La mia massima
Molti si improvvisano filosofi...nessuno si improvvisa matematico!
Risposte
Manca una premessa senza la quale il discorso sembra non reggere. Ammetto che q non può essere assunta solo se si accetta una prospettiva teorica che può essere condivisa oppure no, e che in genere un postfregeano non accetta. Una proposizione è qualsiasi cosa può essere vera o falsa (Russell). Quindi né p, né q, né r ecc. sono la proposizione come né Tizio, né Caio, né Sempronio sono l'uomo. (So che qualcuno potrà notare la differenza tra "la" proposizione e "una" proposizione). Quando si scrive p si usa un simbolo che secondo il mio punto di vista vale per ogni proposizione, anche per q. Moltiplicare le proposizioni e comporre di conseguenza delle tavole di verità mi pare essere un abuso della simbologia. Le uniche tavole di verità dovrebbero a mio avviso regolare i rapporti tra p e p (VFFV) e p e non p (FVVF), che sono le serie generate per l'appunto da bicondizionale e disgiunzione esclusiva. Questo è solo un parere. Ma la difficoltà insita nel fatto che la disgiunzione inclusiva contrasta con il terzo escluso mi sembra sacrosanta. Ci si può domandare per quale motivo la disgiunzione ammessa nella logica matematica sia inclusiva dal momento che il terzo escluso è espresso dalla disgiunzione esclusiva.
Dodicesima riga, forse non è chiara: volevo dire quando la coppia ordinata (p, non-p) assume il valore (F,F) cioè quando sono false entrambe
Non parliamo più di voragini, termine sconveniente di cui mi scuso. Diciamo che ci sono punti di vista divergenti. Il problema è quello della doppia quantificazione. Il fatto che "qualcuno sia in relazione con tutti" è una semplice conseguenza di una proprietà che appartiene a qualcuno. Se "tutti sono in relazione con qualcuno" allora vi sono molte proprietà quanti gli elementi dell'insieme considerato, ma semplicemente non le conosciamo. Tradotto in termini tecnici, nella definizione di Cauchy dove si dice per ogni eps, bla bla bla.. esiste almeno un delta tale che bla bla bla, la scelta andrebbe valutata non in relazione ad eps ma alla coppia ordinata C(eps,delta). In questo caso la definizione non funziona. Questo significa quantificare universalmente due volte o in altri termini non usare la doppia quantificazione per i motivi suaccennati.
Ma c'è un problema connesso ai quantificatori che è ancora più grave. Il quantificatore universale esprime la verità di una serie di congiunti mentre il quantificatore esistenziale esprime la verità di una serie di disgiunti. Ora, dati p e q, una disgiunzione non esclusiva è falsa se entrambe le proposizioni sono false e vera negli altri tre casi. Ora, se il principio del terzo escluso è valido, o q è p oppure q è non-p, tertium non datur (disgiunzione esclusiva). Quindi i connettivi logici non possono che essere due. Infatti non può essere considerata q come neutra rispetto a p se vale il terzo escluso. Se si esclude (p,p) che si presume esprimere l'identità manca (p,non-p), in questo caso nelle tavole di verità la prima riga (VV) esprime un caso assolutamente identico alla quarta (FF) perché per la proprietà commutativa della disgiunzione e per la doppia negazione il caso in cui è falsa (p,non-p) se il connettivo preso in esame è commutativo, e la disgiunzione non esclusiva dovrebbe esserlo, equivale a (non-p,non-non-p) cioè (non-p,p) e permutando (p, non-p). Peccato che i valori di verità della disgiunzione (VVVF) non presentino questa simmetria e la prima riga (V) sia l'opposto della quarta (F). Questo significa che quando la disgiunzione è vera allora è falsa e viceversa. Solo la disgiunzione esclusiva rispetta il terzo escluso. Se il terzo escluso non vale ciò nondimeno lo si ammette nei manuali di logica come (p vel non p) con le stesse conseguenze che abbiamo visto. Dato che la congiunzione è complementare alla disgiunzione non esclusiva secondo le leggi di De Morgan allora non è più possibile definire la congiunzione come quella proposizione che è vera quando entrambi i termini sono veri e falsa in tutti gli altri casi. Per farla breve rimangono solo bicondizionale e disgiunzione esclusiva a soddisfare il terzo escluso. Ma la verità di entrambi questi due connettivi è invariante rispetto al segno dei membri che la compongono cioè (p aut q) ha lo stesso valore di verità di (non-p aut non-q) e (p coimplica q) lo stesso valore di verità di (non-p coimplica non-q). Se il quantificatore universale esprimesse il bicondizionale e quello esistenziale la disgiunzione esclusiva, e il terzo escluso sembra esigerlo, si avrebbe la strana conseguenza che universale o particolare che sia una affermazione vale quanto una negazione.
Ma c'è un problema connesso ai quantificatori che è ancora più grave. Il quantificatore universale esprime la verità di una serie di congiunti mentre il quantificatore esistenziale esprime la verità di una serie di disgiunti. Ora, dati p e q, una disgiunzione non esclusiva è falsa se entrambe le proposizioni sono false e vera negli altri tre casi. Ora, se il principio del terzo escluso è valido, o q è p oppure q è non-p, tertium non datur (disgiunzione esclusiva). Quindi i connettivi logici non possono che essere due. Infatti non può essere considerata q come neutra rispetto a p se vale il terzo escluso. Se si esclude (p,p) che si presume esprimere l'identità manca (p,non-p), in questo caso nelle tavole di verità la prima riga (VV) esprime un caso assolutamente identico alla quarta (FF) perché per la proprietà commutativa della disgiunzione e per la doppia negazione il caso in cui è falsa (p,non-p) se il connettivo preso in esame è commutativo, e la disgiunzione non esclusiva dovrebbe esserlo, equivale a (non-p,non-non-p) cioè (non-p,p) e permutando (p, non-p). Peccato che i valori di verità della disgiunzione (VVVF) non presentino questa simmetria e la prima riga (V) sia l'opposto della quarta (F). Questo significa che quando la disgiunzione è vera allora è falsa e viceversa. Solo la disgiunzione esclusiva rispetta il terzo escluso. Se il terzo escluso non vale ciò nondimeno lo si ammette nei manuali di logica come (p vel non p) con le stesse conseguenze che abbiamo visto. Dato che la congiunzione è complementare alla disgiunzione non esclusiva secondo le leggi di De Morgan allora non è più possibile definire la congiunzione come quella proposizione che è vera quando entrambi i termini sono veri e falsa in tutti gli altri casi. Per farla breve rimangono solo bicondizionale e disgiunzione esclusiva a soddisfare il terzo escluso. Ma la verità di entrambi questi due connettivi è invariante rispetto al segno dei membri che la compongono cioè (p aut q) ha lo stesso valore di verità di (non-p aut non-q) e (p coimplica q) lo stesso valore di verità di (non-p coimplica non-q). Se il quantificatore universale esprimesse il bicondizionale e quello esistenziale la disgiunzione esclusiva, e il terzo escluso sembra esigerlo, si avrebbe la strana conseguenza che universale o particolare che sia una affermazione vale quanto una negazione.
