AIUTATEMI URGENTE
AIUTOO TESTO ARGOMENTATIVO ESPOSITIVO.
TRACCIA:LA SOCIETA ATTUALE SI CARATTERIZZA SEMPRE PIU COME SOCIETA MULTIETNICA.SPESSO LA CONVIVENZA CON KI E DIVERSO NON E FACILE E SI HA LA PAURA X LO STRANIERO KE SI MANFESTANO TALVOLTA IN COMPORTAMENTI VIOLENTI.
ARGOMENTA SU QUESTA PROBLEMATICA EVIDENZIANDONE LE CAUSE,CONSEGUENZE E POSSIBILI SOLUZIONI.
AIUTATEMI VI PRG E URGENTE. GRZ IN ANTICIPO
TRACCIA:LA SOCIETA ATTUALE SI CARATTERIZZA SEMPRE PIU COME SOCIETA MULTIETNICA.SPESSO LA CONVIVENZA CON KI E DIVERSO NON E FACILE E SI HA LA PAURA X LO STRANIERO KE SI MANFESTANO TALVOLTA IN COMPORTAMENTI VIOLENTI.
ARGOMENTA SU QUESTA PROBLEMATICA EVIDENZIANDONE LE CAUSE,CONSEGUENZE E POSSIBILI SOLUZIONI.
AIUTATEMI VI PRG E URGENTE. GRZ IN ANTICIPO
Risposte
Tutti gli Stati nazionali moderni possono essere considerati delle s. m., in quanto comprendono nel loro territorio, in diversa misura, la presenza di gruppi più o meno estesi definibili come etnici.
Il termine etnia è stato però decostruito da un punto di vista scientifico proprio in riferimento alle stesse società non occidentali, considerate 'etniche' per eccellenza. Secondo J.-L. Amselle ed E. M'Bokolo (1985) le etnie sono state in gran parte un'invenzione di amministratori coloniali e di etnologi, funzionale al processo di dominazione perpetrato dai Paesi occidentali. L'appartenenza etnica si è sempre configurata in maniera più relazionale che sostantiva (determinata cioè dalla discendenza, dai legami con un territorio, dalla comunanza linguistica, da un sistema di valori condivisi). I gruppi tendono a selezionare, creare una propria storia, una tradizione. Le tradizioni sono perciò spesso inventate, secondo E.J. Hobsbawm e T. Ranger (1983); F. Barth (1969) preferisce parlare di un confine etnico che i vari gruppi elevano rispetto ad altri gruppi, confine che non è dato per sempre ma è continuamente flessibile, negoziabile. Per renderci meglio conto di come le etnie siano prodotte relazionalmente da una vera e propria invenzione, si può ricordare che addirittura la stessa appartenenza razziale è stata fatta derivare da analoghi processi. Oltre Atlantico gli italiani furono considerati portatori di una piccola quantità di sangue nero nelle vene e per questo non accusabili del reato di mescolamento razziale, colpa punibile con gravi sanzioni, nel caso avessero avuto relazioni sessuali con un uomo o una donna neri.
L'aggettivo etnico è generalmente servito a connotare le identità e le forme di organizzazione politica e sociale dei contesti non occidentali. Si è parlato anche di guerre etniche, esempio lampante, secondo C. Marta (2005), degli abusi della categoria 'etnico'. Le cause delle terribili guerre civili che hanno devastato, per es., l'Africa, nel caso del Ruanda, o la ex Iugoslavia vanno ricercate in conflitti e contraddizioni scatenati anche da interessi internazionali non certo riconducibili a problemi di identità etnica. I Paesi occidentali spesso hanno al loro interno delle minoranze etnico-nazionali, che si sono battute anche aspramente per l'autonomia dal governo centrale o per la stessa secessione volta a rompere l'integrità dello Stato-Nazione considerata arbitraria. Molti Paesi europei sono stati travagliati dalle rivendicazioni di minoranze etnico-linguistiche: per es., i movimenti dell'autonomismo basco in Spagna, di quello corso in Francia o di quelli sardo e altoatesino in Italia. Ma questi conflitti non sono stati sufficienti a far definire come s. m. i Paesi interessati.
Si parla di s. m., riferendosi ai Paesi occidentali, solo in seguito ai processi di immigrazione di massa che li hanno interessati. L'espressione società multirazziale non è più usata: il termine razza da vari anni è infatti desueto per preoccupazioni di opportunità anche da parte di forze politiche xenofobe e razziste. Ovviamente devono essere fatte delle distinzioni tra i flussi di migranti che lasciarono l'Europa per raggiungere gli Stati Uniti e l'Australia soprattutto nel 19° sec. e nei primi decenni del 20° sec. e quelli diretti verso l'Europa dalle ex colonie dell'Africa e dell'Asia per la ricostruzione industriale dopo le rovine della Seconda guerra mondiale. Ancora di natura assai diversa sono le migrazioni più recenti, ascrivibili ai nuovi processi di globalizzazione, in pieno corso nonostante le politiche di chiusura poste in atto dai Paesi europei e dagli Stati Uniti.
modelli di relazione
Le risposte su come regolare una s. m. sono dipese da veri e propri modelli per mezzo dei quali si è tentato di conseguire una coerenza discorsiva sul piano ideologico, e dai quali si sono fatte derivare normative e pratiche istituzionali per governare i processi d'integrazione con i migranti. Non si potrà che accennare, in maniera schematica, soltanto ad alcuni di questi modelli di relazione con i fenomeni migratori sia storici sia contemporanei.
Il modello assimilazionista è stato alla base delle politiche d'integrazione nei confronti delle storiche grandi ondate migratorie negli Stati Uniti provenienti da tanti Paesi europei. L'idea americana di un melting pot, di un crogiolo dal quale sarebbe uscita una cultura uniforme, risale al primo decennio del Novecento. L'assimilazione, l'abbandono definitivo e convinto della cultura d'origine per acquisire la nuova cultura alla base dell'American way of life era la prospettiva che si prefigurava per tutti i flussi di immigrati che avevano costituito la nazione statunitense. La scuola sociologica di Chicago mise al centro delle sue analisi empiriche l'immigrazione e le relazioni etniche: basti pensare che la città di Chicago in meno di 50 anni era passata da un milione di abitanti a 3 milioni e mezzo, per lo più nati fuori dagli Stati Uniti. R.E. Park nel 1950 indicò un ciclo delle relazioni etniche in quattro tappe: 1) rivalità; 2) conflitto; 3) adattamento; 4) assimilazione. Tale processo, nella maggior parte dei casi, si considerava destinato al successo. Con l'accumulazione progressiva di risorse materiali e simboliche, lo straniero diveniva uno statunitense che andava a risiedere anche nei suburbi, abbandonando finalmente gli insediamenti precari che per forza di cose doveva all'inizio dividere con i suoi connazionali. La visione ottimistica della scuola di Chicago comprendeva anche quelle situazioni di ibridità culturale che caratterizzavano l'uomo marginale, spesso respinto da due culture. Ma possedendole entrambe aveva la possibilità di esercitare un ruolo di connessione. Il modello assimilazionista non negava la validità delle diverse culture e perciò non era antitetico al pluralismo culturale. Una doppia appartenenza poteva essere rivendicata, per es., quella di italo-americano, senza produrre dissonanze. Però sia la tradizione del pensiero liberale sia quella del pensiero socialista avevano rigorosamente come referente l'individuo quale soggetto di diritti e doveri e non i gruppi etnici. Per la prima tradizione la modernizzazione avrebbe comportato la sostituzione del modello di solidarietà basato sulla etnicità, i rapporti di sangue e la cultura, in relazioni che avrebbero privilegiato i rapporti funzionali tipici della divisione sociale del lavoro. Per la seconda, i rapporti di classe e la conseguente coscienza di classe sarebbero dovuti diventare preminenti. Discorso diverso la scuola di Chicago fece per i Neri americani, considerati dai ricercatori sociali pienamente assimilati sia sul piano culturale sia su quello dei valori ma profondamente discriminati socialmente e sul piano dei diritti civili. Si era negli anni Venti e ci vollero ancora decenni di lotta per l'acquisizione dei diritti civili, non sufficienti però a colmare le forti disuguaglianze scontate ancora ai nostri giorni.
La Francia costituisce un esempio contemporaneo di pratiche assimilazioniste nei confronti dei flussi di immigrati provenienti per lo più dalle ex colonie del Nord Africa, derivate da un modello universalista-giacobino. Il processo di naturalizzazione, di acquisizione della cittadinanza è stato favorito, a differenza della Germania che non si è mai voluta riconoscere come Paese di immigrazione stabile e aveva immaginato la possibilità di far rientrare definitivamente nella terra d'origine le centinaia di migliaia di turchi che avevano permesso la ricostruzione nel dopoguerra. Anche in Francia non si disconosce il valore delle diverse appartenenze culturali, ma si pretende in maniera quasi ossessiva una distinzione tra spazio pubblico e spazio privato. Nello spazio pubblico, come, per es., la scuola, vi è l'assoluto divieto, sancito per legge, di ostentare vistosamente anche i simboli di appartenenza religiosa: le ragazze musulmane non possono portare a scuola l'hijab, il foulard islamico, e una legge del 2004 ha ribadito il divieto di comportamenti contro la laicità dello Stato.
I concetti di assimilazione e di integrazione comportano ampi margini di ambiguità; lo si può constatare quando si analizzano le strategie discorsive su molte forme di conflitto che stanno attraversando le s. m. di alcuni Paesi europei. La rivolta delle banlieues francesi nell'autunno 2005 è stata determinata, secondo i commentatori dei media, da motivi di razza, etnicità, religione. I giovanissimi che sistematicamente ogni notte hanno incendiato migliaia di macchine e gli edifici pubblici territoriali, come, per es., le scuole, sono stati sorprendentemente rappresentati come 'immigrati di seconda e terza generazione'. Nella cité di edilizia popolare, della cinta parigina, in effetti, sono state concentrate le famiglie di quanti avevano costituito i flussi migratori della ricostruzione, ormai naturalizzati. Ma i protagonisti della rivolta sono stati i giovani che paradossalmente, proprio perché si sentivano assimilati, francesi a tutti gli effetti, denunciavano le promesse non mantenute del modello universalista e cosmopolita. Contestavano con forme di violenta protesta urbana la segregazione abitativa, i tassi altissimi di disoccupazione, più del doppio rispetto al resto della popolazione giovanile, il controllo poliziesco sistematico, l'esclusione da ogni forma di rappresentanza politica e sindacale e soprattutto il disprezzo da parte delle istituzioni che li avevano definiti 'spazzatura'.
Il modello d'integrazione multiculturalista non soltanto riconosce la presenza di una pluralità etnica e culturale, ma considera importante che si favorisca l'espressione, la forma organizzativa comunitaria della differenza culturale stessa: ai gruppi etnici possono essere attribuiti diritti collettivi specifici. Secondo J. Rex (1985), comunque nella sfera pubblica deve essere garantita la formale e sostanziale uguaglianza di opportunità per tutti, indipendentemente dalla provenienza e dal richiamarsi o meno a identità collettive. Ci sono stati dei modelli che in diverso modo si sono ispirati al multiculturalismo per regolare la convivenza interetnica: nel Nord Europa, in Gran Bretagna e in Canada. La politica di sostegno ai gruppi etnici ha favorito e rafforzato processi di 'incistamento' comunitario che, molto spesso, hanno determinato fenomeni di segregazionismo, di controllo esasperato sui membri dei gruppi stessi. In genere si stanno determinando dei ripensamenti per ovviare alle storture del multiculturalismo, soprattutto quando i codici dei gruppi etnici ostacolano l'autodeterminazione; come esempio di un topos ricorrente del comunitarismo si può citare il ruolo subalterno della donna.
