O piccolo
Non riesco a formalizzare per bene il concetto di o piccolo, e questo tra le altre cose mi impedisce di usarli negli esercizi, con tutte le conseguenze del caso.
Approccio 1. Prendiamo ad esempio $f(x)=x^3$ e $g(x)=x^2$. Ovviamente si ha che $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{f(x)}{g(x)}=0$. Ciò mi autorizza a dire che $f(x)=o(g(x))$ per $x\rightarrow 0$. Nello specifico esisterebbe quindi una funzione $o$ reale di variabile reale tale per cui $f(x)=o(g(x))$. In questo caso è facile vedere che deve essere $o(x)=x^\frac{3}{2}$. A questo punto però noto che sarebbe stato più corretto scrivere ad esempio $f(x)=o_1(g(x))$ in quanto la funzione o piccolo è diversa a seconda di $f$ e $g$, ed esistono quindi anche $o_2$, $o_3$ e così via.
Approccio 2. Quando $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ si scrive $f\in o(g)$. $o(g)$, per $x\rightarrow c$, è quindi l'insieme delle funzioni reali di variabile reale tali per cui $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ e $o$ è la funzione che ad ogni funzione $g$ reale di variabile reale associa $o(g)$ definito come prima.
Approccio 3. Quando $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ si scrive $f(x)\in o(g(x))$. E' l'approccio usato da Wikipedia, ma a dire la verità non riesco a coglierne l'essenza, e pertanto non l'ho esaminato a fondo.
Partendo dal presupposto che in nessun caso sono riuscito a ricavare qualcosa, quale di questi approcci è quello corretto?
Grazie.
Approccio 1. Prendiamo ad esempio $f(x)=x^3$ e $g(x)=x^2$. Ovviamente si ha che $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{f(x)}{g(x)}=0$. Ciò mi autorizza a dire che $f(x)=o(g(x))$ per $x\rightarrow 0$. Nello specifico esisterebbe quindi una funzione $o$ reale di variabile reale tale per cui $f(x)=o(g(x))$. In questo caso è facile vedere che deve essere $o(x)=x^\frac{3}{2}$. A questo punto però noto che sarebbe stato più corretto scrivere ad esempio $f(x)=o_1(g(x))$ in quanto la funzione o piccolo è diversa a seconda di $f$ e $g$, ed esistono quindi anche $o_2$, $o_3$ e così via.
Approccio 2. Quando $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ si scrive $f\in o(g)$. $o(g)$, per $x\rightarrow c$, è quindi l'insieme delle funzioni reali di variabile reale tali per cui $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ e $o$ è la funzione che ad ogni funzione $g$ reale di variabile reale associa $o(g)$ definito come prima.
Approccio 3. Quando $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$ si scrive $f(x)\in o(g(x))$. E' l'approccio usato da Wikipedia, ma a dire la verità non riesco a coglierne l'essenza, e pertanto non l'ho esaminato a fondo.
Partendo dal presupposto che in nessun caso sono riuscito a ricavare qualcosa, quale di questi approcci è quello corretto?
Grazie.
Risposte
Stavo provando a calcolare il $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{\sin(x)}{x}$ tramite l'utilizzo degli o piccoli e senza applicare il limite notevole. Chiunque farebbe semplicemente il seguente ragionamento: quel limite è $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{x+o(x)}{x}=\lim_{x\rightarrow 0}(1+\frac{o(x)}{x})=1$. Eppure, se applico l'approccio 2, dalla considerazione che $\sin-i\in o(i)$, dove con $i$ indico la funzione identità, non riesco ad andare avanti in alcun modo.
Non è questo il senso del simbolo di Landau: non c'entra nulla con le funzioni composte, giacché $"o"$ non è una funzione.
Dire che $f="o"(g)$ intorno a $x_0$ (punto di accumulazione per i domini $A, B$ di entrambi le funzioni) significa affermare che:
(*) $\quad AA epsilon >0, exists delta >0: AA x \in ]x_0-delta,x_0+delta[\cap A\cap B\setminus \{x_0\}, |f(x)|<=epsilon |g(x)| \quad$;
ovviamente se $g$ è definitivamente non nulla intorno a $x_0$, allora la precedente equivale a dire che risulta:
(**) $\quad lim_(x\to x_0) (f(x))/(g(x))=0$
(l'ipotesi che $g$ sia definitivamente non nulla è essenziale per fare dividere m.a.m. la disuguaglianza in (*); se non è verificata ti devi tenere la definizione (*) così com'è).