Gugo82, condivido le cose interessanti e sensate che hai scritto.
E grazie per aver messo una pezza al metodo scientifico, che rischiava di precipitare in una voragine (senza bisogno del buco nero che apriranno prima o poi i colleghi fisici). Visto che il guaio sembrava essere il calcolo differenziale, non avrei voluto, ormai alla soglia della pensione, dover restituire il "maltolto", visto che proprio col calcolo differenziale mi sono guadagnato il pane!
E grazie per aver messo una pezza al metodo scientifico, che rischiava di precipitare in una voragine (senza bisogno del buco nero che apriranno prima o poi i colleghi fisici). Visto che il guaio sembrava essere il calcolo differenziale, non avrei voluto, ormai alla soglia della pensione, dover restituire il "maltolto", visto che proprio col calcolo differenziale mi sono guadagnato il pane!
"achazia":
"Da domani dormirete tutti su un letto" si dice in una nota battuta, ed a smorzare gli entusiasmi si aggiunge "Ma attenzione, su UN letto".
Secondo me il problema qui non è un sofismo nascosto nel linguaggio formale, ma è l'ambiguità del linguaggio naturale: il nostro linguaggio è capace di umorismo proprio perchè è ambiguo (o noi siamo abituati a percepirlo come tale, non scendo nel merito della questione*). E grazie al cielo, altrimenti sarebbe un guaio!
Formalmente ci sono almeno due interpretazioni immediatamente accessibili della frase "Da domani dormirete tutti su un letto": la 1) $\forall X, \exists L : \quad X \ccD L$ e la 2) $\exists L: \forall X, \quad X\ccD L$ (ove $X$ sono gli ascoltatori, $L$ il/i letto/i, $\ccD$ è "dormire su").
Su questo fatto si gioca l'umorismo: tutti siamo indotti a pensare che la frase "Da domani dormirete tutti su un letto", detta in un certo modo, vada interpretata alla maniera 1 (che vuoi farci, è l'istinto: infatti l'interpretazione 1 è quella meno svantaggiosa per il singolo); tuttavia la nostra speranza è vanificata dalla seconda frase "Ma attenzione, su UN letto" la quale, in definitiva, mostra che la 2 è l'interpretazione corretta di "Da domani dormirete tutti su un letto" (insomma la seconda frase specifica la posizione di $\exists$ relativamente a $\forall$).
"achazia":
Comunque non voglio dire di avere ragione ma solo che esistono vari punti di vista in merito. Questo era solo un esempio, ero intervenuto perché in questa discussione si è detto che il novecento ha definitivamente ridotto alcuni problemi filosofici a falsi problemi. Questo è solo una, secondo me, delle voragini a cielo aperto nei fondamenti del metodo scientifico perché regge l'intero calcolo differenziale.
Figurati, anche io dico la mia; anzi, non essendo un logico, è possibile che abbia usato impropriamente qualche termine.
Per quanto riguarda la "voragine a cielo aperto nei fondamenti del metodo scientifico", matematicamente essa è solo una questione relata all'uso ordinato di quantificatori: nulla che non si possa risolvere.
Se invece guardi la questione da una prospettiva più ampia (parli di "metodo scientifico", quindi credo tu voglia porre un quesito epistemologico e non tecnico) non so che dirti.
P.S.: Riprendo un attimo il tuo primo post in questa discussione.
"achazia":
Mah... io penso che oggi la filosofia analitica abbia troppi complessi di superiorità. Ad esempio, il principio secondo il quale "Tutti sono in relazione con qualcuno" sarebbe un'affermazione diversa da "Qualcuno è in relazione con tutti" (che viene ripetuta ad abundantiam nei corsi di logica elementare e che è pure [...] la struttura che regge la definizione di limite) è negato da molti autori appartenenti a quella filosofia detta prefregeana. La celebre dialettica del "questo" nella Fenomenologia della Spirito hegeliana si fonda proprio su questa identità che ad un analitico sembra assurda. Se tutti si dicono in relazione a qualcosa (un hic et nunc) allora c'è un unico qualcosa che è in relazione con tutti quelli che affermano ciò, e il particolare si rovescia nell'universale.
(Spero tu non me ne voglia, ma ho apportato alcune modifiche stando attento a non alterare il significato.)
Il busillis sta nell'ultimo periodo, un po' nascosto dalla parentesi: precisamente nell'interpretazione della proposizione sottolineata e nell'ambiguità del termine "uno". In quel contesto, cosa vuol dire "un"? Significa uno stesso oppure significa un (articolo indeterminativo)?
La differenza tra i due significati non è cosa da poco (e questo forse era poco chiaro ai prefregeani): infatti nel primo caso ("un" come uno stesso) è chiaro che il "qualcosa" non dipende in alcun modo da quale tra i "tanti" si scelga; mentre nel secondo caso ("un" come articolo indeterminativo) non c'è affatto ragione di supporre che, presi due oggetti disinti tra i "tanti" disponibili, il "qualcosa" che corrisponda all'uno corrisponda pure all'altro.
Insomma, nel primo caso la dipendenza del "qualcosa" dai "tanti" è uniforme e la conclusione "esiste (almeno) un qualcosa in relazione con tutti" è corretta (ed addirittura tautologica); ciò non è necessariamente vero nel secondo caso, ove abbiamo una dipendenza puntuale e niente che ci induca a supporre una dipendenza del tipo precedente, cosicchè in questo caso la conclusione è totalmente errata.
I termini che ho usato non sono casuali, dato che si usano correntemente in Analisi: tra le due interpretazioni di "un" c'è la stessa differenza che passa tra la continuità puntuale e la continuità uniforme (se sei un matematico dovresti sapere di cosa parlo).
Noterai che il problema è, di nuovo, un problema di linguaggio naturale: infatti formalmente la frase sottolineata ha due interpretazioni distinte che, come al solito, differiscono per la posizione reciproca dei due quantificatori $\forall$ ed $\exists$. Per chiarire (e chiarirsi) basta scegliere tra le due interpretazioni quella corretta.