È opportuno fare anche dei riferimenti ai modelli relativi alle società multietniche maturati nelle forze politiche e nei movimenti xenofobi e razzisti dei Paesi occidentali. Il rifiuto nei confronti dei migranti viene teorizzato in base a una concezione essenzialista della etnicità. Tutte le culture vengono considerate, benché prodotte da specifici processi storici, come un patrimonio cristallizzato e immodificabile, passibile però di essere messo a rischio dal contatto con l'alterità. Non si fa più cenno alle differenze razziali, argomento considerato politicamente scorretto anche secondo il senso comune, né si prefigura una gerarchia tra culture superiori e inferiori, ma si ribadisce la necessità di non inquinare o l'identità nazionale o l'identità etnica, utilizzate spesso in maniera sinonimica. La minoranza bianca che nella Repubblica Sudafricana teneva segregata la maggioranza nera utilizzò analoghe argomentazioni essenzialiste. Il Front national in Francia ha centrato gran parte della sua campagna elettorale contro l'immigrazione e, paradossalmente, con particolare veemenza contro i cittadini di origine nordafricana, che, rispetto a quanti hanno, per es., una origine asiatica, sono di gran lunga i più assimilati. In Italia la Lega Nord è una forza politica che ha portato avanti una reinvenzione della tradizione, prefigurando e rivendicando un'identità padana: benché con palesi finalità secessioniste e dunque contro l'unità nazionale, nonostante i suoi eletti in Parlamento, ha sostenuto mobilitazioni popolari contro le comunità dei migranti che costituirebbero un pericolo per l'integrità dell'identità nazionale. Il Front national e la Lega Nord sostengono l'ideologia dello scontro di civiltà, arrogandosi il diritto di rappresentare l'Occidente cristiano contro l'Islam, diffuso ormai per la presenza dei migranti musulmani. L'Islam trapiantato viene considerato inintegrabile e identificato, stereotipicamente, con il fondamentalismo terrorista.
L'essenzialismo etnico non è sempre solo appannaggio delle forze xenofobe. Non è raro che si utilizzino argomenti essenzialisti anche in maniera più subdola, quando cioè sono portati avanti anche da forze politiche progressiste, che si dichiarano impegnate per l'accoglienza, l'ottenimento della parità dei diritti da parte dei lavoratori stranieri e che considerano la differenza culturale un valore da conservare, esaltando la nuova s. m. e multiculturale. Il caso dei Rom e dei Sinti in Italia è paradigmatico.I numerosi Zingari giunti in diverse ondate dai Paesi dell'Est devono essere considerati in gran parte profughi di una diaspora che ha anticipato e seguito la guerra civile nella ex Iugoslavia e lo sgretolamento dei regimi comunisti, come in Romania e in Bulgaria, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Benché già sedentarizzate nei Paesi di provenienza, sono state rinchiuse in campi sosta, veri e propri lager distanti dal centro delle città e spesso prossimi alle discariche, in quanto considerati dei nomadi. La cultura connessa al nomadismo viene esaltata nella sua differenza come un valore da preservare, ma di fatto continua a essere la ragione con la quale si giustifica l'esclusione sociale scontata dai Rom. Il caso dei Rom è il più eclatante per l'uso perverso del processo di etnicizzazione messo in atto dalle istituzioni. L'European Roma Rights Center nel 2000 ha prodotto un pamphlet di denuncia internazionale contro l'Italia per una situazione ai limiti del genocidio. L'unico intervento sistematico, finalizzato in qualche maniera all'integrazione, ha riguardato la scolarizzazione dei minori, ma senza affrontare i problemi del diritto a una abitazione e soprattutto al lavoro. Le loro attività tradizionali di artigianato sono andate sempre più fuori mercato e l'esercizio di attività commerciali è divenuto sempre più difficile per il controllo subito. Paradossalmente, poi, la violazione sistematica di una legge dello Stato, che imporrebbe ai Comuni l'obbligo di allestire spazi adeguati a tutela degli artisti di strada, ha determinato una sedentarizzazione forzata di quegli Zingari italiani che erano veri nomadi da lungo tempo. I Sinti, giostrai italiani, esercitavano lo spettacolo viaggiante, il teatro dei burattini, portavano ovunque i piccoli circhi, e le loro giostre erano presenti in tutte le feste patronali.
i migranti del postfordismo
Nei Paesi dell'area mediterranea le migrazioni postfordiste stanno determinando delle s. m. di assoluta novità. Le migrazioni non sono più collegate alla storia coloniale e sono in gran parte determinate da pull factors, fattori di attrazione. L'economia postindustriale, in profonda trasformazione e con un welfare molto carente, richiede una manodopera non solo nell'agricoltura e nell'industria manifatturiera, ma soprattutto nei servizi, nel basso terziario, nel lavoro domestico e nell'assistenza alla persona. L'Italia, come la Spagna, la Grecia e il Portogallo, da Paese di emigrazione è divenuto Paese di immigrazione. All'immigrazione extracomunitaria viene fatta risalire la trasformazione in società multietnica dell'Italia dove, in due decenni, si è arrivati a 3 milioni di soggiornanti regolari e a circa un milione di lavoratori in condizione di clandestinità. La discontinuità di maggior rilevanza rispetto alle migrazioni storiche avvenute in Europa per la ricostruzione del dopoguerra è costituita dal fatto che quelle attuali non risalgono più alla storia coloniale di un Paese. Nella penisola sono arrivati immigrati da ogni parte del mondo riconducibili a più di 100 nazionalità; le provenienze più consistenti sono da almeno 30 Paesi. Il livello scolastico dei migranti è molto alto rispetto al passato nonostante vengano impiegati in mansioni subalterne.
Queste nuove migrazioni hanno un accentuato carattere di transnazionalità, che comporta la reversibilità delle strategie migratorie e l'alternanza lavorativa e residenziale tra il Paese di emigrazione e quello di accoglienza, delineando un campo sociale nuovo che non tiene conto dei confini nazionali. La velocità e il basso costo dei mezzi di trasporto permettono ormai di mantenere non solamente costanti rapporti con il Paese di provenienza, bensì di sperimentare forme di transnazionalità sconosciute in passato. In realtà le migrazioni hanno sempre avuto caratteristiche transnazionali: anche quando i migranti s'insediavano definitivamente nel Paese d'accoglienza, restavano forti relazioni economiche e simboliche con il Paese di provenienza. Attualmente però si verificano fenomeni di circolarità, di pendolarismo, di circuiti migratori che per la prima volta mostrano come i migranti strutturino relazioni, investano risorse con uno stesso peso in entrambi i poli della migrazione. L'insicurezza per un'inclusione mai acquisita in maniera sufficientemente stabile costringe a una continua reversibilità delle strategie d'insediamento e d'identificazione.
La caratteristica strutturale di queste nuove migrazioni è proprio la clandestinità, di fatto non scoraggiata nonostante le politiche di contenimento come i rimpatri forzati e indiscriminati di migliaia di migranti e profughi. In Italia è richiesta sempre più una manodopera flessibile, sottopagata per varie mansioni subalterne nel mercato del lavoro, richiamata per aggirare i limiti imposti dalle conquiste degli operai dell'industria, per soddisfare il boom senza sosta dell'edilizia e le carenze di un welfare per i servizi alla persona in una situazione di grave invecchiamento della popolazione. Ma è proprio la transnazionalità che rende sopportabili le condizioni di inclusione subalterna. Sino a quando è operante uno scarto notevole tra il costo della vita in patria e quello nel Paese di accoglienza, anche scarse rimesse sono risolutive per garantire migliori condizioni di vita alla rete di intere famiglie estese.
Le formule con le quali si affrontano le dinamiche di questa realtà effettuale che riguarda le condizioni di vita e di lavoro dei nuovi migranti, come, per es., 'la società italiana come società multietnica', sono quanto mai obsolete. Il problema dell'identità etnica e culturale di questi attori sociali si pone ancora in maniera essenzialista da parte degli xenofobi di turno o sbandierando petizioni di principio sul pluralismo culturale di una genericità sorprendente. I migranti del postfordismo, spesso con una capacità di mobilità addirittura planetaria, mostrano di disporre di identità multiple, situazionali, che li rendono in grado di poter agire nei diversi contesti transnazionali all'interno dei quali si trovano a vivere.
Vi è infine un modo di concepire le dinamiche delle s. m. diverso sia dal modello del pluralismo culturale sia da quello del multiculturalismo. L'ibridità, il metissage, la creolizzazione, sono il prodotto del contatto culturale che disarticola e rende astratte le forme pure dell'identità etnica e culturale. Per P. Gilroy (1993) è proprio la diaspora che mette in crisi l'effettivo potere del territorio nel determinare l'identità.
Il termine éthnos contrapposto a démos serviva a distinguere tra i cittadini della polis e i barbari, 'balbuzienti' perché parlavano lingue strane. Si tende ancora nel 21° sec. a riproporre questo termine in maniera inopportuna, connotando etnicamente migranti che provengono tutti da Stati nazionali, spesso con livelli scolastici medi molto più alti rispetto ai nostri connazionali. La modernizzazione, la globalizzazione, avrebbero dovuto portare a una sempre più accentuata scomparsa della etnicità. Eppure l'esplosione dei localismi a livello planetario sembra costituire una reazione all'omologazione culturale. Ma il motivo di fondo, la funzione latente di tante nuove forme di revival etnico, con produzione di mobilitazioni centrate sulla etnicità o sulla religione da parte delle comunità dei migranti nei Paesi occidentali, è costituito dalla reazione alle promesse non mantenute sul piano della piena integrazione sociale ed economica.
la multietnia è un insieme di varie persone provnienti di vari pesi.
le cause della multietnia sono l'accumolo di varie persone emigrate da un paese a paese e non avendo abitazioni, vengono vuttati per strada. una possibile luzione sarebbe ospitarli in dormitori,non so...
p.s. le cause non ho trovato nulla
spero che ti sia stata utile...
Il termine etnia è stato però decostruito da un punto di vista scientifico proprio in riferimento alle stesse società non occidentali, considerate 'etniche' per eccellenza. Secondo J.-L. Amselle ed E. M'Bokolo (1985) le etnie sono state in gran parte un'invenzione di amministratori coloniali e di etnologi, funzionale al processo di dominazione perpetrato dai Paesi occidentali. L'appartenenza etnica si è sempre configurata in maniera più relazionale che sostantiva (determinata cioè dalla discendenza, dai legami con un territorio, dalla comunanza linguistica, da un sistema di valori condivisi). I gruppi tendono a selezionare, creare una propria storia, una tradizione. Le tradizioni sono perciò spesso inventate, secondo E.J. Hobsbawm e T. Ranger (1983); F. Barth (1969) preferisce parlare di un confine etnico che i vari gruppi elevano rispetto ad altri gruppi, confine che non è dato per sempre ma è continuamente flessibile, negoziabile. Per renderci meglio conto di come le etnie siano prodotte relazionalmente da una vera e propria invenzione, si può ricordare che addirittura la stessa appartenenza razziale è stata fatta derivare da analoghi processi. Oltre Atlantico gli italiani furono considerati portatori di una piccola quantità di sangue nero nelle vene e per questo non accusabili del reato di mescolamento razziale, colpa punibile con gravi sanzioni, nel caso avessero avuto relazioni sessuali con un uomo o una donna neri.