Quindi l'approccio più corretto (anche se non esatto, perchè la (*) è più generale della (**)) alla definizione di $"o"$ è quello di wikipedia.
Prendi, ad esempio le funzioni $f_1(x):=sinx$ e $g(x):=x$: per il limite fondamentale hai:
$lim_(x\to 0) (sinx)/x=1 => lim_(x\to 0) (sinx)/x-1=0 => lim_(x\to 0) (sinx -x)/x=0$
quindi vale la (**) con $f(x):=f_1(x)-x$ e puoi così scrivere $f="o"(g)$, ossia $sin x-x="o"(x)$ e $sin x=x+"o"(x)$.
Dire che $f="o"(g)$ intorno a $x_0$ (punto di accumulazione per i domini $A, B$ di entrambi le funzioni) significa affermare che:
(*) $\quad AA epsilon >0, exists delta >0: AA x \in ]x_0-delta,x_0+delta[\cap A\cap B\setminus \{x_0\}, |f(x)|<=epsilon |g(x)| \quad$;
ovviamente se $g$ è definitivamente non nulla intorno a $x_0$, allora la precedente equivale a dire che risulta:
(**) $\quad lim_(x\to x_0) (f(x))/(g(x))=0$
(l'ipotesi che $g$ sia definitivamente non nulla è essenziale per fare dividere m.a.m. la disuguaglianza in (*); se non è verificata ti devi tenere la definizione (*) così com'è).
Quindi l'approccio più corretto (anche se non esatto, perchè la (*) è più generale della (**)) alla definizione di $"o"$ è quello di wikipedia.
Prendi, ad esempio le funzioni $f_1(x):=sinx$ e $g(x):=x$: per il limite fondamentale hai:
$lim_(x\to 0) (sinx)/x=1 => lim_(x\to 0) (sinx)/x-1=0 => lim_(x\to 0) (sinx -x)/x=0$
quindi vale la (**) con $f(x):=f_1(x)-x$ e puoi così scrivere $f="o"(g)$, ossia $sin x-x="o"(x)$ e $sin x=x+"o"(x)$.
Te lo dirò in maniera poco formale.
La dicitura $f(x)=o(g(x))$ ti dice semplicemente che $f(x)$ è di grado superiore rispetto a $g(x)$, ovvero con $x->0$ $f(x)$ tende a zero più velocemente di
$g(x)$. Per la risoluzione degli esercizi mi sembra che l'approccio più comodo sia quello da te proposto nell'esempio $\frac{sinx}[x}$.
Ciao
La dicitura $f(x)=o(g(x))$ ti dice semplicemente che $f(x)$ è di grado superiore rispetto a $g(x)$, ovvero con $x->0$ $f(x)$ tende a zero più velocemente di
$g(x)$. Per la risoluzione degli esercizi mi sembra che l'approccio più comodo sia quello da te proposto nell'esempio $\frac{sinx}[x}$.
Ciao
@Gugo82
Premessa: quando io scrivo $f(x)$ (cioè lettera latina + tonda aperta + lettera latina + tonda chiusa) intendo sempre dire una delle seguenti due cose:
- (in gran parte della matematica) con la lettera $f$ intendo una funzione e con $x$ il suo argomento
- (in logica) con la lettera $f$ intendo un simbolo funzionale e con $x$ la variabile ad esso associata
Siccome analisi fa parte della matematica e non della logica, escludiamo pure il caso 2. Se io quindi scrivo o trovo scritto $o(g)$ intendo che $o$ è una funzione e $g$ il suo argomento. Se $o$ non è una funzione, allora scriverei $o_g$ oppure $o[g]$ o qualunque altra cosa che non sia quella descritta all'inizio.
Scrivere $f=o(g)$, secondo me, è un errore: a sinistra ho sicuramente una funzione, pertanto anche a destra devo averne una. In questo caso però a destra non ho solo $o$ (non ho quindi $f=o$) ma ho $o(g)$, quindi $o$ deve essere una funzione che associa ad una funzione reale di variabile reale (in questo caso $g$) un'altra (unica) funzione reale di variabile reale. In altre parole con questa notazione $o(g)$ non può rappresentare un insieme di funzioni di variabile reale.