__________
* Però mi pare di ricordare alcuni episodi di Star Trek in cui qualche androide (o altra creatura robotica) non riesce proprio a capire l'umorismo...
Non ho da aggiungere nulla. Mi si ripete il formulario che già so perché queste cose le studio da sempre. Inoltre nulla impedisce se non l'abitudine di intendere la prima frase nel senso della seconda. "Da domani dormirete tutti su un letto" si dice in una nota battuta, ed a smorzare gli entusiasmi si aggiunge "Ma attenzione, su UN letto". Credo che la doppia quantificazione nasconda un sofisma ed ho già spiegato perché. Comunque non voglio dire di avere ragione ma solo che esistono vari punti di vista in merito. Questo era solo un esempio, ero intervenuto perché in questa discussione si è detto che il novecento ha definitivamente ridotto alcuni problemi filosofici a falsi problemi. Questo è solo una, secondo me, delle voragini a cielo aperto nei fondamenti del metodo scientifico perché rgge l'intero calcolo differenziale.
"achazia":
In effetti l'esempio preferito dai logici risale a Peirce:
1 "Tutti gli uomini amano almeno una ragazza"
2 "C'è almeno una ragazza che è amata da tutti gli uomini"
Ma nel primo caso diciamo almeno una non perché sia particolare ma semplicemente perché non sappiamo chi siano queste ragazze che sicuramente sono molte. Mi sembra che sia diverso il senso dell'almeno uno e ciò nonostante si usi lo stesso simbolo.
Non è diverso il senso di "almeno uno"... è proprio diverso il significato della frase.
Spiego.
La 1 significa che in corrispondenza di ogni uomo si può trovare qualche ragazza (possono essere più d'una, non importa) che egli ama; la 2 significa che qualche ragazza (anche qui non sappiamo se sono una, $10^24$ o $\aleph_1$, né importa) è amata da tutta la popolazione maschile.
Insomma, secondo la 1, se scelgo Gigi trovo Anna e Francesca che Gigi ama (e posso fare ciò per tutti gli uomini); secondo la 2, invece, trovo Nicoletta, Pina e Amalia le quali sono tutte e tre amate da tutti gli uomini della Terra.
Come vedi $\exists$ funziona nello stesso modo in entrambe le proposizioni; sono solo le dipendenze delle variabili quantificate ad essere diverse. Lo stesso dicasi per la definizione di limite.
In effetti l'esempio preferito dai logici risale a Peirce:
"Tutti gli uomini amano almeno una ragazza"
"C'è almeno una ragazza che è amata da tutti gli uomini"
Ma nel primo caso diciamo almeno una non perché sia particolare ma semplicemente perché non sappiamo chi siano queste ragazze che sicuramente sono molte. Mi sembra che sia diverso il senso dell'almeno uno e ciò nonostante si usi lo stesso simbolo.
Quine nel suo manuale di logica cita la definizione di limite come esempio dell'applicazione di questo principio. Il senso delle due frasi è palesemente diverso, almeno per il senso comune. Ma il senso comune non è sempre attendibile. Ribadisco che per me è un semplice gioco di parole per aggirare il problema, nella fattispecie il problema è che si trova un infinitesimo. Se scrivessi "Per ogni eps c'è un delta tale per cui |y-L|
"Tutti gli uomini amano almeno una ragazza"
"C'è almeno una ragazza che è amata da tutti gli uomini"
Ma nel primo caso diciamo almeno una non perché sia particolare ma semplicemente perché non sappiamo chi siano queste ragazze che sicuramente sono molte. Mi sembra che sia diverso il senso dell'almeno uno e ciò nonostante si usi lo stesso simbolo.
Quine nel suo manuale di logica cita la definizione di limite come esempio dell'applicazione di questo principio. Il senso delle due frasi è palesemente diverso, almeno per il senso comune. Ma il senso comune non è sempre attendibile. Ribadisco che per me è un semplice gioco di parole per aggirare il problema, nella fattispecie il problema è che si trova un infinitesimo. Se scrivessi "Per ogni eps c'è un delta tale per cui |y-L|
"achazia":
la struttura logica che sorregge la definizione di limite [...] cioè la distinzione fra l'enunciato "Tutti sono in relazione con qualcuno" e "Qualcuno è in relazione con tutti" sarebbe stata liquidata da Aristotele come un sofisma [...] analogo a "Prendi un epsilon a tuo piacimento" "Preso" "Ma vedi che non è a tuo piacimento perché è sempre più grande di quello che prendo io...".
(Il corsivo è mio.)
Sinceramente faccio fatica a capire il punto di vista...
La definizione di limite comincia con un $\forall$ ("per ogni"): perciò non ha importanza quale punto $x_0$ o quale $\epsilon >0$ si scelga, l'importante è riuscire a determinare il $\delta_(\epsilon , x_0)$ corrispondente*, ossia la successiva variabile quantificata da $\exists$ ("esiste").
E poi, tra le due strutture che tu dici c'è grande differenza. La prima è (a) $\forall X, \exists Y: \quad Y\mathcal{R} X$ la seconda (b) $\exists Y: \quad \forall X, Y\mathcal{R} X$ ($\mathcal{R}$ è una relazione tra le due variabili), onde la differenza sta nella posizione dei quantificatori e del "tale che". Per capire meglio la differenza, potremmo dire che la $Y$ della prima proposizione è "qualcosa" che dipende fortemente dalla scelta di $X$**; ciò non accade nella seconda relazione, dov'è presente un unico fissato $Y$ che è in relazione con ogni $X$ indipendentemente dalla scelta di $X$... Esempio in linguaggio naturale: la differenza tra gli schemi (a) e (b) è la stessa che c'è tra le due proposizioni:
"Ogni uomo vivente ha un padre", tipo (a)
"Esiste un uomo che ha tutti gli uomini viventi come figli", tipo (b)
(diciamo che non è proprio il massimo della correttezza formale, ma rende l'idea

Insomma, quello che mi preme dire è che le posizioni dei due quantificatori $\forall$ ed $\exists$ non sono sempre intercambiabili, anzi non lo sono quasi mai quando si parla di limiti***.
Spero di aver fatto capire che una distinzione tra i due enunciati c'è.
Ad ogni modo, rileggendo entrambi i post di achazia devo confessare di non aver capito bene quale sia il suo problema o, comunque, di non aver ben compreso se sostiene o meno che ci sia una differenza tra "Tutti sono in relazione con qualcuno" e "Qualcuno è in relazione con tutti"...
