne testa.
Il normanno, rosso come un pomodoro, con gli occhi fiammeggianti, riempiva i bicchieri, e trincava sbraitando: - Alla tua! - E il prussiano, senza aprir bocca, mandava giù sorsate di cognac una dopo l'altra.
Fu un combattimento, una battaglia, una rivincita! a chi riuscisse a bere di più, perbacco! Quando il litro fu scolato non ne potevano più tutti e due. Però nessuno dei due era stato vinto. Erano pari, se l'erano battuta.
Il giorno dopo avrebbero dovuto ricominciare!
Uscirono esitanti, e si misero a camminare accanto al barroccio di letame che i due cavalli trascinavano lentamente.
Cominciava a nevicare, e la notte senza luce si rischiarò tristemente al morto biancore delle pianure. I due uomini furono presi dal freddo, che aumentò la loro ubriachezza. Sant'Antonio, scontento per non esser riuscito a trionfare, si divertiva a spingere il suo maiale per le spalle, per mandarlo a finire nel fosso. L'altro riusciva a schivare gli attacchi tirandosi indietro; e ogni volta mormorava alcune frasi in tedesco, in tono così irato che il contadino rideva a crepapancia.
Infine il prussiano perse la pazienza; e proprio quando Antoine gli stava dando un altro spintone rispose con un pugno tremendo, che fece barcollare il colosso.
Il vecchio allora, infiammato dall'acquavite, afferrò il soldato a mezza vita, lo scrollò per qualche istante, come se fosse stato un bambino, e lo buttò di slancio dall'altra parte della strada. Poi, soddisfatto del risultato, incrociò le braccia per ridere ancora.
Il soldato si rialzò rapidamente, a testa nuda, perché l'elmo gli era rotolato via, sguainò la sciabola e si slanciò su compare Antoine.
Nel vedere questo il contadino prese la frusta per il mezzo, la sua grande frusta di bosso, dritta, forte e pieghevole come un nervo di bue.
Il prussiano venne avanti a testa bassa, con l'arma tesa, sicuro di uccidere. Ma il vecchio afferrò con la mano la lama che gli stava per spaccare il ventre, la scostò, e con l'impugnatura della frusta colpì duramente alla tempia il suo nemico, che s'abbatté ai suoi piedi.
Atterrito, istupidito dalla sorpresa, guardò il corpo scosso dapprima da spasimi, poi immobile, disteso bocconi. Si chinò, lo rivoltò, lo osservò per un poco.
Aveva gli occhi chiusi; un rivoletto di sangue gli colava da una spaccatura all'angolo della fronte. Nonostante il buio, papà Antoine poteva vedere la macchia bruna del sangue sulla neve.
Restò fermo, fuor di sé, mentre il cavallo, col suo passo tranquillo, seguitava a trascinare il barroccio.
Che fare? Lo avrebbero fucilato! Avrebbero bruciato la fattoria, distrutto il paese! Che fare? che fare? In qual modo nascondere il corpo, celare la morte, ingannare i prussiani? Sentì di lontano alcune voci, fra il silenzio delle nevi. Allora si sgomentò, e raccolto l'elmo ricoprì il capo della sua vittima; poi lo afferrò per le reni, lo tirò su, si mise a correre, raggiunse il carro e gettò il corpo sul letame. A casa avrebbe pensato al da farsi.
Camminava pian piano, lambiccandosi il cervello, senza riuscire a trovar nulla. Si vedeva e si sentiva perduto. Entrò nel cortile di casa sua. Brillava una luce in un abbaino, la serva non dormiva ancora; rapido, fece indietreggiare il carro fino all'imboccatura del letamaio. Pensava che, rovesciando il carico, il corpo posato sopra sarebbe andato sotto, nella fossa; e fece dondolare il barroccio.
Come aveva previsto l'uomo fu sepolto sotto il letame. Antoine spianò il mucchio con la forca e la piantò in terra, lì di fianco. Chiamò il lavorante, gli ordinò di mettere i cavalli nella scuderia, e se ne andò in camera sua.
Si mise a letto, sempre pensando a quel che avrebbe fatto, ma non gli veniva nessuna idea: nell'immobilità del letto il suo spavento non faceva che aumentare.
Lo avrebbero fucilato? Sudava, dalla paura; gli battevano i denti; si alzò tremando, non riusciva più a stare tra le lenzuola.
Scese in cucina, prese dalla credenza la bottiglia del cognac e risalì. Bevette due bicchieroni, uno dopo l'altro, gettando nuova ebbrezza sulla vecchia, senza peraltro calmare l'ambascia che lo torturava. Ne aveva combinata una carina, razza d'imbecille che non era altro!
