Campagna di Russia

Leila.1998
mappa concettuale sul dramma vissuto dai soldati italiani durante la campagna di Russia

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sweetdia
http://it.wikipedia.org/wiki/Reparti_italiani_al_fronte_orientale
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Gli Italiani in Russia (1812)

LA SITUAZIONE POLITICA. - All'inizio del 1812, l'alleanza conclusa a Tilsit cinque anni prima fra Francia e Russia era ormai pressocchè sciolta: a ciò aveva poderosamente contribuito l'Inghilterra, secolare nemica della Francia.
L'occupazione della Pomerania, effettuata nel gennaio 1812 a cura della divisione Friant, non solo aveva irritato la Svezia, ma insospettito sempre di più lo Zar Alessandro.
Come è quindi naturale che fosse, alle peggiorate relazioni fra i due colossi europei si venivano affiancando le rispettive previdenze politico-militari, tendenti a procurarsi alleanze o ad eliminare altri possibili avversari.
Chiedeva Napoleone al Senato (che annuiva) di organizzare cento coorti di guardie nazionali per la sicurezza dell'Impero; emanava l'Imperatore ordini al Viceré d'Italia per la preparazione delle truppe italiane, affinchè un grosso contingente di esse potesse al più presto raggiungere sulla Vistola il corpo del maresciallo Davout.
Trattati di alleanza, fra il febbraio ed il marzo 1812, venivano conclusi dalla Francia con l'Austria e la Prussia, apparentemente favorevoli, ma che già premeditavano la possibilità di cambiare bandiera, qualora la situazione militare si fosse capovolta ai danni della Francia.
Il duca di Narbonne, ambasciatore straordinario francese alla corte di Russia, riferiva essere la guerra inevitabile, a meno che non si fosse da Napoleone rinunciato alle pretese relative al blocco continentale e provveduto al sollecito sgombro degli Stati prussiani.
Aggiungeva il Narbonne non volere lo Zar prendere la iniziativa delle operazioni, ma essere risoluto, ove aggredito, a ritirarsi con le sue truppe nell'estremo oriente del suo vasto impero anziché accettare una pace vergognosa. Fatalmente, dunque, stava per scoccare l'ora di quel conflitto che avrebbe provocato,nel volgere di due anni, la prima caduta di Napoleone.


Franz Kruger - Zar Alessandro I
LA PENISOLA ITALIANA NEL 1812. - A questo punto è necessario ricordare come fosse a quei tempi ordinata la nostra terra. Tranne le due maggiori isole, Sardegna e Sicilia, rimaste alle rispettive dinastie esuli dal continente (Savoia e Borbone), la penisola era tutta sottomessa a Napoleone, direttamente attraverso territori che erano parte integrante dell'Impero, indirettamente attraverso Stati governati da luogotenenti di Napoleone, sia pure con numerose limitazioni.
Due Stati, uno al Nord ed uno al Sud:il Regno Italico e quello delle Due Sicilie, rispettivamente retti da Eugenio di Beauharnais e da Gioacchino Murat, l'uno figliastro, l'altro cognato dell' Imperatore, antichi suoi compagni di guerra.
Il Regno d'Italia, dal Ticino al Tronto, con capitale Milano, comprendeva Lombardia, Venezia, Trentino, Emilia, Romagna, Marche. Aveva per emblema la bandiera dai fatidici colori bianco, rosso e verde, e costituiva un tutto prettamente italiano.
Il Regno delle Due Sicilie (terre di qua dal Faro) dal Tronto in giù comprendeva Abruzzo, Molise, Puglia, Campania, Basilicata, Calabria. Risentiva delle non buone relazioni fra i due cognati; inoltre era diviso dalle fazioni politiche, molti dei suoi cittadini essendo ostili ai Francesi, non per amore della monarchia borbonica, ma per avversità verso lo straniero.
Tra Nord e Sud, gli antichi Stati della Chiesa (Lazio-Umbria) con capitale Roma, a suo tempo proclamata seconda città dell'Impero, con un governo militare retto dal generale Miollis: paese che in complesso non si era adattato per nulla al regime imperiale.
La Toscana, sempre pacifica, costituiva granducato retto da Elisa Buonaparte, sorella dell'Imperatore, maritata al Baciocchi.Il resto dell'Italia, ad occidente del Ticino, sino al Mar Ligure (Piemonte e Liguria, con Parma e Piacenza), era parte integrante dell'Impero; nelle prime due regioni governava Camillo Borghese, cognato dell' Imperatore, perché marito di sua sorella, la «bella Paolina», come era in quel tempo chiamata.