__________
* Questo per restringersi a spazi metrici (come quello dei numeri reali); in spazi topologici più generali il ragionamento è analogo: basta sostituire ad $\epsilon$ e $\delta_(\epsilon ,x_0)$ intorni di $f(x_0)$ ed $x_0$ nei rispettivi spazi.
** Per indicare questo fatto potremmo scrivere "$\forall X, \exists Y_X$ etc". Di solito ciò non viene fatto, poichè si preferisce sottointendere che la variabile quantificata da $\exists$ dipende da tutte le variabili quantificate da $\forall$ che la precedono nella formula.
*** Per completezza devo far notare che nella definizione $\epsilon -\delta$ di limite i quantificatori $\forall x_0$, $\forall epsilon >0$ ed $\exists \delta >0$ sono interscambiabili se e solo se l'applicazione è costante.
Beh scusate non avevo visto lo spazio riservato alle presentazioni. Ci vado subito...Comunque è di quattro giorni fa' l'ultimo messaggio. V'è presa la voglia di lavorare da mattina a sera tutto d'un botto???
"achazia":
Non c'è nessuno in questo forum? Ho detto che
Abbi pazienza se non pendiamo dalle tue labbra.
Io, personalmente, sono ancora in attesa di un tuo "ciao" agli utenti di questo forum.
Non c'è nessuno in questo forum? Ho detto che la struttura logica che sorregge la definizione di limite, e dunque gran parte della matematica superiore, cioè la distinzione fra l'enunciato "Tutti sono in relazione con qualcuno" e "Qualcuno è in relazione con tutti" sarebbe stata liquidata da Aristotele come un sofisma(El sof, 24). "Conosci quest'uomo velato?" "No" "Allora non conosci tuo padre... figlio degenere!!" Analogamente: "Prendi un epsilon a tuo piacimento" "Preso" "Ma vedi che non è a tuo piacimento perché è sempre più grande di quello che prendo io...".
Mah... io penso che oggi la filosofia analitica abbia troppi complessi di superiorità. Ad esempio, il principio secondo il quale "Tutti sono in relazione con qualcuno" sarebbe un'affermazione diversa da "Qualcuno è in relazione con tutti" che viene ripetuta ad abundantiam nei corsi di logica elementare e che è pure, come nota nel suo manuale di logica Quine, la struttura che regge la definizione di limite, è negato da molti autori appartenenti a quella filosofia che certuni chiamano prefregeana. La celebre dialettica del "questo" nella Fenomenologia della Spirito hegeliana si fonda proprio su questa identità che ad un analitico sembra assurda. Se tutti si dicono in relazione a qualcosa (un hic et nunc) allora c'è un unico qualcosa che è in relazione con tutti quelli che affermano ciò, e il particolare si rovescia nell'universale. Stesso esempio in Schopenhauer (Parerga und Paralipomena II, 141), Trasimaco si batte il petto e dice "io, io voglio esistere! Questo m'importa, e non di un'esistenza della quale mi si vorrebbe convincere che sarebbe la mia" e Filalete risponde: "Ma guardati intorno! Ciò che grida "io, io, io voglio esistere" non sei tu solo , ma tutto, assolutamente tutto, ciò che abbia una traccia di coscienza". Stesso principio benché Schopenhauer detestasse Hegel.
Ciao
Vedi, che ho fatto bene a scrivere come ho scritto. Ti ringrazio, infatti, della sintesi dell'andamento della discussione. Quanto al punto dirimente, ti confesso di far molta fatica a pensare ad una filosofia regionale. Mi sembra che a questo modo ne vada del pathos universalistico e fondativo generale sotto sui ho sempre concepito la filosofia. Riesco a pensare la specializazione, ma come momento previo ad una seconda navigazione che ricapitoli le conoscenze particolari nell'universale. M'immagino anche una posibile filosofia svolta nell'equivalente moderno di una scola medievale, il team. Ma anche in questo caso la collatio sarebbe, nella mia testa, il momento propriamente filosofico delle ricerche settoriali. Ammetto senza dubbio il carattere graduale della conoscenza filosofica, e la sua necessità metodica di muovere di continuo dalla seconda alla prima intenzione in ordine a cogliere il suo oggetto il più adeguatamente possibile. Vista l'espansione degli oggetti, il loro darsi già in scienze particolari, dovrei altresì ammettere il carattere costitutivo, oggi, della fase filosofica particolare. Con la clausola, tuttavia, che non venga persa di vista la mira teoretica alla totalità del sapere.
Penso così di non andare oltre some whishful thinking. Non saprei farti alcun nome di pensatore contemporaneo che si muova nei modi che ho indicato - ma questa é anche conseguenza della mia crassa ignoranza sull'evo presente!
Potrei tentare di citare un Pareyson, ma non sarebbe un esempio contemporaneo, anche se la sua scuola con Perrone, Ciancio ecc é viva e vegeta in quel di Torino.
Credo che farò bene, invece, a darmi alla lettura dei testi che mi hai indicato.
Peccato che a questo modo la discussione, almeno da parte mia vada a morire.
C'è sugo a discorrere/discutere con chi sa il fatto suo!
ciao
Vedi, che ho fatto bene a scrivere come ho scritto. Ti ringrazio, infatti, della sintesi dell'andamento della discussione. Quanto al punto dirimente, ti confesso di far molta fatica a pensare ad una filosofia regionale. Mi sembra che a questo modo ne vada del pathos universalistico e fondativo generale sotto sui ho sempre concepito la filosofia. Riesco a pensare la specializazione, ma come momento previo ad una seconda navigazione che ricapitoli le conoscenze particolari nell'universale. M'immagino anche una posibile filosofia svolta nell'equivalente moderno di una scola medievale, il team. Ma anche in questo caso la collatio sarebbe, nella mia testa, il momento propriamente filosofico delle ricerche settoriali. Ammetto senza dubbio il carattere graduale della conoscenza filosofica, e la sua necessità metodica di muovere di continuo dalla seconda alla prima intenzione in ordine a cogliere il suo oggetto il più adeguatamente possibile. Vista l'espansione degli oggetti, il loro darsi già in scienze particolari, dovrei altresì ammettere il carattere costitutivo, oggi, della fase filosofica particolare. Con la clausola, tuttavia, che non venga persa di vista la mira teoretica alla totalità del sapere.
Penso così di non andare oltre some whishful thinking. Non saprei farti alcun nome di pensatore contemporaneo che si muova nei modi che ho indicato - ma questa é anche conseguenza della mia crassa ignoranza sull'evo presente!
Potrei tentare di citare un Pareyson, ma non sarebbe un esempio contemporaneo, anche se la sua scuola con Perrone, Ciancio ecc é viva e vegeta in quel di Torino.