L'aggettivo etnico è generalmente servito a connotare le identità e le forme di organizzazione politica e sociale dei contesti non occidentali. Si è parlato anche di guerre etniche, esempio lampante, secondo C. Marta (2005), degli abusi della categoria 'etnico'. Le cause delle terribili guerre civili che hanno devastato, per es., l'Africa, nel caso del Ruanda, o la ex Iugoslavia vanno ricercate in conflitti e contraddizioni scatenati anche da interessi internazionali non certo riconducibili a problemi di identità etnica. I Paesi occidentali spesso hanno al loro interno delle minoranze etnico-nazionali, che si sono battute anche aspramente per l'autonomia dal governo centrale o per la stessa secessione volta a rompere l'integrità dello Stato-Nazione considerata arbitraria. Molti Paesi europei sono stati travagliati dalle rivendicazioni di minoranze etnico-linguistiche: per es., i movimenti dell'autonomismo basco in Spagna, di quello corso in Francia o di quelli sardo e altoatesino in Italia. Ma questi conflitti non sono stati sufficienti a far definire come s. m. i Paesi interessati.
Si parla di s. m., riferendosi ai Paesi occidentali, solo in seguito ai processi di immigrazione di massa che li hanno interessati. L'espressione società multirazziale non è più usata: il termine razza da vari anni è infatti desueto per preoccupazioni di opportunità anche da parte di forze politiche xenofobe e razziste. Ovviamente devono essere fatte delle distinzioni tra i flussi di migranti che lasciarono l'Europa per raggiungere gli Stati Uniti e l'Australia soprattutto nel 19° sec. e nei primi decenni del 20° sec. e quelli diretti verso l'Europa dalle ex colonie dell'Africa e dell'Asia per la ricostruzione industriale dopo le rovine della Seconda guerra mondiale. Ancora di natura assai diversa sono le migrazioni più recenti, ascrivibili ai nuovi processi di globalizzazione, in pieno corso nonostante le politiche di chiusura poste in atto dai Paesi europei e dagli Stati Uniti.
modelli di relazione
Le risposte su come regolare una s. m. sono dipese da veri e propri modelli per mezzo dei quali si è tentato di conseguire una coerenza discorsiva sul piano ideologico, e dai quali si sono fatte derivare normative e pratiche istituzionali per governare i processi d'integrazione con i migranti. Non si potrà che accennare, in maniera schematica, soltanto ad alcuni di questi modelli di relazione con i fenomeni migratori sia storici sia contemporanei.
Il modello assimilazionista è stato alla base delle politiche d'integrazione nei confronti delle storiche grandi ondate migratorie negli Stati Uniti provenienti da tanti Paesi europei. L'idea americana di un melting pot, di un crogiolo dal quale sarebbe uscita una cultura uniforme, risale al primo decennio del Novecento. L'assimilazione, l'abbandono definitivo e convinto della cultura d'origine per acquisire la nuova cultura alla base dell'American way of life era la prospettiva che si prefigurava per tutti i flussi di immigrati che avevano costituito la nazione statunitense. La scuola sociologica di Chicago mise al centro delle sue analisi empiriche l'immigrazione e le relazioni etniche: basti pensare che la città di Chicago in meno di 50 anni era passata da un milione di abitanti a 3 milioni e mezzo, per lo più nati fuori dagli Stati Uniti. R.E. Park nel 1950 indicò un ciclo delle relazioni etniche in quattro tappe: 1) rivalità; 2) conflitto; 3) adattamento; 4) assimilazione. Tale processo, nella maggior parte dei casi, si considerava destinato al successo. Con l'accumulazione progressiva di risorse materiali e simboliche, lo straniero diveniva uno statunitense che andava a risiedere anche nei suburbi, abbandonando finalmente gli insediamenti precari che per forza di cose doveva all'inizio dividere con i suoi connazionali. La visione ottimistica della scuola di Chicago comprendeva anche quelle situazioni di ibridità culturale che caratterizzavano l'uomo marginale, spesso respinto da due culture. Ma possedendole entrambe aveva la possibilità di esercitare un ruolo di connessione. Il modello assimilazionista non negava la validità delle diverse culture e perciò non era antitetico al pluralismo culturale. Una doppia appartenenza poteva essere rivendicata, per es., quella di italo-americano, senza produrre dissonanze. Però sia la tradizione del pensiero liberale sia quella del pensiero socialista avevano rigorosamente come referente l'individuo quale soggetto di diritti e doveri e non i gruppi etnici. Per la prima tradizione la modernizzazione avrebbe comportato la sostituzione del modello di solidarietà basato sulla etnicità, i rapporti di sangue e la cultura, in relazioni che avrebbero privilegiato i rapporti funzionali tipici della divisione sociale del lavoro. Per la seconda, i rapporti di classe e la conseguente coscienza di classe sarebbero dovuti diventare preminenti. Discorso diverso la scuola di Chicago fece per i Neri americani, considerati dai ricercatori sociali pienamente assimilati sia sul piano culturale sia su quello dei valori ma profondamente discriminati socialmente e sul piano dei diritti civili. Si era negli anni Venti e ci vollero ancora decenni di lotta per l'acquisizione dei diritti civili, non sufficienti però a colmare le forti disuguaglianze scontate ancora ai nostri giorni.
La Francia costituisce un esempio contemporaneo di pratiche assimilazioniste nei confronti dei flussi di immigrati provenienti per lo più dalle ex colonie del Nord Africa, derivate da un modello universalista-giacobino. Il processo di naturalizzazione, di acquisizione della cittadinanza è stato favorito, a differenza della Germania che non si è mai voluta riconoscere come Paese di immigrazione stabile e aveva immaginato la possibilità di far rientrare definitivamente nella terra d'origine le centinaia di migliaia di turchi che avevano permesso la ricostruzione nel dopoguerra. Anche in Francia non si disconosce il valore delle diverse appartenenze culturali, ma si pretende in maniera quasi ossessiva una distinzione tra spazio pubblico e spazio privato. Nello spazio pubblico, come, per es., la scuola, vi è l'assoluto divieto, sancito per legge, di ostentare vistosamente anche i simboli di appartenenza religiosa: le ragazze musulmane non possono portare a scuola l'hijab, il foulard islamico, e una legge del 2004 ha ribadito il divieto di comportamenti contro la laicità dello Stato.
I concetti di assimilazione e di integrazione comportano ampi margini di ambiguità; lo si può constatare quando si analizzano le strategie discorsive su molte forme di conflitto che stanno attraversando le s. m. di alcuni Paesi europei. La rivolta delle banlieues francesi nell'autunno 2005 è stata determinata, secondo i commentatori dei media, da motivi di razza, etnicità, religione. I giovanissimi che sistematicamente ogni notte hanno incendiato migliaia di macchine e gli edifici pubblici territoriali, come, per es., le scuole, sono stati sorprendentemente rappresentati come 'immigrati di seconda e terza generazione'. Nella cité di edilizia popolare, della cinta parigina, in effetti, sono state concentrate le famiglie di quanti avevano costituito i flussi migratori della ricostruzione, ormai naturalizzati. Ma i protagonisti della rivolta sono stati i giovani che paradossalmente, proprio perché si sentivano assimilati, francesi a tutti gli effetti, denunciavano le promesse non mantenute del modello universalista e cosmopolita. Contestavano con forme di violenta protesta urbana la segregazione abitativa, i tassi altissimi di disoccupazione, più del doppio rispetto al resto della popolazione giovanile, il controllo poliziesco sistematico, l'esclusione da ogni forma di rappresentanza politica e sindacale e soprattutto il disprezzo da parte delle istituzioni che li avevano definiti 'spazzatura'.
Il modello d'integrazione multiculturalista non soltanto riconosce la presenza di una pluralità etnica e culturale, ma considera importante che si favorisca l'espressione, la forma organizzativa comunitaria della differenza culturale stessa: ai gruppi etnici possono essere attribuiti diritti collettivi specifici. Secondo J. Rex (1985), comunque nella sfera pubblica deve essere garantita la formale e sostanziale uguaglianza di opportunità per tutti, indipendentemente dalla provenienza e dal richiamarsi o meno a identità collettive. Ci sono stati dei modelli che in diverso modo si sono ispirati al multiculturalismo per regolare la convivenza interetnica: nel Nord Europa, in Gran Bretagna e in Canada. La politica di sostegno ai gruppi etnici ha favorito e rafforzato processi di 'incistamento' comunitario che, molto spesso, hanno determinato fenomeni di segregazionismo, di controllo esasperato sui membri dei gruppi stessi. In genere si stanno determinando dei ripensamenti per ovviare alle storture del multiculturalismo, soprattutto quando i codici dei gruppi etnici ostacolano l'autodeterminazione; come esempio di un topos ricorrente del comunitarismo si può citare il ruolo subalterno della donna.
È opportuno fare anche dei riferimenti ai modelli relativi alle società multietniche maturati nelle forze politiche e nei movimenti xenofobi e razzisti dei Paesi occidentali. Il rifiuto nei confronti dei migranti viene teorizzato in base a una concezione essenzialista della etnicità. Tutte le culture vengono considerate, benché prodotte da specifici processi storici, come un patrimonio cristallizzato e immodificabile, passibile però di essere messo a rischio dal contatto con l'alterità. Non si fa più cenno alle differenze razziali, argomento considerato politicamente scorretto anche secondo il senso comune, né si prefigura una gerarchia tra culture superiori e inferiori, ma si ribadisce la necessità di non inquinare o l'identità nazionale o l'identità etnica, utilizzate spesso in maniera sinonimica. La minoranza bianca che nella Repubblica Sudafricana teneva segregata la maggioranza nera utilizzò analoghe argomentazioni essenzialiste. Il Front national in Francia ha centrato gran parte della sua campagna elettorale contro l'immigrazione e, paradossalmente, con particolare veemenza contro i cittadini di origine nordafricana, che, rispetto a quanti hanno, per es., una origine asiatica, sono di gran lunga i più assimilati. In Italia la Lega Nord è una forza politica che ha portato avanti una reinvenzione della tradizione, prefigurando e rivendicando un'identità padana: benché con palesi finalità secessioniste e dunque contro l'unità nazionale, nonostante i suoi eletti in Parlamento, ha sostenuto mobilitazioni popolari contro le comunità dei migranti che costituirebbero un pericolo per l'integrità dell'identità nazionale. Il Front national e la Lega Nord sostengono l'ideologia dello scontro di civiltà, arrogandosi il diritto di rappresentare l'Occidente cristiano contro l'Islam, diffuso ormai per la presenza dei migranti musulmani. L'Islam trapiantato viene considerato inintegrabile e identificato, stereotipicamente, con il fondamentalismo terrorista.