Wikipedia invece scrive qualcosa del tipo $f(x)\in o(g(x))$: a sinistra ho un numero reale, a destra pertanto devo avere un insieme di numeri reali. $g(x)$, argomento della funzione $o$, è anch'esso un numero reale, quindi $o$ associa ad un numero reale un insieme di numeri reali. Il fatto è che non riesco a capire cosa voglia rappresentare l'insieme $o(x)$.
Tra i tre che ho descritto, invece, l'approccio che sembra più promettente è il primo. $o$ sarebbe semplicemente una funzione reale di variabile reale, come tutte le altre che si utilizzano in analisi, e ciò rende possibile mettere gli o piccoli in espressioni più grandi ad esempio per il calcolo dei limiti. L'unica cosa a cui stare attenti è che non esiste una sola funzione $o$ ma tante funzioni $o_1$, $o_2$, ..., ma questo non sembra costituire un grosso problema.
Ad ogni modo devo testare meglio questo mio approccio e vedere se con esso riesco a superare tutti gli ostacoli che ho incontrato finora.
Premessa: quando io scrivo $f(x)$ (cioè lettera latina + tonda aperta + lettera latina + tonda chiusa) intendo sempre dire una delle seguenti due cose:
- (in gran parte della matematica) con la lettera $f$ intendo una funzione e con $x$ il suo argomento
- (in logica) con la lettera $f$ intendo un simbolo funzionale e con $x$ la variabile ad esso associata
Siccome analisi fa parte della matematica e non della logica, escludiamo pure il caso 2. Se io quindi scrivo o trovo scritto $o(g)$ intendo che $o$ è una funzione e $g$ il suo argomento. Se $o$ non è una funzione, allora scriverei $o_g$ oppure $o[g]$ o qualunque altra cosa che non sia quella descritta all'inizio.
Scrivere $f=o(g)$, secondo me, è un errore: a sinistra ho sicuramente una funzione, pertanto anche a destra devo averne una. In questo caso però a destra non ho solo $o$ (non ho quindi $f=o$) ma ho $o(g)$, quindi $o$ deve essere una funzione che associa ad una funzione reale di variabile reale (in questo caso $g$) un'altra (unica) funzione reale di variabile reale. In altre parole con questa notazione $o(g)$ non può rappresentare un insieme di funzioni di variabile reale.
Wikipedia invece scrive qualcosa del tipo $f(x)\in o(g(x))$: a sinistra ho un numero reale, a destra pertanto devo avere un insieme di numeri reali. $g(x)$, argomento della funzione $o$, è anch'esso un numero reale, quindi $o$ associa ad un numero reale un insieme di numeri reali. Il fatto è che non riesco a capire cosa voglia rappresentare l'insieme $o(x)$.
Tra i tre che ho descritto, invece, l'approccio che sembra più promettente è il primo. $o$ sarebbe semplicemente una funzione reale di variabile reale, come tutte le altre che si utilizzano in analisi, e ciò rende possibile mettere gli o piccoli in espressioni più grandi ad esempio per il calcolo dei limiti. L'unica cosa a cui stare attenti è che non esiste una sola funzione $o$ ma tante funzioni $o_1$, $o_2$, ..., ma questo non sembra costituire un grosso problema.
Ad ogni modo devo testare meglio questo mio approccio e vedere se con esso riesco a superare tutti gli ostacoli che ho incontrato finora.
Omiodio... Ragazzo, le notazioni sono flessibili molto più della tua mente.
Grazie... lo prendo per un complimento! 
Ad ogni modo ho elaborato un'altra teoria, forse più consona allo standard ma con alcune variazioni stilistiche anche in questo caso.
Con $o[g(x)]$ (notare le parentesi quadre) per $x\rightarrow c$ indico l'insieme delle funzioni $f$ reali di variabile reale tali per cui $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$. Con $o[g(x)](x)$ (notare le coppie di parentesi, le prime quadre, le seconde rotonde) per $x\rightarrow c$ indico invece una particolare funzione appartenente all'insieme di cui prima. Quindi si ha che $o[g(x)](x)\in o[g(x)]$.
Per fare un esempio concreto considero, per $x\rightarrow 0$, l'insieme $o[x^2]$ delle funzioni che divise per $x^2$ danno come limite lo zero. Tra queste prendo in particolare $o[x^2](x)=\sin(x)-x$. A questo punto se volessi calcolare ad esempio il $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{\sin(x)}{x}$ dovrei semplicemente fare il seguente ragionamento: $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{\sin(x)}{x}=\lim_{x\rightarrow 0}\frac{x+o[x^2](x)}{x}=\lim_{x\rightarrow 0}(1+\frac{xo[x^2](x)}{x^2})=1$.