Credo che farò bene, invece, a darmi alla lettura dei testi che mi hai indicato.
Peccato che a questo modo la discussione, almeno da parte mia vada a morire.
C'è sugo a discorrere/discutere con chi sa il fatto suo!
ciao
Quel che mi fa maggiormente sorridere è che il terreno comune, in realtà, è molto ampio: tu citi Husserl e Landgrebe, io di rimando ho citato Gian-Carlo Rota (vedi ad esempio "La stella e l'intero" di Palombi, Bollati Boringhieri), che prende le mosse proprio dalla fenomenologia.
Il punto controverso appare essere ancora quello di partenza. Tu chiedi "quale luogo teoretico avrebbero ancora la libertà, la volontà, la verità, il senso, la storia". La mia risposta è fin troppo scontata: le branche filosofiche che di tali istanze si occupano. L'eclettismo filosofico mi pare ormai impraticabile: ma forse tu hai qualche controesempio contemporaneo da propormi.
A proposito: il principio di benevolenza interpretativa è essenziale nelle logiche del dialogo. Bencivenga lo enuncia più o meno in questi termini: se un'argomentazione non appare valida nel modo in cui è formulata, ma l'aggiunta di una o più premesse "ragionevoli" - ovvero, che "plausibilmente" sono presupposti facenti parte della visione del mondo di chi la enuncia - renderebbe valida l'argomentazione, allora è quasi sempre legittimo aggiungere tali premesse.
Purtroppo sono molto lontano da una visione "chiara" delle cose...
Il punto controverso appare essere ancora quello di partenza. Tu chiedi "quale luogo teoretico avrebbero ancora la libertà, la volontà, la verità, il senso, la storia". La mia risposta è fin troppo scontata: le branche filosofiche che di tali istanze si occupano. L'eclettismo filosofico mi pare ormai impraticabile: ma forse tu hai qualche controesempio contemporaneo da propormi.
A proposito: il principio di benevolenza interpretativa è essenziale nelle logiche del dialogo. Bencivenga lo enuncia più o meno in questi termini: se un'argomentazione non appare valida nel modo in cui è formulata, ma l'aggiunta di una o più premesse "ragionevoli" - ovvero, che "plausibilmente" sono presupposti facenti parte della visione del mondo di chi la enuncia - renderebbe valida l'argomentazione, allora è quasi sempre legittimo aggiungere tali premesse.
Purtroppo sono molto lontano da una visione "chiara" delle cose...
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(ho scritto grosso perché son mezzo cecato!)
Ciao
Credo che dal tuo intervento emerga implicitamente, nonché per il dichiarato impegno epistemologico, una visione chiara delle cose, che io ammetto di non possedere negli stessi termini. Ho appreso per esempio la nozione di 'benevolenza da forum', e ti ringrazio per averne applicato il significato nel corso di questo 'dialogo'.
Devo forse ammettere di essere decisamente naif in confronto al tuo approccio informato e critico alla questione del rapporto scienza e filosofia, o metodo scientifico e metodo filosofico. E' in questo spirito (naif) che affermo di credere in uno specifico filsofico, che cioé la filosofia sia tale se e in quanto é filosofia prima. Ed ho in mente il programma filosofico di Brentano - che cito in quanto figura emeblematica dell'interazione tra scienze naturali e filosofia, ed anche di come la sintesi "si faccia nel soggetto" (Gilson così diceva per la filosofia cristiana). Programma che esigendo per la filosofia un metodo rigoroso in analogia con le scienze naturali, con la matematica, e principalmente con la fisica, non preclude, secondo Brentano, che la filsofia pervenga alla conoscenza dei principi primi delle cose, ad una qual conoscenza per analogia e negazione, di Dio. (cfr. la sue ricerche filosofiche intorno alle prove logiche dell'esistenza di Dio, partendo dai dati d'osservazione esterni e interni, com'egli stesso li definisce). Potrai sorridere, visto che é già due volte che porto Brentano a titolo di esempio. Potrei aggiungere Husserl a sostegno della coesistenza di rigore scientifico e ricerca filosofica, e attraverso un suo scolaro, Landgrebe, appoggiare l'apertura metafisica della fenomenologia husserliana. Come noterai sono esempi fra loro omogenei sulla direttrice dell'intenzionalità gnoseologica. Ne viene che setaccio l'acqua con gli strumenti che ho. Tra questi metto anche la mia zucca, da cui ahimé non posso prescindere (nel bene e nel male). La quale mi suggerisce di chiedere, una volta obliterata la valenza universalistica e fondativa insieme, della filosofia, quale luogo teoretico avrebbero ancora la libertà, la volontà, la verità, il senso, la storia e altre istanze dell'umano caratterizzate dall'essere totalizzanti. A quale 'disciplina' affidare quanto, di primo acchito, mostra già chiaramente un residuo irriducibile alla scienza antropologica, o alle neuroscienze, o alla fisica dei sistemi complessi. Non so, probabilmente anche a questa domanda si applica la benevolenza da forum. E, pertanto ribadisco la mia naivété.
Mi spiace molto, lo ammetto, di non avere basi più solide per poter condurre oltre questa discussione, ne avrebbe giovato la discussione innanzi tutto. Inoltre tu avresti potuto transire da un approccio pro populo ad uno più adeguato al tema in oggetto.
Grazie allora per la pazienza.
Mi scuso per l'incompetenza.
E ti auguro buon proseguimento nella tua ricerca epistemologica.
ciao
f
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(ho scritto grosso perché son mezzo cecato!)
Ciao
Credo che dal tuo intervento emerga implicitamente, nonché per il dichiarato impegno epistemologico, una visione chiara delle cose, che io ammetto di non possedere negli stessi termini. Ho appreso per esempio la nozione di 'benevolenza da forum', e ti ringrazio per averne applicato il significato nel corso di questo 'dialogo'.