L'essenzialismo etnico non è sempre solo appannaggio delle forze xenofobe. Non è raro che si utilizzino argomenti essenzialisti anche in maniera più subdola, quando cioè sono portati avanti anche da forze politiche progressiste, che si dichiarano impegnate per l'accoglienza, l'ottenimento della parità dei diritti da parte dei lavoratori stranieri e che considerano la differenza culturale un valore da conservare, esaltando la nuova s. m. e multiculturale. Il caso dei Rom e dei Sinti in Italia è paradigmatico.I numerosi Zingari giunti in diverse ondate dai Paesi dell'Est devono essere considerati in gran parte profughi di una diaspora che ha anticipato e seguito la guerra civile nella ex Iugoslavia e lo sgretolamento dei regimi comunisti, come in Romania e in Bulgaria, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Benché già sedentarizzate nei Paesi di provenienza, sono state rinchiuse in campi sosta, veri e propri lager distanti dal centro delle città e spesso prossimi alle discariche, in quanto considerati dei nomadi. La cultura connessa al nomadismo viene esaltata nella sua differenza come un valore da preservare, ma di fatto continua a essere la ragione con la quale si giustifica l'esclusione sociale scontata dai Rom. Il caso dei Rom è il più eclatante per l'uso perverso del processo di etnicizzazione messo in atto dalle istituzioni. L'European Roma Rights Center nel 2000 ha prodotto un pamphlet di denuncia internazionale contro l'Italia per una situazione ai limiti del genocidio. L'unico intervento sistematico, finalizzato in qualche maniera all'integrazione, ha riguardato la scolarizzazione dei minori, ma senza affrontare i problemi del diritto a una abitazione e soprattutto al lavoro. Le loro attività tradizionali di artigianato sono andate sempre più fuori mercato e l'esercizio di attività commerciali è divenuto sempre più difficile per il controllo subito. Paradossalmente, poi, la violazione sistematica di una legge dello Stato, che imporrebbe ai Comuni l'obbligo di allestire spazi adeguati a tutela degli artisti di strada, ha determinato una sedentarizzazione forzata di quegli Zingari italiani che erano veri nomadi da lungo tempo. I Sinti, giostrai italiani, esercitavano lo spettacolo viaggiante, il teatro dei burattini, portavano ovunque i piccoli circhi, e le loro giostre erano presenti in tutte le feste patronali.
i migranti del postfordismo
Nei Paesi dell'area mediterranea le migrazioni postfordiste stanno determinando delle s. m. di assoluta novità. Le migrazioni non sono più collegate alla storia coloniale e sono in gran parte determinate da pull factors, fattori di attrazione. L'economia postindustriale, in profonda trasformazione e con un welfare molto carente, richiede una manodopera non solo nell'agricoltura e nell'industria manifatturiera, ma soprattutto nei servizi, nel basso terziario, nel lavoro domestico e nell'assistenza alla persona. L'Italia, come la Spagna, la Grecia e il Portogallo, da Paese di emigrazione è divenuto Paese di immigrazione. All'immigrazione extracomunitaria viene fatta risalire la trasformazione in società multietnica dell'Italia dove, in due decenni, si è arrivati a 3 milioni di soggiornanti regolari e a circa un milione di lavoratori in condizione di clandestinità. La discontinuità di maggior rilevanza rispetto alle migrazioni storiche avvenute in Europa per la ricostruzione del dopoguerra è costituita dal fatto che quelle attuali non risalgono più alla storia coloniale di un Paese. Nella penisola sono arrivati immigrati da ogni parte del mondo riconducibili a più di 100 nazionalità; le provenienze più consistenti sono da almeno 30 Paesi. Il livello scolastico dei migranti è molto alto rispetto al passato nonostante vengano impiegati in mansioni subalterne.
Queste nuove migrazioni hanno un accentuato carattere di transnazionalità, che comporta la reversibilità delle strategie migratorie e l'alternanza lavorativa e residenziale tra il Paese di emigrazione e quello di accoglienza, delineando un campo sociale nuovo che non tiene conto dei confini nazionali. La velocità e il basso costo dei mezzi di trasporto permettono ormai di mantenere non solamente costanti rapporti con il Paese di provenienza, bensì di sperimentare forme di transnazionalità sconosciute in passato. In realtà le migrazioni hanno sempre avuto caratteristiche transnazionali: anche quando i migranti s'insediavano definitivamente nel Paese d'accoglienza, restavano forti relazioni economiche e simboliche con il Paese di provenienza. Attualmente però si verificano fenomeni di circolarità, di pendolarismo, di circuiti migratori che per la prima volta mostrano come i migranti strutturino relazioni, investano risorse con uno stesso peso in entrambi i poli della migrazione. L'insicurezza per un'inclusione mai acquisita in maniera sufficientemente stabile costringe a una continua reversibilità delle strategie d'insediamento e d'identificazione.
La caratteristica strutturale di queste nuove migrazioni è proprio la clandestinità, di fatto non scoraggiata nonostante le politiche di contenimento come i rimpatri forzati e indiscriminati di migliaia di migranti e profughi. In Italia è richiesta sempre più una manodopera flessibile, sottopagata per varie mansioni subalterne nel mercato del lavoro, richiamata per aggirare i limiti imposti dalle conquiste degli operai dell'industria, per soddisfare il boom senza sosta dell'edilizia e le carenze di un welfare per i servizi alla persona in una situazione di grave invecchiamento della popolazione. Ma è proprio la transnazionalità che rende sopportabili le condizioni di inclusione subalterna. Sino a quando è operante uno scarto notevole tra il costo della vita in patria e quello nel Paese di accoglienza, anche scarse rimesse sono risolutive per garantire migliori condizioni di vita alla rete di intere famiglie estese.
Le formule con le quali si affrontano le dinamiche di questa realtà effettuale che riguarda le condizioni di vita e di lavoro dei nuovi migranti, come, per es., 'la società italiana come società multietnica', sono quanto mai obsolete. Il problema dell'identità etnica e culturale di questi attori sociali si pone ancora in maniera essenzialista da parte degli xenofobi di turno o sbandierando petizioni di principio sul pluralismo culturale di una genericità sorprendente. I migranti del postfordismo, spesso con una capacità di mobilità addirittura planetaria, mostrano di disporre di identità multiple, situazionali, che li rendono in grado di poter agire nei diversi contesti transnazionali all'interno dei quali si trovano a vivere.
Vi è infine un modo di concepire le dinamiche delle s. m. diverso sia dal modello del pluralismo culturale sia da quello del multiculturalismo. L'ibridità, il metissage, la creolizzazione, sono il prodotto del contatto culturale che disarticola e rende astratte le forme pure dell'identità etnica e culturale. Per P. Gilroy (1993) è proprio la diaspora che mette in crisi l'effettivo potere del territorio nel determinare l'identità.
Il termine éthnos contrapposto a démos serviva a distinguere tra i cittadini della polis e i barbari, 'balbuzienti' perché parlavano lingue strane. Si tende ancora nel 21° sec. a riproporre questo termine in maniera inopportuna, connotando etnicamente migranti che provengono tutti da Stati nazionali, spesso con livelli scolastici medi molto più alti rispetto ai nostri connazionali. La modernizzazione, la globalizzazione, avrebbero dovuto portare a una sempre più accentuata scomparsa della etnicità. Eppure l'esplosione dei localismi a livello planetario sembra costituire una reazione all'omologazione culturale. Ma il motivo di fondo, la funzione latente di tante nuove forme di revival etnico, con produzione di mobilitazioni centrate sulla etnicità o sulla religione da parte delle comunità dei migranti nei Paesi occidentali, è costituito dalla reazione alle promesse non mantenute sul piano della piena integrazione sociale ed economica.
la multietnia è un insieme di varie persone provnienti di vari pesi.
le cause della multietnia sono l'accumolo di varie persone emigrate da un paese a paese e non avendo abitazioni, vengono vuttati per strada. una possibile luzione sarebbe ospitarli in dormitori,non so...
p.s. le cause non ho trovato nulla
spero che ti sia stata utile...
Allora,ti correggo l'introduzione
La società odierna è definita società multietnica in quanto è caratterizzata dalla coesistenza, più o meno integrata, di persone di origine ed etnia diverse. Ogni giorno infatti,ascoltando i mass-media non si fa che parlare di migrazioni; quest'ultime stanno producendo un rimescolamento etnico e culturale a livello mondiale che porta a un confronto tra differenti culture, religioni, razze e idee sociali.
Ora devi passare alla tesi e all'antitesi e motivarle :)
La società odierna è definita società multietnica in quanto è caratterizzata dalla coesistenza, più o meno integrata, di persone di origine ed etnia diverse. Ogni giorno infatti,ascoltando i mass-media non si fa che parlare di migrazioni; quest'ultime stanno producendo un rimescolamento etnico e culturale a livello mondiale che porta a un confronto tra differenti culture, religioni, razze e idee sociali.
Ora devi passare alla tesi e all'antitesi e motivarle :)
Prima di tutto sarebbe buona cosa specificare sempre il link da cui si copiano e incollano i contenuti. Nel caso di LARIJ, il testo è stato preso da:
http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_37-38/zanfrini.htm
Seconda cosa, per LARIJ: copiare e incollare è qualcosa che può fare tranquillamente chi pone le domande. Al contrario, è gradito anche un supporto prettamente personale, senza la necessità di riportare contenuti copiati da Internet (di lunghezza peraltro chilometrica) che, scommetto,neanche hai letto e di cui pertanto non sai neanche se può davvero essere di aiuto a chi ha posto la domanda.
Questo giusto per fornirvi qualche consiglio.
http://impresa-stato.mi.camcom.it/im_37-38/zanfrini.htm
Seconda cosa, per LARIJ: copiare e incollare è qualcosa che può fare tranquillamente chi pone le domande. Al contrario, è gradito anche un supporto prettamente personale, senza la necessità di riportare contenuti copiati da Internet (di lunghezza peraltro chilometrica) che, scommetto,neanche hai letto e di cui pertanto non sai neanche se può davvero essere di aiuto a chi ha posto la domanda.
Questo giusto per fornirvi qualche consiglio.
aggiungi la tesi,argomentazioni a sostegno della tesi,antitesi e opinione capito?
ce quali elementi... non capisco..
al testo aggiungi gli elementi del testo argomentativo capito?in maniera breve
ce vuoi solo opinione dell'argometo??
larij non aggiungere altro dal mio testo trasformalo in argomentativo capito non fare ricerche perchè poi si insospettiscono i miei amici aggiungi le tesi antitesi..opnione e basta ok ?
La società multietnica è un sistema sociale in cui convivono soggetti con identità etniche diverse: con ciò si intende l'appartenenza consapevole a un gruppo che condivide uno spazio geografico di provenienza, una comune discendenza, una cultura condivisa, siano essi reali o socialmente costruiti.
Il principale, ma non unico, fattore di genesi della società multietnica è costituito dal fenomeno delle migrazioni internazionali.
Immediatamente connesso con questo tipo di sistema sociale è il problema della regolazione della convivenza tra minoranze e maggioranza, o tra immigrati e società d'accoglienza, che costituisce un tema ampiamente frequentato dagli scienziati sociali; ciò nonostante, l'analisi della letteratura porta a sottolineare l'insufficiente sistematizzazione della materia e, in particolare, la mancanza di un vocabolario condiviso nell'ambito della comunità scientifica.