Ora camminava su e giù, cercando qualche stratagemma, o scusa o gherminella; e ogni tanto si risciacquava la bocca con una sorsata di tre stelle per mettersi un po' di coraggio nello stomaco.
E non riusciva a trovar nulla. Proprio nulla.
Verso mezzanotte il cane da guardia, una specie di mezzo lupo che si chiamava «Divoratore», cominciò a ululare. Compare Antoine rabbrividì fino alle midolla; e ogni volta che la bestia ricominciava il suo urlio lugubre e prolungato, un fremito di paura correva sulla pelle del vecchio.
S'era gettato su una sedia, con le gambe tronche, inebetito: non ce la faceva più e aspettava ansiosamente che «Divoratore» ricominciasse il suo lamento, scosso dai fremiti che il terrore comunicava ai nervi.
Nevicava sempre. Era tutto bianco. Le costruzioni che componevano la fattoria parevano grandi macchie nere. L'uomo s'avvicinò al canile. Il cane dava grandi strattoni alla catena. Lo sciolse. Allora «Divoratore» fece un balzo, poi si fermò di botto e stette, col pelo irto, le zampe irrigidite, i denti scoperti, e il naso in direzione del letamaio.
Sant'Antonio, tremando da capo a piedi, balbettò: - Cos'hai, dunque, bestiaccia? - e fece qualche passo avanti, frugando con lo sguardo l'ombra incerta e fosca del cortile.
Allora vide una figura d'uomo seduto sul letame!
Lo guardò paralizzato dall'orrore, ansimante. All'improvviso, vide accanto a sé il manico del forcone conficcato a terra; lo prese e in uno di quegli slanci di paura che rendono temerarie le persone più vili, si slanciò avanti per vedere.
Era il suo prussiano, il quale, tutto fangoso, era uscito dal letto di immondizia che l'aveva riscaldato e fatto tornare in sé. S'era seduto macchinalmente, ed era rimasto lì, sotto la neve che lo imbiancava, imbrattato di sudiciume e di sangue, ancora inebetito dai fumi dell'alcool, stordito dal colpo ricevuto, esausto a causa della ferita.
Vide Antoine, e troppo intontito per capire, fece una mossa per alzarsi. Ma il vecchio, appena l'ebbe riconosciuto, schiumò come un animale infuriato.
- Ah, maiale, maiale, non sei ancora morto?!... - borbottò. - E ora volevi denunciarmi, eh? Aspetta, aspetta!...
E slanciandosi sul tedesco tese in avanti la forca, brandendola come una lancia, con tutta la forza delle sue braccia, e gli conficcò nel petto le quattro punte di ferro, fino al manico.
Il soldato si rovesciò sulla schiena emettendo un lungo sospiro di morte; intanto il vecchio contadino, tirando fuori l'arma dalle ferite, gliela immergeva di nuovo, un colpo dopo l'altro, nella pancia, nello stomaco, in gola, menando colpi come un forsennato, crivellando dalla testa ai piedi il corpo palpitante dal quale il sangue usciva gorgogliando.
Si fermò; aveva l'affanno, e respirò a grandi boccate, placato dal delitto commesso.
Mentre i galli cantavano nei pollai, e stava per spuntare il giorno, si mise all'opera per seppellire il cadavere.
Scavò un buco nel letame, finché trovò la terra, cominciò a scavare più giù, disordinatamente, in uno slancio di forza, muovendo furiosamente le braccia, e tutto il corpo.
Appena la fossa fu abbastanza profonda, con la forca vi fece rotolare dentro il cadavere, e la riempì nuovamente di terra, che calpestò a lungo; poi rimise a posto il letame e sorrise vedendo che la neve alta completava il suo lavoro, ricoprendo le tracce col suo velo bianco.
Conficcò la forca sul mucchio del letame e tornò in casa. La bottiglia ancora mezza piena di cognac era rimasta sulla tavola. La vuotò d'un fiato e si buttò sul letto addormentandosi profondamente.
Si risvegliò lucido, calmo, e ben disposto, in grado di giudicare l'accaduto e di pensare sul da farsi.
Di lì a un'ora egli girava per il paese chiedendo dappertutto notizie del suo soldato. Andò a trovare gli ufficiali per sapere, diceva, perché mai gli avessero portato via il suo uomo.
Siccome sapevano della sua amicizia, non lo sospettarono; egli stesso diresse le ricerche dicendo che il prussiano andava tutte le sere a correr la cavallina.