Devo forse ammettere di essere decisamente naif in confronto al tuo approccio informato e critico alla questione del rapporto scienza e filosofia, o metodo scientifico e metodo filosofico. E' in questo spirito (naif) che affermo di credere in uno specifico filsofico, che cioé la filosofia sia tale se e in quanto é filosofia prima. Ed ho in mente il programma filosofico di Brentano - che cito in quanto figura emeblematica dell'interazione tra scienze naturali e filosofia, ed anche di come la sintesi "si faccia nel soggetto" (Gilson così diceva per la filosofia cristiana). Programma che esigendo per la filosofia un metodo rigoroso in analogia con le scienze naturali, con la matematica, e principalmente con la fisica, non preclude, secondo Brentano, che la filsofia pervenga alla conoscenza dei principi primi delle cose, ad una qual conoscenza per analogia e negazione, di Dio. (cfr. la sue ricerche filosofiche intorno alle prove logiche dell'esistenza di Dio, partendo dai dati d'osservazione esterni e interni, com'egli stesso li definisce). Potrai sorridere, visto che é già due volte che porto Brentano a titolo di esempio. Potrei aggiungere Husserl a sostegno della coesistenza di rigore scientifico e ricerca filosofica, e attraverso un suo scolaro, Landgrebe, appoggiare l'apertura metafisica della fenomenologia husserliana. Come noterai sono esempi fra loro omogenei sulla direttrice dell'intenzionalità gnoseologica. Ne viene che setaccio l'acqua con gli strumenti che ho. Tra questi metto anche la mia zucca, da cui ahimé non posso prescindere (nel bene e nel male). La quale mi suggerisce di chiedere, una volta obliterata la valenza universalistica e fondativa insieme, della filosofia, quale luogo teoretico avrebbero ancora la libertà, la volontà, la verità, il senso, la storia e altre istanze dell'umano caratterizzate dall'essere totalizzanti. A quale 'disciplina' affidare quanto, di primo acchito, mostra già chiaramente un residuo irriducibile alla scienza antropologica, o alle neuroscienze, o alla fisica dei sistemi complessi. Non so, probabilmente anche a questa domanda si applica la benevolenza da forum. E, pertanto ribadisco la mia naivété.
Mi spiace molto, lo ammetto, di non avere basi più solide per poter condurre oltre questa discussione, ne avrebbe giovato la discussione innanzi tutto. Inoltre tu avresti potuto transire da un approccio pro populo ad uno più adeguato al tema in oggetto.
Grazie allora per la pazienza.
Mi scuso per l'incompetenza.
E ti auguro buon proseguimento nella tua ricerca epistemologica.
ciao
f
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Mauro, ti ringrazio per il tuo intervento.
Dal mio punto di vista vale l'interpretazione più naif e generale: matematico è chiunque si occupa di matematica, appoggiandosi ai tre capisaldi di predisposizione, passione, competenza. Con piccole variazioni lessicali, la definizione si applica al filosofo. Fortunatamente, come ogni buona definizione filosofica, anche queste sono sufficientemente vaghe da spalancare un baratro di problemi interpretativi, sui quali possiamo lungamente discutere.
Federico, il mio stile è piuttosto quello di un epistemologo filoanalitico che studia da anni anche le logiche argomentative, ma che si è un po' stancato del politically correct insito nella pragmadialettica. Altrimenti alla fine della chiacchierata risulta che sono tutti buoni e bravi, tutti hanno "vinto" e everything goes. Invece no: la cattiva filosofia esiste, e ci vuol poco a mostrarlo, partendo da una serie ristretta di definizioni ragionevoli, e magari con un bell'elenchos come s'usa fare per tacitare i relativisti. Così come è vero che esiste un grave problema delle "due culture" e di prevaricazione umanistica particolarmente aggravato in Italia, dove per esempio abbiamo decine di scuole di scrittura creativa o gestualità teatrale, ma pochissime di ragionamento, logica informale e teoria dell'argomentazione, su cui spiccano quelle di Carmen dell'Aversano o Adelino Cattani.
Inoltre, al contrario di Toulmin e (peggio mi sento) di Habermas e dei suoi epigoni, non credo che "tutto" sia dialettizzabile, e parlo con ogni evidenza di quel "tutto" ciò che sta fuori dal recinto delle scienze "esatte".
Vedo inoltre un ulteriore problema. Posto che qui stiamo partendo da due visioni del mondo potenzialmente irriducibili, ma con la volontà di trovare terreno d'intesa almeno su qualche definizione e sul piano metodologico, non mi sono limitato a respingere sdegnosamente i tuoi argomenti, mentre mi sono divertito a criticarne alcuni (a mo' di simpatica provocazione, e sempre con grande rispetto per la fatica e l'impegno della riflessione altrui).
Ora, passare da questo livello alla confutazione della coerenza interna della tua visione (e viceversa) diventa molto arduo in questa sede. Se solo ci mettessimo ad esplicitare come premesse tutti i rispettivi presupposti per illustrare la parte della mia e della tua visione del mondo che rilevano in questa discussione, non basterebbero dieci tomi enciclopedici !
Inoltre occorrerebbe accordarsi sulle scale assiologiche, ma anche - come vedo da quanto scrivi - sul binomio fatto-valore. Su questo punto io sposo appieno le teorie di Putnam, e cioè che le due categorie sono sì distinguibili a posteriori, ma rimangono legate da relazioni profonde e spesso sorprendenti, la questione diviene fin troppo articolata.
Questo non implica una incomunicabilità tout court, ma di certo occorre una ferrea volontà d'intesa, e un abuso del principio di benevolenza interpretativa che rischia di farci perdere troppo senso per strada, almeno in questa sede. D'altro canto il sottoscritto è ben lungi dal possedere la fulminea rapidità di risposta che si dice caratterizzasse Ludwig Wittgenstein, ma forse potremmo discutere meglio con più tempo a disposizione e davanti ad una lavagna.
Ci sono strade più praticabili, almeno su un forum, anche se maggiormente rischiose e forse meno produttive. Un esempio banale ? Tu mi parli di "impegno filosofico [...] su certe teorie della fisica", e l'idea in generale mi sta benissimo (né considero questo una invasione di campo di per sé). Mi attendo anche che tu comprenda quanto approvo l'idea, e al limite faccio rapidamente menzione del mio assenso. Tuttavia, in un contesto come questo, preferisco ricordare in maniera un po' provocatoria Bergson e le sue chiacchiere sul tempo quale esempio di come non ci si deve occupare di teorie delle quali non si sa a sufficienza.
Vale lo stesso per le provocazioni su metafilosofia e antropologia culturale, ovviamente.
Per rimettere tutto in un guscio di noce:
1) Siamo d'accordo che esiste della cattiva filosofia e che i dipartimenti di filosofia di tutto il mondo dovrebbero dotarsi di più cestini ?
2) Esiste una filosofia "consumabile" e praticabile dai logici e dai matematici ? Essa è maggiormente fondata delle elucubrazioni speculative di qualcuno che non ha mai visto un integrale o una Hamiltoniana o un binary decision diagram o un tableau ?
3) Esiste una epistemologia che appartiene agli stessi scienziati, condivisibile da epistemologi-filosofi ed epistemologi-scienziati ? Vedi sopra.