In termini generali si può dire che i vari concetti coniati per descrivere i rapporti tra stranieri e società ospite hanno
una natura processuale e possono essere sommariamente distinti in processi integrativi e disintegrativi, a seconda
che focalizzino la dimensione dell'inclusione degli immigrati oppure quella della loro esclusione e del potenziale conflitto tra gruppi etnici diversi.
Relativamente ai processi integrativi,
i concetti maggiormente ricorrenti nella letteratura sono quelli di integrazione
e di assimilazione. Per quanto, come si è detto, il loro significato non sia univoco, le accezioni più frequenti individuano nell'assimilazione il processo attraverso il quale il nuovo arrivato interiorizza
i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali della società ospite, laddove l'integrazione concerne precipuamente la sfera socio-economica
ed implica l'adozione di patterns comportamentali e il raggiungimento
di condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza però addivenire ad una completa conformità culturale. Se dunque l'assimilazione comporta il sostanziale abbandono della cultura d'origine - come prescritto dal modello americano del melting pot -, l'integrazione accetta ed eventualmente valorizza il pluralismo culturale. é inoltre interessante osservare che mentre si sarebbe portati a pensare che l'assimilazione culturale si manifesti solo dopo che l'immigrato abbia raggiunto un buon livello di integrazione socio-economica, l'evidenza empirica suggerisce l'eventualità di un'opposta successione tra i due processi: ciò vale soprattutto per le seconde generazioni spesso perfettamente assimilate, grazie all'azione socializzatrice della scuola e dei mass media, ai modelli di comportamento e agli stili di consumo della società in cui sono cresciuti, ma ancora non completamente integrati dal punto di vista socio-economico a causa dell'impossibilità della famiglia di sostenere con adeguate risorse economiche e culturali le loro aspirazioni di mobilità sociale.
L'ambiguità di significato che circonda l'uso dei concetti di assimilazione e di integrazione ha indotto il ricorso a differenti espressioni. Tra le più utilizzate ricordiamo la nozione, di chiara derivazione struttural-funzionalistica, di adattamento - che designa le modalità attraverso le quali l'immigrato (o più propriamente i gruppi di immigrati) reagisce al nuovo ambiente apprendendo i ruoli funzionali agli imperativi sistemici - e quella di acculturazione, che descrive il processo interattivo attraverso il quale due gruppi differenti selezionano e parzialmente trasformano alcuni tratti della cultura con la quale sono entrati in contatto, integrandoli nel proprio sistema culturale di riferimento.
In termini generali la configurazione, i tempi e gli esiti di quelli che abbiamo chiamato processi integrativi dipendono da un'articolata serie di fattori e di condizioni. Un primo ordine di fattori rinvia al divario che sotto diversi punti di vista (caratteristiche fisico-somatiche della popolazione, sistemi culturali, posizione nel contesto della divisione internazionale del lavoro, ecc.) esiste tra la società d'origine e quella d'approdo. Altri elementi concernono le caratteristiche specifiche dei soggetti che emigrano (età, sesso, livello di istruzione, padronanza della lingua del paese ospite, attitudine alla devianza, condizione di isolamento o partecipazione ad una migrazione familiare e/o comunitaria, ecc.) e della società che li accoglie (orientamenti culturali nei confronti dello straniero, chances di mobilità sociale, caratteristiche del mercato del lavoro, diffusione di pregiudizi e stereotipi sugli stranieri o addirittura di atteggiamenti xenofobi e così via).
Un ruolo particolare va comunque attribuito alle politiche integrative. A questo proposito si rileva come le analisi più circostanziate hanno ormai dimostrato la sostanziale inattendibilità di nozioni quale quella della soglia di tolleranza, che postula che ciascuna società abbia una capacità di assorbimento degli stranieri predefinita ed esprimibile in termini percentuali. Spetta semmai alle autorità politiche e amministrative prevenire l'insorgenza di possibili focolai di conflitto, e in particolare la formazione di ghetti e delle altre forme di insediamento poco funzionali all'instaurazione di rapporti di pacifica convivenza con la popolazione autoctona.
Da questo punto di vista merita di essere ricordato che sono stati coniati specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti delle comunità straniere. Un primo termine, che in realtà appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di colonia etnica: esso descrive il risultato di un'immigrazione di massa in una determinata area di un paese straniero. Il termine colonia è solitamente riferito a ragioni che si presentavano, all'arrivo degli immigrati, "vergini" o comunque poco popolate; per estensione esso può essere impiegato per descrivere i raggruppamenti di connazionali in determinate aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti riferirsi con appellattivi come Little Italy o China Town.
Questi raggruppamenti, funzionali al bisogno di reciproco sostegno soprattutto nelle fasi iniziali del progetto migratorio, hanno storicamente rappresentato il crogiuolo privilegiato per la costituzione delle c.d. "enclaves etniche" e per l'avvio di forme di imprenditorialità su base etnica (c.d. "economie etniche"). Essi hanno altresì costituito l'oggetto di studi e ricerche, svolte in particolare dagli esponenti della Scuola di Chicago, che restano capisaldi fondamentali nell'attuale sociologia delle migrazioni, e che hanno contribuito a fare luce su fenomeni di rilevante interesse sociologico, come quello della devianza (si ricordi la nota teoria di Merton e la teorizzazione della delinquenza giovanile in termini di bande) o della strutturazione di specifiche sub-culture nel contesto di sistemi sociali tendenzialmente conformistici. Merita di essere ricordato il ricorso al termine di ghetto, che dà conto della condizione di segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi della società d'accoglienza. Il ghetto è connotato da una propria specifica forma di stratificazione sociale, da un proprio sistema di potere e di influenza e dalla frequenza di fenomeni di anomia sociale.
In realtà il termine ghetto, se è senza dubbio pertinente a descrivere la realtà di molte città americane, appare inadeguato a dare conto dell'esperienza europea dove è più frequente constatare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado sociale e urbano, la convivenza di stranieri e autoctoni appartenenti agli strati più bassi della gerarchia sociale. Nell'un caso e nell'altro la presenza degli immigrati tende a essere mal sopportata dalla popolazione locale, che è solita assumerli come capri espiatori di situazioni di disagio e di degrado che hanno cause non riconducibili all'arrivo degli stranieri. Di qui l'attenzione che deve essere attribuita a quelli che più sopra abbiamo chiamato processi disintegrativi che vanno dalla stratificazione su basi etniche della società e più in particolare del mercato del lavoro (eventualmente alimentata da orientamenti culturalmente differenzialistici che legittimano l'esistenza delle c.d. "specializzazioni etniche") alla discriminazione nell'accesso alla casa, al lavoro e all'istruzione; dalla segregazione - volontaria o coatta - sociale e territoriale rispetto al sistema sociale complessivo all'esistenza di conflitti su base etnica ma passibili di svilupparsi altresì tra gruppi di immigrati di nazionalità diversa o di più o meno recente arrivo. Il conflitto etnico viene usualmente ricondotto al modello tradizionale dello sfruttamento della minoranza a opera della maggioranza. Tanto i sociologi funzionalisti quanto quelli marxisti sono comunque approdati a ipotesi di soluzione del conflitto etnico curiosamente simili: i primi hanno postulato una convergenza delle culture minoritarie in quella maggioritaria, attraverso il processo di modernizzazione e la progressiva sostituzione delle solidarietà di tipo ascrittivo con quelle di tipo funzionale; i secondi hanno a loro volta ipotizzato un graduale assorbimento dell'appartenenza etnica da parte di quella di classe.
Un ultimo cenno, sempre a proposito dei rapporti tra immigrati e società ospite, deve essere fatto con riguardo alla questione della partecipazione dei primi al mercato del lavoro. Le teorie che sono state elaborate evidenziano la loro funzione di volta in volta complementare, sostitutiva o concorrenziale rispetto alla manodopera locale, e da questa funzione vengono fatte discendere specifiche conseguenze anche rispetto all'evoluzione delle relazioni con la popolazione locale. Di fatto la storia delle migrazioni internazionali, e soprattutto le sue fasi più recenti, inducono a ridimensionare i rischi di concorrenza coi lavoratori autoctoni: gli immigrati sono soliti assumere i lavori rifiutati dalla manodopera locale, a collocarsi in quello che Piore ha definito il mercato del lavoro "secondario" e caso mai si innesta una sorta di concorrenza interna al gruppo dei lavoratori stranieri, nel senso che gli ultimi arrivati rimpiazzano gli altri nelle posizioni più basse della gerarchia occupazionale. é inoltre di grande interesse rilevare che l'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro di arrivo (e più in generale nella società) adempie a una "funzione specchio", cioè di rivelatore delle caratteristiche, delle opportunità e delle disfunzioni di ciascun mercato locale del lavoro (e di ciascuna società locale).
Abbiamo più sopra richiamato l'importanza delle politiche per prevenire l'insorgere di difficoltà di convivenza tra stranieri e autoctoni. Nella tradizione europea si possono individuare differenti modelli di regolazione della convivenza inter-etnica. In questa sede ci limiteremo a ricordare le principali caratteristiche del modello francese, di quello tedesco e di quello applicato nei paesi nordici.
Il modello tedesco si è tradizionalmente fondato sul concetto di gastarbeiter, il lavoratore ospite, figura idealtipica di quella fase delle migrazioni dirette verso il Nord-Europa nella quale valeva la presupposizione di una permanenza a tempo e scopi definiti, e che trovava il suo epilogo nel rientro del migrante nella terra d'origine. L'immigrazione in questo periodo - l'immediato dopoguerra - era strettamente funzionale alle esigenze di rilancio dell'economia del paese ospite; la percezione dello straniero era quella di un mero prestatore di lavoro. Le politiche dell'immigrazione si basavano su una stretta regolazione dei flussi in ingresso, sull'integrazione professionale, sull'incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti disoccupati) ed eventualmente sulla promozione di una rotazione delle presenze, idonea a inibire la stabilizzazione degli insediamenti immigrati. A dispetto di queste premesse le presenze straniere si sono in numerosissimi casi tramutate in definitive, hanno generato consistenti flussi di riunificazione familiare e dato vita a vaste comunità straniere, non di rado orientate all'autoimprenditorialità, anche come strategia di risposta ai problemi occupazionali emersi coll'esaurirsi del processo di ricostruzione post-bellica. L'ambiguità del modello tedesco resta però evidente nel fatto che la Germania continua a non considerarsi terra d'immigrazione, e a richiedere agli stranieri stabilmente presenti sul territorio tedesco un'integrazione intesa fondamentalmente come uniformità ai modelli culturali autoctoni. Coerente con questa impostazione del problema della convivenza interetnica è la preferenza da sempre accordata agli stranieri supposti "assimilabili" e la perpetuazione di una tradizione, in materia di criteri per la concessione della cittadinanza, rigidamente fondata sullo jus sanguinis.