LE FORZE MILITARI ITALIANE. - Delle forze militari italiane, quelle del Regno Italico erano le più omogenee, le meglio organizzate in divisioni che avevano già gloriosamente combattuto nelle precedenti campagne. Erano di massima comandate da generali italiani ed avevano una solida tradizione militare. Comprendevano reggimenti di fanteria di linea e leggeri, e adeguate aliquote delle altri armi; singolarmente scelto il corpo della Guardia Reale.
Il reclutamento si faceva con la coscrizione; per gli ufficiali ed i sottufficiali, attraverso scuole ottimamente comandate. Pavia provvedeva per fanti e cavalieri, Modena per artiglieria e genio, e dal collegio di Venezia uscivano eccellenti ufficiali di quella marina.
L'esercito assommava a circa 90.000 uomini con 15.000 cavalli e 150 pezzi. Inoltre, essendo il territorio diviso in 24 dipartimenti, in quasi ognuno di essi era dislocata una compagnia di fanteria della riserva dipartimentale. Dal lato tecnico l'esercito, sotto l'azione vigile e oculata dei vari ministri della Guerra, disponeva di numerosi e poderosi mezzi.


Per contro, nel 1812, l'esercito murattiano aveva vita e tradizioni meno gloriose, solo per avere avuto minori occasioni di distinguersi. Comprendeva, nelle sue varie armi, truppe della guardia e di linea; il Re disponeva anche di una marina, piccola sì, ma fiera di avere più volte respinto tentativi inglesi contro le coste nazionali. Sino dal 1809 era in atto la coscrizione, nel rapporto di due uomini ogni mille cittadini; la Scuola Reale Politecnica Militare (antica Accademia Borbonica dell'Annunziatella) forniva ufficiali distinti, di cui taluni saliti in grande fama. I colori nazionali di quell'esercito, a cui Murat aveva impresso alto spirito, erano il bianco, l'amaranto e l'azzurro.
Gli Italiani, infine, delle regioni annesse all’Impero, servivano in reggimenti francesi, e come tali apparivano, sebbene taluni corpi fossero esclusivamente formati da connazionali, come per esempio il 111° di linea, l'11° e 31° di fanteria leggera, il 26° Dragoni ed il 26° Cacciatori a cavallo composti tutti di
Paulin - Gioacchino Murat

Piemontesi, mentre il 113° di linea e il 28° Dragoni erano tutti formati di elementi toscani.
Abbondavano invece i Romani nel 137° fanteria, e Liguri e Parmensi fornivano reclute al 32° e 35° fanteria leggeri. L'Italia, dunque, sia pur fatalmente separata, si accingeva a fornire un poderoso contributo alla Grande Armata, a fianco di numerose altre nazionalità, agenti nel quadro più vasto dell' Impero napoleonico, che le aveva assorbite.