Un vecchio gendarme in pensione, che aveva un albergo nel villaggio vicino e una graziosa figliola, fu arrestato e fucilato


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categorie: guy de maupassant
L'inutile bellezza

I

L'elegantissima carrozza attaccata a una pariglia, due morelli splendidi, stava aspettando dinanzi alla scalea del palazzo. Era la fine di giugno, verso le cinque e mezza, e tra i tetti delle ali che rinchiudevano il cortile d'onore, si stendeva un cielo pieno di luce, di calore, di letizia.
La contessa di Mascaret comparve sulla scalea proprio nel momento in cui suo marito, che rincasava, stava attraversando l'androne. Egli si fermò un istante a guardare la moglie e impallidì leggermente. Ella era bellissima, slanciata, piena di distinzione, col viso di un ovale perfetto, un colorito di avorio dorato, grandi occhi grigi e capelli neri. Salì in carrozza senza guardarlo, senza neanche mostrare di averlo scorto, e con un incesso così squisitamente di razza che egli sentì nuovamente in cuore il morso dell'infame gelosia che da tempo lo divorava. Egli le si avvicinò salutando:
- Andate a fare un passeggiata? - disse.
Ella lasciò passare due parole attraverso le labbra sdegnose:
- Come vedete.
- Al parco?
- Probabilmente.
- Mi permettereste di accompagnarvi?
- La carrozza è vostra.
Senza stupirsi del tono delle risposte, egli salì e si sedette a fianco della moglie.
- Al parco, - ordinò.
Il domestico balzò in serpa accanto al cocchiere, e i cavalli, al solito, scalpitarono dondolando il capo come per un saluto sino a che non ebbero svoltato nella strada.
I due sposi stavano l'uno a fianco dell'altra senza parlare. Il marito cercava il modo per iniziare la conversazione, ma il viso della moglie restava così ostinatamente duro che gliene mancò l'ardire.
Infine egli allungò di soppiatto una mano verso quella inguantata di lei, toccandola come per caso, ma il gesto della contessa per scostare il braccio fu così vivace e così disgustato da farlo desistere titubante, malgrado le sue abitudini di despota autoritario.
- Gabrielle! - mormorò.
- Che volete? - chiese la contessa senza volgere il capo.
- Vi trovo adorabile.
Ella non rispose, conservando il suo atteggiamento di regina irritata.
Stavano risalendo gli Champs Elysées verso l'Arco di Trionfo dell'Étoile. L'immenso monumento in cima alla lunga strada apriva il suo arco colossale sul cielo rosso. Pareva che il sole calasse su di esso cospargendolo dall'orizzonte di una polvere di fuoco.
E la fiumana delle carrozze, spruzzate di brillii sugli ottoni, sulle argentature e sui cristalli dei finimenti e dei fanali, formava una doppia corrente, verso il parco e verso la città.
- Mia cara Gabrielle, - disse nuovamente il conte di Mascaret.
Allora, non potendone più, ella replicò esasperata:
- Lasciatemi stare, ve ne prego. Ora non posso neanche più rimanere sola nella mia carrozza...
Egli finse di non aver sentito, e seguitò:
- Non siete mai stata così graziosa come oggi.
La contessa, oramai spazientita, non trattenne più la collera e replicò:
- Fate male ad accorgervene perché vi giuro che non sarò mai più vostra.
Allora egli restò stupefatto e sconvolto; la sua abituale violenza riprese il sopravvento e lanciò un: - Che cosa significa? - che rivelava più il brutale padrone che non l'uomo innamorato.
Ella ripeté a bassa voce, benché i servi non potessero udire, tra l'assordante rotolio delle ruote:
- Ah! che cosa significa? che cosa significa? Finalmente vi riconosco! Volete che ve lo dica?
- Sì.
- Che vi dica tutto?
- Sì.
- Tutto quello che ho nel cuore da quando sono vittima del vostro feroce egoismo?
Il conte era diventato rosso per lo stupore e l'irritazione. Brontolò a denti stretti:
- Sì, dite pure!...
Era un uomo alto di statura, largo di spalle, con una gran barba rossa, un bell'uomo, un gentiluomo, un uomo di mondo che aveva fama d'essere un perfetto marito e un padre eccellente.
Per la prima volta da quando erano usciti dal palazzo ella si voltò verso di lui fissandolo bene nel viso.
- Ah! vi dirò qualcosa di molto spiacevole, ma sappiate che sono pronta a tutto, che sfiderò tutto, che non temo nessuno, e voi, oggi, meno di chiunque altro.
Anche lui la guardava negli occhi, di già scosso dalla rabbia.
- Siete pazza! - mormorò.
- No, ma non voglio pi
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