L'approccio francese è per converso da sempre ispirato a una visione decisamente assimilatrice e tributaria verso gli ideali di grandezza nazionale che ha le sue radici nella prassi, vigente fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, della naturalizzazione dell'immigrato. Le politiche per gli immigrati hanno mirato a promuovere l'assimilazione degli stranieri all'ideale di una Francia laica e repubblicana; di qui la centralità attribuita alle agenzie educative, e in primo luogo alla scuola, rispetto all'obiettivo dell'integrazione culturale degli immigrati e dei loro discendenti. Aporie e contraddizioni sono però presenti nel modello francese almeno quanto lo sono in quello tedesco. L'assimilazione culturale non si è accompagnata ad un effettivo e generalizzato inserimento socio-professionale degli stranieri. Si osserva inoltre, nei provvedimenti più recenti, l'ambigua compresenza di principi quali il rigido controllo dei flussi e l'integrazione degli immigrati già presenti, il diritto all'indifferenza con il rispetto delle identità. Più in generale, la questione dell'immigrazione soffre di un'eccessiva politicizzazione e di una mediatizzazione che produce allarmismo e inquietudine nell'opinione pubblica, soprattutto nei confronti dell'immigrazione musulmana.
I paesi nordici si riconoscono invece nel modello della "minoranza etnica", cioè nella scelta di istituzionalizzare, attraverso la "creazione" di gruppi minoritari, la marginalità di quelle componenti dell'immigrazione meno integrate dal punto di vista culturale e da quello strutturale. La creazione dei gruppi viene vista come funzionale alla legittimazione delle richieste delle minoranze, e quindi alla promozione dell'uguaglianza con gli autoctoni. In linea di principio, questo approccio appare ispirato da ideali di grande apertura - questi paesi si distinguono, tra l'altro, per aver concesso agli stranieri residenti il diritto di voto a livello locale -, ma la sua applicazione non è risultata esente da effetti perversi. La creazione delle minoranze, su basi di eterodefinizione, può finire paradossalmente col rafforzarne la segregazione, a causa soprattutto della loro insufficiente capacità d'azione politica. Inoltre, l'esistenza di canali partecipativi specificamente destinati agli stranieri può divenire un palliativo, da parte della società ospitante, per non aprire le proprie istituzioni agli stranieri stessi, ciò che accentua il loro isolamento. Per questi motivi negli ultimi anni lo scetticismo nei confronti dei raggruppamenti su base etnica è divenuto sempre più manifesto, e si tenta vieppiù di inserire gli immigrati nei movimenti popolari locali. La difficoltà di conservare il consenso popolare nei confronti di un orientamento di apertura verso gli stranieri è apparsa con evidenza negli ultimi anni, in relazione al problema dei rifugiati politici. La Svezia, per esempio, è passata da una posizione connotata da forte permissività e dalla volontà di valorizzare la funzione economica dei profughi a un orientamento marcatamente restrittivo, che viene a convergere con la tendenza più diffusa a livello europeo.
In termini complessivi i paesi europei e più in generale quelli occidentali sono attualmente quasi tutti coinvolti nella ridefinizione delle proprie politiche migratorie e della normativa in materia di rifugiati politici, in conseguenza della crescente differenziazione dei flussi (sia dal punto di vista della provenienza geografica sia da quello della tipologia dei soggetti che emigrano), dell'uso distorto che tende ad essere fatto della richiesta di asilo politico, della clandestinizzazione degli ingressi, dell'emergere di orientamenti allarmistici nell'opinione pubblica. Generalmente i provvedimenti finora adottati hanno mirato a riacquisire il controllo sugli ingressi (rafforzamento dei controlli alle frontiere, estensione dei visti ad un numero maggiore di paesi, lotta all'immigrazione clandestina), mentre è sempre più avvertita l'esigenza di un migliore coordinamento in materia di asilo politico. L'altro oggetto delle politiche migratorie (ma in questo caso è più corretto parlare di politiche per gli immigrati) è costituito dagli interventi per l'inserimento socio-economico degli stranieri già presenti. Agli articolati e complessi programmi per l'insediamento definitivo promossi da paesi come il Canada e l'Australia si contrappongono le misure di carattere più specifico adottate dai vari paesi dell'OCDE che contemplano una molteplicità di obiettivi: dall'apprendimento della lingua del paese ospite all'inserimento scolastico dei minori stranieri, all'integrazione professionale, al miglioramento delle condizioni di vita nei quartieri caratterizzati da una forte presenza straniera. Ma, in termini complessivi, le iniziative finora adottate dai paesi dell'OCDE, e in particolare il tentativo di riacquisire un maggiore controllo sui flussi, configurano una risposta solo parziale all'accelerazione e alla diversificazione dei movimenti migratori. Resta aperto il problema dello sviluppo economico dei paesi d'emigrazione - e quindi quello delle prospettive della cooperazione internazionale -, unico antidoto efficace nei confronti dello stimolo ad emigrare. Ma resta altresì aperto il problema di riconoscere come l'aspirazione a ricercare la mobilità sociale attraverso quella territoriale rappresenti un dato ineliminabile della nostra realtà presente e futura.
Questa constatazione implica un ripensamento sia dei criteri tradizionalmente adottati per definire gli immigrati come categoria sociale, sia di quelli che presiedono all'accesso ai diritti (entitlement), tuttora in buona parte subordinato al requisito della cittadinanza. Rispetto al primo problema occorre osservare che il criterio più utilizzato, quello della cittadinanza, non comprende gli "immigrati dal punto di vista sociologico" che però posseggono, per svariate ragioni, il passaporto del paese di destinazione; d'altro canto, anche una definizione basata su criteri etnici o culturali incontra seri limiti, sia per l'arbitrarietà dei criteri con cui si dovrebbe definire l'appartenenza etnica degli individui, sia per l'ineluttabile evoluzione in senso multi-culturale della società. Per quanto invece concerne il secondo problema si tratta di riconoscere come le migrazioni internazionali hanno portato a una crescente discrepanza tra i concetti di "residenza" e di "cittadinanza", e di conseguenza a una eterogeneità nella distribuzione dei diritti civili. Le proposte più innovative finora avanzate sostengono la necessità di denazionalizzare il concetto di cittadinanza, collegando la tutela dei diritti al dato emergente della "territorialità". Ma anche questa prospettiva rischia di apparire angusta allorquando si considera che il divenire della società e dell'economia evidenzia la crescente anacronisticità della regolazione di livello nazionale, e colloca vieppiù entro uno spazio "virtuale" i network che strutturano le relazioni e gli scambi: emblematico, da questo punto di vista, il fenomeno delle migrazioni "itineranti", che hanno spesso per protagonisti soggetti appartenenti agli strati medio-alti della gerarchia professionale e di cui l'esempio più eloquente è rappresentato dai c.d. "transilient" originari di Hong Kong. In tale contesto, una possibile modalità per superare le aporie dei tradizionali modelli di regolazione della convivenza interetnica è quella basata sulla distinzione tra una sfera "privata" e una sfera "pubblica", sul riconoscimento di un diritto all'uguaglianza in ambito "pubblico" e la parallela valorizzazione delle differenze in ambito "privato".
Un ultimo accenno merita di essere fatto al proposito della c.d. "famiglia multietnica" che, nel suo significato letterale, designa l'entità familiare che risulta dal "matrimonio misto" (unione coniugale tra individui di diversa razza o nazionalità) o dall'"adozione internazionale" (inserimento di un minore straniero in un nucelo familiare autoctono), fenomeni che hanno entrambi conosciuto la loro maggiore diffusione in questi ultimi anni. é peraltro invalso il ricorso a questa espressione anche per designare, in un senso più lato, l'istituzione familiare entro una società multietnica, e conseguentemente per porre a tema le dinamiche di rinegoziazione degli equilibri, delle aspettative reciproche, della divisione del lavoro tra sessi e generazioni cui essa è sottoposta in conseguenza del confronto con differenti sistemi culturali, e che in maniera eccessivamente semplicistica sono spesso ricondotti alla dicotomia "tradizione"/"Ûmodernità". Più che su una sterile contrapposizione tra questi due poli, l'analisi del tema in questione dovrebbe concentrarsi sulle potenzialità che la presenza di famiglie "altre" offre per una riflessione sulla propria identità individuale e comunitaria, la cui rilevanza emerge appunto sostanzialmente solo grazie al confronto con una identità diversa.
Aggiunto 53 secondi più tardi:
va bene come ricerca dell'argomento???
Aggiunto 51 secondi più tardi:
prego è sempre bello aiutare le persone in difficoltà
Il principale, ma non unico, fattore di genesi della società multietnica è costituito dal fenomeno delle migrazioni internazionali.
Immediatamente connesso con questo tipo di sistema sociale è il problema della regolazione della convivenza tra minoranze e maggioranza, o tra immigrati e società d'accoglienza, che costituisce un tema ampiamente frequentato dagli scienziati sociali; ciò nonostante, l'analisi della letteratura porta a sottolineare l'insufficiente sistematizzazione della materia e, in particolare, la mancanza di un vocabolario condiviso nell'ambito della comunità scientifica.
In termini generali si può dire che i vari concetti coniati per descrivere i rapporti tra stranieri e società ospite hanno
una natura processuale e possono essere sommariamente distinti in processi integrativi e disintegrativi, a seconda
che focalizzino la dimensione dell'inclusione degli immigrati oppure quella della loro esclusione e del potenziale conflitto tra gruppi etnici diversi.
Relativamente ai processi integrativi,
i concetti maggiormente ricorrenti nella letteratura sono quelli di integrazione
e di assimilazione. Per quanto, come si è detto, il loro significato non sia univoco, le accezioni più frequenti individuano nell'assimilazione il processo attraverso il quale il nuovo arrivato interiorizza
i modelli di comportamento e gli orientamenti valoriali della società ospite, laddove l'integrazione concerne precipuamente la sfera socio-economica
ed implica l'adozione di patterns comportamentali e il raggiungimento
di condizioni di vita che riducono i rischi di segregazione e di conflitto senza però addivenire ad una completa conformità culturale. Se dunque l'assimilazione comporta il sostanziale abbandono della cultura d'origine - come prescritto dal modello americano del melting pot -, l'integrazione accetta ed eventualmente valorizza il pluralismo culturale. é inoltre interessante osservare che mentre si sarebbe portati a pensare che l'assimilazione culturale si manifesti solo dopo che l'immigrato abbia raggiunto un buon livello di integrazione socio-economica, l'evidenza empirica suggerisce l'eventualità di un'opposta successione tra i due processi: ciò vale soprattutto per le seconde generazioni spesso perfettamente assimilate, grazie all'azione socializzatrice della scuola e dei mass media, ai modelli di comportamento e agli stili di consumo della società in cui sono cresciuti, ma ancora non completamente integrati dal punto di vista socio-economico a causa dell'impossibilità della famiglia di sostenere con adeguate risorse economiche e culturali le loro aspirazioni di mobilità sociale.
L'ambiguità di significato che circonda l'uso dei concetti di assimilazione e di integrazione ha indotto il ricorso a differenti espressioni. Tra le più utilizzate ricordiamo la nozione, di chiara derivazione struttural-funzionalistica, di adattamento - che designa le modalità attraverso le quali l'immigrato (o più propriamente i gruppi di immigrati) reagisce al nuovo ambiente apprendendo i ruoli funzionali agli imperativi sistemici - e quella di acculturazione, che descrive il processo interattivo attraverso il quale due gruppi differenti selezionano e parzialmente trasformano alcuni tratti della cultura con la quale sono entrati in contatto, integrandoli nel proprio sistema culturale di riferimento.