I PREPARATIVI MILITARI IN ITALIA. - In armonia con le numerose previdenze adottate dall' Imperatore sino dalla primavera del 1811 (rinforzo ai reggimenti dislocati in Prussia, costituzione di battaglioni scelti, acquisti numerosi di quadrupedi, preparativi dei contingenti germanici, richiamo di truppe dalla penisola iberica, anticipo di chiamata della classe, concentramento di vettovaglie a Danzica) anche l'esercito italico veniva mobilitandosi, e per la primavera del 1812 il governo del Viceré avrebbe dovuto fornire, come in effetti fornì, la divisione Pino (13.000 uomini ed un migliaio di cavalli), la divisione della Guardia Reale (generale Lechi: poco oltre 5000 uomini, 1600 cavalli), la brigata di cavalleria leggera (generale Villata), il reggimento Dragoni della Regina (colonnello Narboni), nonché parchi di artiglieria e del genio, equipaggi militari, reparti di marina, per un complesso di circa 27.000 uomini e 9000 cavalli: rispettabile contingente, se si riflette che altre divisioni italiche combattevano in Spagna.
Dovevano queste truppe inquadrarsi nel IV corpo d'armata, comandato dal Viceré, e nel febbraio del 1812 venivano concentrandosi nella pianura veneta, tra Vicenza, Bassano e Cittadella.
Inoltre una divisione doveva riunirsi tra Udine e Padova quale riserva, ed un'altra tra Bologna ed Ancona per agire eventualmente nell'Italia centrale; opportuni presidi dislocati nella valle atesina avrebbero costituito e protetto la linea di comunicazione tra i depositi del regno e le truppe operanti alla Grande Armata. Per effetto, poi dell'alleanza con l'Austria, Napoleone non aveva motivo di preoccupazioni da quest'ultima, ma non poteva disinteressarsi degli Inglesi, che, padroni nel Mediterraneo, continuamente molestavano le coste italiane.
Le truppe italiche dovevano muovere alla metà di febbraio, risalendo la valle atesina, e, superato il Brennero, per Ratisbona sul Danubio, raggiungere Glogau.
Minute previdenze avrebbero assicurato il perfetto funzionamento dei servizi nelle lunghe marce dalla pianura padana a quella germanica.
Ogni fante era, per il lungo viaggio, fornito di tre paia di scarpe, e un quarto veniva trasportato sul carreggio dei corpi. La quarta parte dell'armamento (fucili, moschetti, pistole) e la settima parte delle sciabole veniva trasportata dai carri del parco d'artiglieria.
Il contingente imposto al Regno delle Due Sicilie venne limitato ad una divisione di poco più di 10.000 uomini con circa 2000 cavalli.
Di più non era stato richiesto a Murat, per lasciargli mezzi e possibilità di difendere le sue coste continuamente minacciate dalla marina anglo-siciliana. La divisione, comandata dal francese D'Estrées, comprendeva reparti di linea, della guardia e di marina, tutti napoletani, e doveva essere adunata nei dintorni di Napoli ai primi dell'aprile 1812.
Lo stesso re Gioacchino doveva partecipare, come in effetti partecipò, alla grande impresa, quale comandante generale della cavalleria imperiale; egli aveva combattuto in tutte le guerre dell'epoca tranne in quella del 1809 contro l'Austria, nel quale anno era dovuto rimanere nel proprio territorio per ragioni di difesa. Le truppe napoletane, per l'itinerario Roma-Firenze-Bologna-Mantova, dovevano riunirsi a Verona per raggiungere poi, per il corridoio atesino, gli stessi obiettivi prescritti per le truppe italiche. Essendo alcuni reparti dalla tappa di Siena dovuti rientrare nel Regno per ragioni di sicurezza, il contingente napoletano si riduceva ad 8500 uomini. Particolari accordi per le tappe ed i rifornimenti erano stati presi tra i ministri della guerra di Napoli e di Milano, e i rappresentanti del governo a Roma e a Firenze.
Da queste previdenze sommariamente esposte, emerge chiara la speciale cura da Napoleone apportata a simili giganteschi movimenti di truppe, che si effettuavano, nel volgere di mesi, attraverso il suo vasto Impero ed in modo che giungessero sul campo di azione in piena efficienza.
Infine contingenti piemontesi, liguri, toscani e romani, considerati quali francesi perché tali erano considerate le rispettive regioni, parteciparono alla spedizione di Russia inquadrati nei reggimenti imperiali, ai quali queste regioni fornivano reclute.
I numerosi diari, ricordi, scritti vari di ufficiali, che furono attori nella grande impresa, precisano interessanti particolari della vita dei reparti durante il gigantesco movimento dall'Italia alla Polonia, narrando vicende di marcia, episodi diversi presso gli abitanti dei vari paesi, le accoglienze ricevute, talora entusiastiche, talora fredde, sempre però improntate a grande deferenza. Né mancano in quelle pubblicazioni racconti di avventure amorose, indice della spensieratezza di quella gente che se ne andava sicura e serena al cimento per il servizio dell'Imperatore, ma, più che altro, per la gloria dell'Italia.