4) C'è ancora spazio per "teorie del tutto" in filosofia, per filosofi che pontificano su qualsiasi aspetto della conoscenza con la medesima competenza e profondità ? Io ritengo di no. Nel Novecento è scaduto definitivamente il contratto di manutenzione di un tale approccio.
Dal mio punto di vista vale l'interpretazione più naif e generale: matematico è chiunque si occupa di matematica, appoggiandosi ai tre capisaldi di predisposizione, passione, competenza. Con piccole variazioni lessicali, la definizione si applica al filosofo. Fortunatamente, come ogni buona definizione filosofica, anche queste sono sufficientemente vaghe da spalancare un baratro di problemi interpretativi, sui quali possiamo lungamente discutere.
Federico, il mio stile è piuttosto quello di un epistemologo filoanalitico che studia da anni anche le logiche argomentative, ma che si è un po' stancato del politically correct insito nella pragmadialettica. Altrimenti alla fine della chiacchierata risulta che sono tutti buoni e bravi, tutti hanno "vinto" e everything goes. Invece no: la cattiva filosofia esiste, e ci vuol poco a mostrarlo, partendo da una serie ristretta di definizioni ragionevoli, e magari con un bell'elenchos come s'usa fare per tacitare i relativisti. Così come è vero che esiste un grave problema delle "due culture" e di prevaricazione umanistica particolarmente aggravato in Italia, dove per esempio abbiamo decine di scuole di scrittura creativa o gestualità teatrale, ma pochissime di ragionamento, logica informale e teoria dell'argomentazione, su cui spiccano quelle di Carmen dell'Aversano o Adelino Cattani.
Inoltre, al contrario di Toulmin e (peggio mi sento) di Habermas e dei suoi epigoni, non credo che "tutto" sia dialettizzabile, e parlo con ogni evidenza di quel "tutto" ciò che sta fuori dal recinto delle scienze "esatte".
Vedo inoltre un ulteriore problema. Posto che qui stiamo partendo da due visioni del mondo potenzialmente irriducibili, ma con la volontà di trovare terreno d'intesa almeno su qualche definizione e sul piano metodologico, non mi sono limitato a respingere sdegnosamente i tuoi argomenti, mentre mi sono divertito a criticarne alcuni (a mo' di simpatica provocazione, e sempre con grande rispetto per la fatica e l'impegno della riflessione altrui).
Ora, passare da questo livello alla confutazione della coerenza interna della tua visione (e viceversa) diventa molto arduo in questa sede. Se solo ci mettessimo ad esplicitare come premesse tutti i rispettivi presupposti per illustrare la parte della mia e della tua visione del mondo che rilevano in questa discussione, non basterebbero dieci tomi enciclopedici !
Inoltre occorrerebbe accordarsi sulle scale assiologiche, ma anche - come vedo da quanto scrivi - sul binomio fatto-valore. Su questo punto io sposo appieno le teorie di Putnam, e cioè che le due categorie sono sì distinguibili a posteriori, ma rimangono legate da relazioni profonde e spesso sorprendenti, la questione diviene fin troppo articolata.
Questo non implica una incomunicabilità tout court, ma di certo occorre una ferrea volontà d'intesa, e un abuso del principio di benevolenza interpretativa che rischia di farci perdere troppo senso per strada, almeno in questa sede. D'altro canto il sottoscritto è ben lungi dal possedere la fulminea rapidità di risposta che si dice caratterizzasse Ludwig Wittgenstein, ma forse potremmo discutere meglio con più tempo a disposizione e davanti ad una lavagna.
Ci sono strade più praticabili, almeno su un forum, anche se maggiormente rischiose e forse meno produttive. Un esempio banale ? Tu mi parli di "impegno filosofico [...] su certe teorie della fisica", e l'idea in generale mi sta benissimo (né considero questo una invasione di campo di per sé). Mi attendo anche che tu comprenda quanto approvo l'idea, e al limite faccio rapidamente menzione del mio assenso. Tuttavia, in un contesto come questo, preferisco ricordare in maniera un po' provocatoria Bergson e le sue chiacchiere sul tempo quale esempio di come non ci si deve occupare di teorie delle quali non si sa a sufficienza.
Vale lo stesso per le provocazioni su metafilosofia e antropologia culturale, ovviamente.
Per rimettere tutto in un guscio di noce:
1) Siamo d'accordo che esiste della cattiva filosofia e che i dipartimenti di filosofia di tutto il mondo dovrebbero dotarsi di più cestini ?
2) Esiste una filosofia "consumabile" e praticabile dai logici e dai matematici ? Essa è maggiormente fondata delle elucubrazioni speculative di qualcuno che non ha mai visto un integrale o una Hamiltoniana o un binary decision diagram o un tableau ?
3) Esiste una epistemologia che appartiene agli stessi scienziati, condivisibile da epistemologi-filosofi ed epistemologi-scienziati ? Vedi sopra.
4) C'è ancora spazio per "teorie del tutto" in filosofia, per filosofi che pontificano su qualsiasi aspetto della conoscenza con la medesima competenza e profondità ? Io ritengo di no. Nel Novecento è scaduto definitivamente il contratto di manutenzione di un tale approccio.
Non so chi qui abbia una visione di filosofia arretrata, per il fatto che in ogni epoca le filosofie si sono ispirate quanto al metodo, alle scienze prevalenti. Tommaso d'Aquino e la fisica di Aristotele, Cartesio e la Mathesis universale, Kant e l'assunzione della fisica a paradigma del metodo filosofico. Variano i punti di partenza, il mondo con Tommaso, il Cogito con Cartesio, l'immaginazione trascendentale con Kant. Per fare solo alcuni esempi. Accade che dal momento in cui il dato della relazione filosofia e scienza entra nella conoscenza storica, la filosofia deve considerarlo per ragioni deontologiche. La valenza filsofica della storia della filosofia avendo assunto un valore non più ricusabile dopo Hegel. Non solo, dico che la scienza stessa, esattamente in relazione ai paletti di confine che hai indicato, deve assumere le responsabilità della propria demarcazione. Insisto nel dire della propria, e non per estensione anche di quella della filosofia. La storia stessa dei sistemi scientifici ammette discontinuità, mutamento di paradigmi, e ciò non ha impedito che la scienza restasse se stessa, avesse cioé per oggetto la conoscenza del mondo secondo il rispetto logico-matematico e fisico. Così come lo scetticimo metodico cartesiano, o quello più schietto di Hume, o la critica della ragione di Kant hanno posto altrettanti paletti al conoscere filosofico, senza che per questo la filosofia abbia cessato, nella modernità, di occuparsi dell'uomo, correlando ad esso ogni altro ambito vitale (il mondo, la religione, l'arte, la storia, ecc., la scienza).