In termini generali la configurazione, i tempi e gli esiti di quelli che abbiamo chiamato processi integrativi dipendono da un'articolata serie di fattori e di condizioni. Un primo ordine di fattori rinvia al divario che sotto diversi punti di vista (caratteristiche fisico-somatiche della popolazione, sistemi culturali, posizione nel contesto della divisione internazionale del lavoro, ecc.) esiste tra la società d'origine e quella d'approdo. Altri elementi concernono le caratteristiche specifiche dei soggetti che emigrano (età, sesso, livello di istruzione, padronanza della lingua del paese ospite, attitudine alla devianza, condizione di isolamento o partecipazione ad una migrazione familiare e/o comunitaria, ecc.) e della società che li accoglie (orientamenti culturali nei confronti dello straniero, chances di mobilità sociale, caratteristiche del mercato del lavoro, diffusione di pregiudizi e stereotipi sugli stranieri o addirittura di atteggiamenti xenofobi e così via).
Un ruolo particolare va comunque attribuito alle politiche integrative. A questo proposito si rileva come le analisi più circostanziate hanno ormai dimostrato la sostanziale inattendibilità di nozioni quale quella della soglia di tolleranza, che postula che ciascuna società abbia una capacità di assorbimento degli stranieri predefinita ed esprimibile in termini percentuali. Spetta semmai alle autorità politiche e amministrative prevenire l'insorgenza di possibili focolai di conflitto, e in particolare la formazione di ghetti e delle altre forme di insediamento poco funzionali all'instaurazione di rapporti di pacifica convivenza con la popolazione autoctona.
Da questo punto di vista merita di essere ricordato che sono stati coniati specifici termini per descrivere la forma assunta dagli insediamenti delle comunità straniere. Un primo termine, che in realtà appartiene alla storia delle migrazioni del passato, è quello di colonia etnica: esso descrive il risultato di un'immigrazione di massa in una determinata area di un paese straniero. Il termine colonia è solitamente riferito a ragioni che si presentavano, all'arrivo degli immigrati, "vergini" o comunque poco popolate; per estensione esso può essere impiegato per descrivere i raggruppamenti di connazionali in determinate aree o quartieri delle grandi città, ai quali si è soliti riferirsi con appellattivi come Little Italy o China Town.
Questi raggruppamenti, funzionali al bisogno di reciproco sostegno soprattutto nelle fasi iniziali del progetto migratorio, hanno storicamente rappresentato il crogiuolo privilegiato per la costituzione delle c.d. "enclaves etniche" e per l'avvio di forme di imprenditorialità su base etnica (c.d. "economie etniche"). Essi hanno altresì costituito l'oggetto di studi e ricerche, svolte in particolare dagli esponenti della Scuola di Chicago, che restano capisaldi fondamentali nell'attuale sociologia delle migrazioni, e che hanno contribuito a fare luce su fenomeni di rilevante interesse sociologico, come quello della devianza (si ricordi la nota teoria di Merton e la teorizzazione della delinquenza giovanile in termini di bande) o della strutturazione di specifiche sub-culture nel contesto di sistemi sociali tendenzialmente conformistici. Merita di essere ricordato il ricorso al termine di ghetto, che dà conto della condizione di segregazione in cui spesso vivono gli immigrati in conseguenza delle loro condizioni di povertà e di estraneità agli usi e costumi della società d'accoglienza. Il ghetto è connotato da una propria specifica forma di stratificazione sociale, da un proprio sistema di potere e di influenza e dalla frequenza di fenomeni di anomia sociale.
In realtà il termine ghetto, se è senza dubbio pertinente a descrivere la realtà di molte città americane, appare inadeguato a dare conto dell'esperienza europea dove è più frequente constatare, in particolare nei quartieri coinvolti in processi di degrado sociale e urbano, la convivenza di stranieri e autoctoni appartenenti agli strati più bassi della gerarchia sociale. Nell'un caso e nell'altro la presenza degli immigrati tende a essere mal sopportata dalla popolazione locale, che è solita assumerli come capri espiatori di situazioni di disagio e di degrado che hanno cause non riconducibili all'arrivo degli stranieri. Di qui l'attenzione che deve essere attribuita a quelli che più sopra abbiamo chiamato processi disintegrativi che vanno dalla stratificazione su basi etniche della società e più in particolare del mercato del lavoro (eventualmente alimentata da orientamenti culturalmente differenzialistici che legittimano l'esistenza delle c.d. "specializzazioni etniche") alla discriminazione nell'accesso alla casa, al lavoro e all'istruzione; dalla segregazione - volontaria o coatta - sociale e territoriale rispetto al sistema sociale complessivo all'esistenza di conflitti su base etnica ma passibili di svilupparsi altresì tra gruppi di immigrati di nazionalità diversa o di più o meno recente arrivo. Il conflitto etnico viene usualmente ricondotto al modello tradizionale dello sfruttamento della minoranza a opera della maggioranza. Tanto i sociologi funzionalisti quanto quelli marxisti sono comunque approdati a ipotesi di soluzione del conflitto etnico curiosamente simili: i primi hanno postulato una convergenza delle culture minoritarie in quella maggioritaria, attraverso il processo di modernizzazione e la progressiva sostituzione delle solidarietà di tipo ascrittivo con quelle di tipo funzionale; i secondi hanno a loro volta ipotizzato un graduale assorbimento dell'appartenenza etnica da parte di quella di classe.
Un ultimo cenno, sempre a proposito dei rapporti tra immigrati e società ospite, deve essere fatto con riguardo alla questione della partecipazione dei primi al mercato del lavoro. Le teorie che sono state elaborate evidenziano la loro funzione di volta in volta complementare, sostitutiva o concorrenziale rispetto alla manodopera locale, e da questa funzione vengono fatte discendere specifiche conseguenze anche rispetto all'evoluzione delle relazioni con la popolazione locale. Di fatto la storia delle migrazioni internazionali, e soprattutto le sue fasi più recenti, inducono a ridimensionare i rischi di concorrenza coi lavoratori autoctoni: gli immigrati sono soliti assumere i lavori rifiutati dalla manodopera locale, a collocarsi in quello che Piore ha definito il mercato del lavoro "secondario" e caso mai si innesta una sorta di concorrenza interna al gruppo dei lavoratori stranieri, nel senso che gli ultimi arrivati rimpiazzano gli altri nelle posizioni più basse della gerarchia occupazionale. é inoltre di grande interesse rilevare che l'inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro di arrivo (e più in generale nella società) adempie a una "funzione specchio", cioè di rivelatore delle caratteristiche, delle opportunità e delle disfunzioni di ciascun mercato locale del lavoro (e di ciascuna società locale).
Abbiamo più sopra richiamato l'importanza delle politiche per prevenire l'insorgere di difficoltà di convivenza tra stranieri e autoctoni. Nella tradizione europea si possono individuare differenti modelli di regolazione della convivenza inter-etnica. In questa sede ci limiteremo a ricordare le principali caratteristiche del modello francese, di quello tedesco e di quello applicato nei paesi nordici.
Il modello tedesco si è tradizionalmente fondato sul concetto di gastarbeiter, il lavoratore ospite, figura idealtipica di quella fase delle migrazioni dirette verso il Nord-Europa nella quale valeva la presupposizione di una permanenza a tempo e scopi definiti, e che trovava il suo epilogo nel rientro del migrante nella terra d'origine. L'immigrazione in questo periodo - l'immediato dopoguerra - era strettamente funzionale alle esigenze di rilancio dell'economia del paese ospite; la percezione dello straniero era quella di un mero prestatore di lavoro. Le politiche dell'immigrazione si basavano su una stretta regolazione dei flussi in ingresso, sull'integrazione professionale, sull'incentivazione dei rimpatri (in particolare per i soggetti disoccupati) ed eventualmente sulla promozione di una rotazione delle presenze, idonea a inibire la stabilizzazione degli insediamenti immigrati. A dispetto di queste premesse le presenze straniere si sono in numerosissimi casi tramutate in definitive, hanno generato consistenti flussi di riunificazione familiare e dato vita a vaste comunità straniere, non di rado orientate all'autoimprenditorialità, anche come strategia di risposta ai problemi occupazionali emersi coll'esaurirsi del processo di ricostruzione post-bellica. L'ambiguità del modello tedesco resta però evidente nel fatto che la Germania continua a non considerarsi terra d'immigrazione, e a richiedere agli stranieri stabilmente presenti sul territorio tedesco un'integrazione intesa fondamentalmente come uniformità ai modelli culturali autoctoni. Coerente con questa impostazione del problema della convivenza interetnica è la preferenza da sempre accordata agli stranieri supposti "assimilabili" e la perpetuazione di una tradizione, in materia di criteri per la concessione della cittadinanza, rigidamente fondata sullo jus sanguinis.
L'approccio francese è per converso da sempre ispirato a una visione decisamente assimilatrice e tributaria verso gli ideali di grandezza nazionale che ha le sue radici nella prassi, vigente fino alla vigilia del secondo conflitto mondiale, della naturalizzazione dell'immigrato. Le politiche per gli immigrati hanno mirato a promuovere l'assimilazione degli stranieri all'ideale di una Francia laica e repubblicana; di qui la centralità attribuita alle agenzie educative, e in primo luogo alla scuola, rispetto all'obiettivo dell'integrazione culturale degli immigrati e dei loro discendenti. Aporie e contraddizioni sono però presenti nel modello francese almeno quanto lo sono in quello tedesco. L'assimilazione culturale non si è accompagnata ad un effettivo e generalizzato inserimento socio-professionale degli stranieri. Si osserva inoltre, nei provvedimenti più recenti, l'ambigua compresenza di principi quali il rigido controllo dei flussi e l'integrazione degli immigrati già presenti, il diritto all'indifferenza con il rispetto delle identità. Più in generale, la questione dell'immigrazione soffre di un'eccessiva politicizzazione e di una mediatizzazione che produce allarmismo e inquietudine nell'opinione pubblica, soprattutto nei confronti dell'immigrazione musulmana.
I paesi nordici si riconoscono invece nel modello della "minoranza etnica", cioè nella scelta di istituzionalizzare, attraverso la "creazione" di gruppi minoritari, la marginalità di quelle componenti dell'immigrazione meno integrate dal punto di vista culturale e da quello strutturale. La creazione dei gruppi viene vista come funzionale alla legittimazione delle richieste delle minoranze, e quindi alla promozione dell'uguaglianza con gli autoctoni. In linea di principio, questo approccio appare ispirato da ideali di grande apertura - questi paesi si distinguono, tra l'altro, per aver concesso agli stranieri residenti il diritto di voto a livello locale -, ma la sua applicazione non è risultata esente da effetti perversi. La creazione delle minoranze, su basi di eterodefinizione, può finire paradossalmente col rafforzarne la segregazione, a causa soprattutto della loro insufficiente capacità d'azione politica. Inoltre, l'esistenza di canali partecipativi specificamente destinati agli stranieri può divenire un palliativo, da parte della società ospitante, per non aprire le proprie istituzioni agli stranieri stessi, ciò che accentua il loro isolamento. Per questi motivi negli ultimi anni lo scetticismo nei confronti dei raggruppamenti su base etnica è divenuto sempre più manifesto, e si tenta vieppiù di inserire gli immigrati nei movimenti popolari locali. La difficoltà di conservare il consenso popolare nei confronti di un orientamento di apertura verso gli stranieri è apparsa con evidenza negli ultimi anni, in relazione al problema dei rifugiati politici. La Svezia, per esempio, è passata da una posizione connotata da forte permissività e dalla volontà di valorizzare la funzione economica dei profughi a un orientamento marcatamente restrittivo, che viene a convergere con la tendenza più diffusa a livello europeo.