DALL' ITALIA AL TEATRO DELLA GUERRA. - II 18 febbraio 1812, la Guardia Reale, dopo essere stata passata in rivista a Milano dal Viceré, si avviava verso la sua destinazione, per Brescia e Ala; successivamente partiva la divisione Pino. Per necessità logistiche, nel lungo corridoio atesino, le divisioni si dovettero snodare in diversi scaglioni, salvo a riunirsi poi, superate le Alpi.
Ai primi di maggio, i nostri erano a Glogau in Slesia, dove di nuovo passati in rassegna dal Viceré, erano vivamente elogiati.
Il 30 maggio il contingente italiano raggiungeva la Vistola ed il 29 giugno si concentrava sul Niemen a Pilony: la guerra era già cominciata.
Il contingente napoletano, passato in rivista il 24 aprile da re Gioacchino nella grande piazza d'armi di Capodichino (Napoli), cominciava il suo movimento a scaglioni il 2 maggio, ed alla fine di giugno aveva raggiunto Verona, dove rimaneva a lungo. Proseguiva poi a scaglioni di brigata, sicché il movimento risultava compiuto con l'arrivo a Danzica delle armi a cavallo alla fine di agosto, della brigata Rossaroll il 9 settembre, del comando di divisione il 15 ottobre e della brigata D'Ambrosio il 17. Danzica era a quel tempo una formidabile fortezza, ed esercitò nell'inverno 1812-13 una importante funzione, trattenendo innanzi ai propri baluardi, per oltre un anno, un poderoso corpo degli alleati.
Era nell'autunno del 1812 governata dal generale Lagrange, che nella secondametà di ottobre passava in

rivista la divisione napoletana, elogiandola per il suo contegno e per la salda disciplina tenuta nel lungo
Principe Camillo Borghese
viaggio.
Indice dell'elevatissimo spirito delle truppe fu la gioia da esse rivelata quando si divulgò la voce che la divisione dovesse muovere, al primo cenno, per operazioni campali. In effetti ciò non avvenne, come in seguito si dirà, tranne che per alcuni reparti; ma comunque nel lungo assedio di Danzica i Napoletani si comportarono magnificamente.
Infine, ai primi di agosto, reparti delle Guardie d'Onore di Toscana e di Piemonte, salutati solennemente dalla granduchessa Elisa Baiocchi e dal principe Camillo Borghese, si mettevano in viaggio per raggiungere la Grande Armata, animati dal più alto entusiasmo. Nove veliti piemontesi che, non ancora montati, erano stati esclusa dalla partenza, tanto insistettero, che ottennero, pur di partire, di mantenersi ed equipaggiarsi a proprie spese.
Così per la prima volta riuniti nella stessa impresa, vi si accingevano Italiani del settentrione, del centro, del mezzogiorno, mentre altri loro fratelli, componenti due divisioni italiche, nella lontana Spagna sulle coste mediterranee ed atlantiche, ancora una volta rivelavano le forti qualità di nostra stirpe.

LE PRIME OPERAZIONI. - La notte del 1° luglio fu dalle truppe italiche trascorsa nell'attesa; sul mezzogiorno la 1a brigata della divisione Pino cominciò a valicare il Niemen, e nel pomeriggio avanzato tutta la divisione lo aveva passato, tranne l'artiglieria che lo superava il giorno successivo. Nei giorni successivi gli Italiani raggiungevano Novi Troki, cominciando a risentire dello scarso ed insufficiente vettovagliamento.
Il 19 di quel mese la divisione si riuniva a Dockchitsi, dove avvenne uno spiacevolissimo incidente, di quelli che lasciano un'orma profonda e separano le anime ed i cuori.
Nella località di tappa raggiunta, la 14a divisione francese precedeva di poco quella italiana. Stavano i Francesi saccheggiando un magazzino di biscotto, quando sopraggiunsero gli Italiani a chiedere la propria parte. Inasprendosi la questione, il generale Pino invocava dal Viceré giustizia, al che questi,come sappiamo dal De Laugier, in tono sprezzante e che non gli era abituale, rispondeva:
«Ciò che volete non è possibile. Se non siete contenti tornate pure in Italia, che non mi importa nulla di voi né di lei; sappiate che non temo le vostre spade più che i vostri stiletti». L'oltraggio colpì crudelmente i soldati italiani abituati a vedere nel capo uno dei loro: per la prima volta dovettero persuadersi che egli era straniero.
Mentre tali fatti si andavano svolgendo, scoppiava improvviso un grave incendio al castello, sede del principe Viceré, incendio che fu prontamente domato dalla Guardia Reale.
Malgrado ciò, andarono insinuando alcuni Francesi che l'incendio fosse stato appiccato per vendetta dagli Italiani,donde un vivissimo alterco tra il Viceré ed il generale Pino che, sbattendo la sciabola per terra,affermava sarebbe andato a chiedere giustizia all’ Imperatore. Allora Eugenio, cambiando tono di voce, a stento riusciva a placare il giusto sdegno dell' Italiano, ma proprio il giorno successivo un nuovo episodio affermava la lealtà della nostra gente, quella lealtà che più tardi venne a mancare negli alleati di Napoleone, quando sui campi di Lipsia lo abbandonarono in piena battaglia.
Furono cioè ritrovati numerosi proclami diffusi dai Russi, nei quali proclami gli Italiani erano invitati ad abbandonare il loro posto, affermandosi essere essi vittime della insaziabile ambizione di Napoleone.
All'ignobile invito di diserzione, rispondevano degnamente i nostri, che pure erano stati così gravemente offesi dalle inconsulte parole del Viceré, con il seguente manifesto trascritto dal De Laugier:

Eugenio di Beauharnais

«Soldati russi. I soldati italiani, sorpresi che abbiate potuto pensare anche un momento che essi fossero suscettibili di cedere al vilissimo mezzo della seduzione, mentre si mostrarono sempre imperturbabili nella via dell'onore, hanno perduto di voi quella stima che nutre, anche nemico, un bravo soldato per l'altro. Essi non hanno mai immaginato che in mezzo alla carriera più dignitosa ed onorevole, potesse emergere un compenso sì turpe per nascondere e salvare la propria debolezza.
Esso fa torto non già a quelli cui è diretto, ma a coloro che lo pensarono. Qual riprova vi dettero mai i guerrieri italiani che potesse alimentare in voi una tale speranza? Non vi provarono essi anzi sempre, ad Austerlitz ed a Friedland in ispecie, che degni sono di combattere, emulare e sorpassare, se fosse possibile, i primi soldati del mondo?
Noi dunque dobbiamo vendicare l'insulto gravissimo da voi recato al nostro onore: e lo vendicheremo da soldati, da bravi nella prima occasione. Voi ci riconoscerete ai colpi. Credeste forse che noi, perché appartenenti ad una nazione da poco rigenerata, non avremmo riacquistata quella dignità e quel valore, caratteristica immortale dei nostri progenitori ? V' immaginaste forse che tali virtù fossero soltanto indigene delle nazioni grandi, da lungo tempo unite e guerriere? Voi v'ingannaste, l'amor patrio in noi non si spense giammai; esistè sempre nel nostro cuore una patria di fatto, benché le nostre miserabili frazioni tale non la facessero apparire agli occhi altrui. Ci mancavano le circostanze ed un capo; ora che ottenemmo e l'une e l'altro, osiamo lusingarci di avere a sufficienza dimostrato che eravamo degni dello stato che ambivamo e che la natura medesima ci aveva creato. Noi sapremo conservarcelo. Questi sentimenti che infiammano l'anima di ogni guerriero italiano sono certamente comuni alla nazione cui apparteniamo. Possa questa moderata risposta alla vostra insultante proposizione, possa la memoria delle nostre passate imprese e di ciò che saremo per operare nel primo incontro che avremo con voi su quel campo di battaglia che voi fuggite e che noi avidamente bramiamo per purgare la vostra ingiuria, possano richiamarvi ai sentimenti naturali dell'uomo d'onore, e quali si convengono a dei prodi istituiti alla difesa della patria. Qualora bramiate poi una risposta più distesa noi ci riferiamo totalmente a quella testé trasmessavi da un nostro collega granatiere francese. Un soldato italiano».
Rivela ed afferma questo singolare documento il sentimento profondo di nazionalità, che nel volgere di sedici anni si era venuto svegliando nella nostra gente. In quanto all'ultimo periodo del documento in questione, esso fa cenno alla fiera risposta data da un granatiere francese all'invito rivolto anche ai Francesi di disertare.
Della risposta del granatiere francese scrissero il Segur e lo Chuquet, il quale rileva esserne stato estensore lo stesso Napoleone. A noi invece preme di mettere in evidenza che le ultime parole del documento italiano «da un nostro collega granatiere francese», affermano e rivelano chiaramente, oltre il sentimento della lealtà italiana, quello della dignità, in quanto gli Italiani dimostrarono in ogni circostanza di considerarsi devoti soldati di Napoleone, ma niente affatto dipendenti dei Francesi, bensì alleati. Affermazione questa che più di una volta dette luogo a controversie personali anche gravi con soldati ed ufficiali francesi, e dalle quali gli Italiani uscirono sempre con molto onore.

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Mary92*
http://it.wikipedia.org/wiki/Operazione_Barbarossa questo ti portebbe aiutare

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