Sostanzialmente l'abuso di notazione che viene perpetrato dallo standard ufficiale è che usa le tonde per indicare qualcosa che non è l'argomento di una funzione, e omette il vero argomento della funzione. Con $o(x^2)$, ad esempio, sembrerebbe che $x^2$ sia l'argomento della funzione $o$ mentre in realtà l'argomento, come tutte le funzioni reali di variabile reale, è semplicemente $x$. $x^2$ tuttavia è pur sempre un'informazione importante, e per questo invece di scartarla totalmente ho deciso di includerla tra parentesi quadre.

Ad ogni modo ho elaborato un'altra teoria, forse più consona allo standard ma con alcune variazioni stilistiche anche in questo caso.
Con $o[g(x)]$ (notare le parentesi quadre) per $x\rightarrow c$ indico l'insieme delle funzioni $f$ reali di variabile reale tali per cui $\lim_{x\rightarrow c}\frac{f(x)}{g(x)}=0$. Con $o[g(x)](x)$ (notare le coppie di parentesi, le prime quadre, le seconde rotonde) per $x\rightarrow c$ indico invece una particolare funzione appartenente all'insieme di cui prima. Quindi si ha che $o[g(x)](x)\in o[g(x)]$.
Per fare un esempio concreto considero, per $x\rightarrow 0$, l'insieme $o[x^2]$ delle funzioni che divise per $x^2$ danno come limite lo zero. Tra queste prendo in particolare $o[x^2](x)=\sin(x)-x$. A questo punto se volessi calcolare ad esempio il $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{\sin(x)}{x}$ dovrei semplicemente fare il seguente ragionamento: $\lim_{x\rightarrow 0}\frac{\sin(x)}{x}=\lim_{x\rightarrow 0}\frac{x+o[x^2](x)}{x}=\lim_{x\rightarrow 0}(1+\frac{xo[x^2](x)}{x^2})=1$.
Sostanzialmente l'abuso di notazione che viene perpetrato dallo standard ufficiale è che usa le tonde per indicare qualcosa che non è l'argomento di una funzione, e omette il vero argomento della funzione. Con $o(x^2)$, ad esempio, sembrerebbe che $x^2$ sia l'argomento della funzione $o$ mentre in realtà l'argomento, come tutte le funzioni reali di variabile reale, è semplicemente $x$. $x^2$ tuttavia è pur sempre un'informazione importante, e per questo invece di scartarla totalmente ho deciso di includerla tra parentesi quadre.
Giusto per curiosità: che studi?
Hai studiato informatica prima? O sei fin troppo pignolo di tuo?
Davvero non capisco quale sia la difficoltà insita nell'interpretare le parentesi tonde in altro modo che non sia il "solito"...
Hai studiato informatica prima? O sei fin troppo pignolo di tuo?

Davvero non capisco quale sia la difficoltà insita nell'interpretare le parentesi tonde in altro modo che non sia il "solito"...
Tra l'altro queste notazioni mi pare che nascondano degli "errori" di fondo: uno le scrive come uguaglianze, come in $f(x)=o(g(x))$, ma uguaglianze non sono: se lo fossero, allora
$x=o(x^3)=x^2$ [per $x\to0$] e per la proprietà transitiva $x=x^2$.
Io le interpreterei più che altro come delle abbreviazioni; invece di scrivere ogni volta le (*) e (**) del post di gugo, uno scrive con gli o-piccolo e fa prima.
$x=o(x^3)=x^2$ [per $x\to0$] e per la proprietà transitiva $x=x^2$.
Io le interpreterei più che altro come delle abbreviazioni; invece di scrivere ogni volta le (*) e (**) del post di gugo, uno scrive con gli o-piccolo e fa prima.
Quando "$f$ è trascurabile rispetto $g$", diciamo "$f$ o-piccolo $g$" e scriviamo $f=o(g)$.
Con un po’ più di precisione :
$f(x)$ è o-piccolo $g(x)$ per $x\to a$ , quando succedono due cose:
1) Si può scrivere: $f(x)=u(x)* g(x)$;
2) il $lim_{x \to a} u(x)=0$.