In termini complessivi i paesi europei e più in generale quelli occidentali sono attualmente quasi tutti coinvolti nella ridefinizione delle proprie politiche migratorie e della normativa in materia di rifugiati politici, in conseguenza della crescente differenziazione dei flussi (sia dal punto di vista della provenienza geografica sia da quello della tipologia dei soggetti che emigrano), dell'uso distorto che tende ad essere fatto della richiesta di asilo politico, della clandestinizzazione degli ingressi, dell'emergere di orientamenti allarmistici nell'opinione pubblica. Generalmente i provvedimenti finora adottati hanno mirato a riacquisire il controllo sugli ingressi (rafforzamento dei controlli alle frontiere, estensione dei visti ad un numero maggiore di paesi, lotta all'immigrazione clandestina), mentre è sempre più avvertita l'esigenza di un migliore coordinamento in materia di asilo politico. L'altro oggetto delle politiche migratorie (ma in questo caso è più corretto parlare di politiche per gli immigrati) è costituito dagli interventi per l'inserimento socio-economico degli stranieri già presenti. Agli articolati e complessi programmi per l'insediamento definitivo promossi da paesi come il Canada e l'Australia si contrappongono le misure di carattere più specifico adottate dai vari paesi dell'OCDE che contemplano una molteplicità di obiettivi: dall'apprendimento della lingua del paese ospite all'inserimento scolastico dei minori stranieri, all'integrazione professionale, al miglioramento delle condizioni di vita nei quartieri caratterizzati da una forte presenza straniera. Ma, in termini complessivi, le iniziative finora adottate dai paesi dell'OCDE, e in particolare il tentativo di riacquisire un maggiore controllo sui flussi, configurano una risposta solo parziale all'accelerazione e alla diversificazione dei movimenti migratori. Resta aperto il problema dello sviluppo economico dei paesi d'emigrazione - e quindi quello delle prospettive della cooperazione internazionale -, unico antidoto efficace nei confronti dello stimolo ad emigrare. Ma resta altresì aperto il problema di riconoscere come l'aspirazione a ricercare la mobilità sociale attraverso quella territoriale rappresenti un dato ineliminabile della nostra realtà presente e futura.
Questa constatazione implica un ripensamento sia dei criteri tradizionalmente adottati per definire gli immigrati come categoria sociale, sia di quelli che presiedono all'accesso ai diritti (entitlement), tuttora in buona parte subordinato al requisito della cittadinanza. Rispetto al primo problema occorre osservare che il criterio più utilizzato, quello della cittadinanza, non comprende gli "immigrati dal punto di vista sociologico" che però posseggono, per svariate ragioni, il passaporto del paese di destinazione; d'altro canto, anche una definizione basata su criteri etnici o culturali incontra seri limiti, sia per l'arbitrarietà dei criteri con cui si dovrebbe definire l'appartenenza etnica degli individui, sia per l'ineluttabile evoluzione in senso multi-culturale della società. Per quanto invece concerne il secondo problema si tratta di riconoscere come le migrazioni internazionali hanno portato a una crescente discrepanza tra i concetti di "residenza" e di "cittadinanza", e di conseguenza a una eterogeneità nella distribuzione dei diritti civili. Le proposte più innovative finora avanzate sostengono la necessità di denazionalizzare il concetto di cittadinanza, collegando la tutela dei diritti al dato emergente della "territorialità". Ma anche questa prospettiva rischia di apparire angusta allorquando si considera che il divenire della società e dell'economia evidenzia la crescente anacronisticità della regolazione di livello nazionale, e colloca vieppiù entro uno spazio "virtuale" i network che strutturano le relazioni e gli scambi: emblematico, da questo punto di vista, il fenomeno delle migrazioni "itineranti", che hanno spesso per protagonisti soggetti appartenenti agli strati medio-alti della gerarchia professionale e di cui l'esempio più eloquente è rappresentato dai c.d. "transilient" originari di Hong Kong. In tale contesto, una possibile modalità per superare le aporie dei tradizionali modelli di regolazione della convivenza interetnica è quella basata sulla distinzione tra una sfera "privata" e una sfera "pubblica", sul riconoscimento di un diritto all'uguaglianza in ambito "pubblico" e la parallela valorizzazione delle differenze in ambito "privato".
Un ultimo accenno merita di essere fatto al proposito della c.d. "famiglia multietnica" che, nel suo significato letterale, designa l'entità familiare che risulta dal "matrimonio misto" (unione coniugale tra individui di diversa razza o nazionalità) o dall'"adozione internazionale" (inserimento di un minore straniero in un nucelo familiare autoctono), fenomeni che hanno entrambi conosciuto la loro maggiore diffusione in questi ultimi anni. é peraltro invalso il ricorso a questa espressione anche per designare, in un senso più lato, l'istituzione familiare entro una società multietnica, e conseguentemente per porre a tema le dinamiche di rinegoziazione degli equilibri, delle aspettative reciproche, della divisione del lavoro tra sessi e generazioni cui essa è sottoposta in conseguenza del confronto con differenti sistemi culturali, e che in maniera eccessivamente semplicistica sono spesso ricondotti alla dicotomia "tradizione"/"Ûmodernità". Più che su una sterile contrapposizione tra questi due poli, l'analisi del tema in questione dovrebbe concentrarsi sulle potenzialità che la presenza di famiglie "altre" offre per una riflessione sulla propria identità individuale e comunitaria, la cui rilevanza emerge appunto sostanzialmente solo grazie al confronto con una identità diversa.
Aggiunto 53 secondi più tardi:
va bene come ricerca dell'argomento???
Aggiunto 51 secondi più tardi:
prego è sempre bello aiutare le persone in difficoltà
ho fatto il testo puoi trasformarmelo in testo argomentativo almeno ti prg
testo:
Per società multietnica si intende una società umana caratterizzata dalla coesistenza, più o meno integrata, di persone di origine ed etnia diverse. Le attuali migrazioni stanno producendo un rimescolamento etnico e culturale a livello mondiale, ciò porta a un confronto tra differenti culture, religioni, razze e idee sociali. È evidente come il processo di globalizzazione che stiamo vivendo interessi non solo lo spostamento di capitali, ma anche quello di popoli, alcuni che sono costretti a immigrare in cerca di una vita migliore, altri che si spostano liberamente per motivi di studio o per semplice sfida personale nell’integrarsi in una nuova società diversa da quella di provenienza. Tutto ciò è possibile grazie anche alla facilità di spostarsi da un luogo all’altro che ci viene offerta dalle nuove tecnologie e ai mezzi di trasporto sempre più efficienti che si sono susseguiti nel corso dei secoli. La conseguenza più evidente di questa grande migrazione è lo sviluppo di vere e proprie società multirazziali;basta guardare la composizione etnica di tutte le grandi metropoli. L’Italia, data la sua posizione geografica protesa verso il Mediterraneo, da diversi anni a questa parte è interessata sempre più, in maniera purtroppo drammatica, da flussi migratori di cittadini in fuga da guerre civili, etniche e religiose, e alla ricerca disperata di lavoro. In positivo o negativo che siano, queste migrazioni porteranno il nostro paese a divenire, negli anni, sempre più multietnica, e assomigliare sempre più agli Stati Uniti, repubblica federale composta da un altissimo numero di etnie. La convivenza tra etnie umane diverse ha sempre imposto alle parti a confronto problemi difficili e tensioni molto alte, e la tentazione di risolvere le divergenze con la violenza, purtroppo, è stata largamente usata nel corso dei secoli:basti ricordare dalle persecuzioni razziste dei tedeschi ad ebrei e neri durante il periodo del secondo conflitto mondiale, alle guerre civili più recenti in quella che è l’attuale Ex - Jugoslavia, ora divisa in tante piccole federazioni e repubbliche, alla recentissima guerra in Georgia contro la Russia. Nonostante le continue divergenze che si susseguono nel corso dei secoli, tutti noi dobbiamo sforzarci ad accettare questo corso della storia, questo corso che vede le varie etnie del pianeta fondersi, e costruire una immensa società in cui tutti potranno identificarsi.
Aggiunto 28 secondi più tardi:
grz sei grande grande
testo:
Per società multietnica si intende una società umana caratterizzata dalla coesistenza, più o meno integrata, di persone di origine ed etnia diverse. Le attuali migrazioni stanno producendo un rimescolamento etnico e culturale a livello mondiale, ciò porta a un confronto tra differenti culture, religioni, razze e idee sociali. È evidente come il processo di globalizzazione che stiamo vivendo interessi non solo lo spostamento di capitali, ma anche quello di popoli, alcuni che sono costretti a immigrare in cerca di una vita migliore, altri che si spostano liberamente per motivi di studio o per semplice sfida personale nell’integrarsi in una nuova società diversa da quella di provenienza. Tutto ciò è possibile grazie anche alla facilità di spostarsi da un luogo all’altro che ci viene offerta dalle nuove tecnologie e ai mezzi di trasporto sempre più efficienti che si sono susseguiti nel corso dei secoli. La conseguenza più evidente di questa grande migrazione è lo sviluppo di vere e proprie società multirazziali;basta guardare la composizione etnica di tutte le grandi metropoli. L’Italia, data la sua posizione geografica protesa verso il Mediterraneo, da diversi anni a questa parte è interessata sempre più, in maniera purtroppo drammatica, da flussi migratori di cittadini in fuga da guerre civili, etniche e religiose, e alla ricerca disperata di lavoro. In positivo o negativo che siano, queste migrazioni porteranno il nostro paese a divenire, negli anni, sempre più multietnica, e assomigliare sempre più agli Stati Uniti, repubblica federale composta da un altissimo numero di etnie. La convivenza tra etnie umane diverse ha sempre imposto alle parti a confronto problemi difficili e tensioni molto alte, e la tentazione di risolvere le divergenze con la violenza, purtroppo, è stata largamente usata nel corso dei secoli:basti ricordare dalle persecuzioni razziste dei tedeschi ad ebrei e neri durante il periodo del secondo conflitto mondiale, alle guerre civili più recenti in quella che è l’attuale Ex - Jugoslavia, ora divisa in tante piccole federazioni e repubbliche, alla recentissima guerra in Georgia contro la Russia. Nonostante le continue divergenze che si susseguono nel corso dei secoli, tutti noi dobbiamo sforzarci ad accettare questo corso della storia, questo corso che vede le varie etnie del pianeta fondersi, e costruire una immensa società in cui tutti potranno identificarsi.
Aggiunto 28 secondi più tardi:
grz sei grande grande
ti consiglio di fare una ricerca perchèè da quello che so di testi del genere li ho fatti anche io, fai una breve ricerca su internet ok
Aggiunto 13 minuti più tardi:
ok
Aggiunto 13 minuti più tardi:
ok
TI PRG AIUTAMI FALLO SECONDO TE E SECONDO LE TUE OPINIONI TI PRG TI PRG E URGENTE SE MI AIUTI SEI LA MIGLIORE O IL MIGLIORE DEL MONDO MA TI PRG AIUTAMI
Essendo un testo devi inizialmente imppstare una tua bozza, solamente allora possiamo rivederla insieme e provare d aiutarti.
Ciao Laura!
Ciao Laura!