Es. Per $x \to 0$ : $x^3=o(x^2)$, perché $x^3=(x) * x^2$ e $x=u(x) \to 0$. $x^3=o(x)$, perché $x^3=(x^2) * x$ e $x^2=u(x) \to 0$.
Per $x \to \infty$ : $x=o(x^3)$, perché $x=(1/x^2) * x^3$ e $1/x^2=u(x) \to 0$.
Dalla definizione si può dedurre ‘l’algebra degli o-piccolo ‘:
$o(g)+o(g)=o(g)$, $o(f)*o(g)=o(fg)$ , ecc. ecc.
Applicare la definizione non è agevole quindi da $f=u*g$ si ricava:
$lim_{x \to a} u(x)= lim_{x \to a} f(x)/{f(x)} =0$.
Ma poiché la divisione dà più grattacapi della moltiplicazione questa definizione è meno generale.
Questo in soldoni è l’ o-piccolo, ovviamente il tutto deve essere infarcito di “$\epsilon$, $\delta$, intorni, punti di accumulazioni, ecc. ecc.”, ma questo lo lascio ai ‘precisini’.
Con un po’ più di precisione :
$f(x)$ è o-piccolo $g(x)$ per $x\to a$ , quando succedono due cose:
1) Si può scrivere: $f(x)=u(x)* g(x)$;
2) il $lim_{x \to a} u(x)=0$.
Es. Per $x \to 0$ : $x^3=o(x^2)$, perché $x^3=(x) * x^2$ e $x=u(x) \to 0$. $x^3=o(x)$, perché $x^3=(x^2) * x$ e $x^2=u(x) \to 0$.
Per $x \to \infty$ : $x=o(x^3)$, perché $x=(1/x^2) * x^3$ e $1/x^2=u(x) \to 0$.
Dalla definizione si può dedurre ‘l’algebra degli o-piccolo ‘:
$o(g)+o(g)=o(g)$, $o(f)*o(g)=o(fg)$ , ecc. ecc.
Applicare la definizione non è agevole quindi da $f=u*g$ si ricava:
$lim_{x \to a} u(x)= lim_{x \to a} f(x)/{f(x)} =0$.
Ma poiché la divisione dà più grattacapi della moltiplicazione questa definizione è meno generale.
Questo in soldoni è l’ o-piccolo, ovviamente il tutto deve essere infarcito di “$\epsilon$, $\delta$, intorni, punti di accumulazioni, ecc. ecc.”, ma questo lo lascio ai ‘precisini’.
"Gugo82":
Giusto per curiosità: che studi?
Hai studiato informatica prima? O sei fin troppo pignolo di tuo?
Davvero non capisco quale sia la difficoltà insita nell'interpretare le parentesi tonde in altro modo che non sia il "solito"...
Diciamo che sono appassionato di informatica fin da piccolo, la studio in università e per di più sono anche pignolo!

Per rispondere alla domanda, invece, ti propongo questo banale frammento di codice C:
int f(int x){ return x; }
Ebbene, se in un altro punto del programma dovessi scrivere la seguente chiamata di funzione:
f(3.14);
Il compilatore giustamente si lamenterebbe perchè 3.14 non è un intero.
Io, ma penso chiunque, ho difficoltà nel parsing di espressioni matematiche se queste sono scritte in linguaggio ambiguo o troppo flessibile, per lo meno all'inizio; poi ovviamente quando si ha ben chiaro dove si annidano gli inghippi queste difficoltà vengono meno.
"dissonance":
Tra l'altro queste notazioni mi pare che nascondano degli "errori" di fondo: uno le scrive come uguaglianze, come in $f(x)=o(g(x))$, ma uguaglianze non sono: se lo fossero, allora
$x=o(x^3)=x^2$ [per $x\to0$] e per la proprietà transitiva $x=x^2$.
Io le interpreterei più che altro come delle abbreviazioni; invece di scrivere ogni volta le (*) e (**) del post di gugo, uno scrive con gli o-piccolo e fa prima.
Forse volevi scrivere che $x^3=o(x)=x^2$ per $x\rightarrow 0$.
Ad ogni modo il mio approccio evita questo problema nel seguente modo: $x^3=o_1[x](x)$ e $x^2=o_2[x](x)$, assegnando cioè a ciascun o piccolo un indice.
Si può poi dire che $o_1[x]\in o[x]$ e $o_2[x]\in o[x]$, dove $o[x]$ è l'insieme delle funzioni reali di variabile reale che divise per $x$ danno come limite zero.