Non credi che debba, tuttavia farsi una debita distinzione tra i paletti delle cd scienze esatte, e i paletti individuati dalla riflessione filosofica. Intendo dire che tali limiti riconosciuti procedono da metodi ed esperienze diverse, e diverso é anche il loro significato, il loro tenore deontologico. Per eccesso, dico infatti che é il filsofo il limite della filosofia. Con ciò intendo dire che il compito filosofico non é riducibile ad una professionalità, magari universitaria, o ad un lusso d'accademia. Dico, invece, che la filosofia sorge col soggetto che avverte, non diversamente dal fisico, o dal matematico, ma sotto un altro rispetto l'intenzione del proprio esistere orientata alla comprensione dell'esistente. Si potranno dare articolazioni regionali di questa conoscenza, ma, e sottolieno ma, all'interno di una weltenshaung integrale. Non meno che nella scienza, il genio dello scienziato, il limite oggettivo del filosofare é il genio del filosofo. Col quale termine compendio il retroterra culturale remoto (la tradizione) e prossimo (la formazione, la problematicità dell'epoca a lui contemporanea) del soggetto con la sua progettualità. La filosofia ha sempre avuto una propensione per l'universale, il generale, il globale. Una riduzione di campo, di tipo specialistico, equivale a negarne il proprium. Diverso é parlare di regionalità del sapere filosofico perché viene fatta salva la sua unità analoga e il suo proprio metodo.
"Propter juxta principiis" penso debba valere e per la scienza e per la filsofia. Si deve in altri termini riconoscere l'irriducibilità dell'una all'altra. Ed é fuorviante intepretare l'impegno filosofico per esempio su certe teorie della fisica, o con certe questioni fondative della matematica, un'invasione di campo. La parola chiave che cerco di far passare da qulche tempo in questa discussione é quella di "rispetto" nel senso tecnico di punto di vista sotto cui una data cosa é guardata/osservata/valutata. Per esempio, la filosofia contemporanea é bene che sia a conoscenza dei tratti fondamentali delle neuroscienze, in quanto il darvinismo neurale, o l'identificazione morfofunzionale o processuale di corrispettivi emozionali, ideativi (cfr. Edelman), deve poter incidere nella riflessione filosofica di tipo gnoseologico. Senza che ciò implichi la dettagliata conoscenza dell'anatomia cerebrale o della sua fisiologia o biochimica cellulare. Il dato che al filosofo basta é che vi siano strutture correlabili con determinati aspetti dell'espressione umana, del comportamento (cfr. Damasio), della stessa formulazione delle idee. Nello specifico neuro-evolutivo, la filosofia assume ed elabora la nozione di 'genealogia' della mente, cercando di trarne le conseguenze di carattere universale circa la concezione dell'uomo. Rimanendo, tuttavia all'interno di un circolo ermeneutico sincronico e diacronico, per cui il dato é assimilato criticamente, ed analizzato secondo diverse possibili ermeneutiche. Approccio diverso é quello della filosofia della mente, che rientra esattamente tra le specializzazioni filosofiche che tu suggerisci. In tal caso, dal mio punto di vista il termine é ambiguo, in quanto la filosofia é ridotta biunivocamente al suo rapporto coi dati di una determinata scienza. Quando, invece, il suo miglior interlocutore é la scienza nel suo complesso.
Non credo di essere un mago delle argometazioni, ma almeno ci tento.
Mi pare, invece, che tu proceda non per argometazioni, ma per constatazioni. Ora si sà che il dato di fatto, the state of affairs, é più il punto di partenza della riflessione di quanto non sia, non possa valere da conclusione, né tanto meno da prova per sé evidente; e questo perché abbiamo a che fare con stati di cose d'ordine culturale, scienza e filosofia incluse. Stati che richiedono quanto meno una intepretazione scientifica, e l'esercizio del discernimento, selettivo circa quanto di quel dato attiene meramente alla fisica, o alla filosofia.
Nè si tratta nella dialettica, di tagliar corto, omettendo l'argomento contrario, continuando a ribadire il proprio slogan, il proprio credo.
Forse rimprovero ad altri quello che dovrei rimproverare a me. E lo farei se la querelle viaggiasse sui binari di una schietta dialettica.
a risentirci
tau
PS. 1) la filosofia non é la scienza delle scienze
2) la metafilosofia non é un'astrazione iperplatonica, ma uno dei momenti (auto)riflessivi della filosofia
3) non da ultimo, buonas parte del reale (cfr la costante di Chaitin) non é razionale, o meglio non ha un unico modello di reazionalità. Ci sono altri modi di conoscere le cose oltre la scienza e la filosofia, conoscenze che si sottraggono tanto alla presa scientifica,, tanto a quella filosofica. L'antropologia culturale di Geertz, un Turner, credo siano validi (scientifici) esempi.
Non credi che debba, tuttavia farsi una debita distinzione tra i paletti delle cd scienze esatte, e i paletti individuati dalla riflessione filosofica. Intendo dire che tali limiti riconosciuti procedono da metodi ed esperienze diverse, e diverso é anche il loro significato, il loro tenore deontologico. Per eccesso, dico infatti che é il filsofo il limite della filosofia. Con ciò intendo dire che il compito filosofico non é riducibile ad una professionalità, magari universitaria, o ad un lusso d'accademia. Dico, invece, che la filosofia sorge col soggetto che avverte, non diversamente dal fisico, o dal matematico, ma sotto un altro rispetto l'intenzione del proprio esistere orientata alla comprensione dell'esistente. Si potranno dare articolazioni regionali di questa conoscenza, ma, e sottolieno ma, all'interno di una weltenshaung integrale. Non meno che nella scienza, il genio dello scienziato, il limite oggettivo del filosofare é il genio del filosofo. Col quale termine compendio il retroterra culturale remoto (la tradizione) e prossimo (la formazione, la problematicità dell'epoca a lui contemporanea) del soggetto con la sua progettualità. La filosofia ha sempre avuto una propensione per l'universale, il generale, il globale. Una riduzione di campo, di tipo specialistico, equivale a negarne il proprium. Diverso é parlare di regionalità del sapere filosofico perché viene fatta salva la sua unità analoga e il suo proprio metodo.
"Propter juxta principiis" penso debba valere e per la scienza e per la filsofia. Si deve in altri termini riconoscere l'irriducibilità dell'una all'altra. Ed é fuorviante intepretare l'impegno filosofico per esempio su certe teorie della fisica, o con certe questioni fondative della matematica, un'invasione di campo. La parola chiave che cerco di far passare da qulche tempo in questa discussione é quella di "rispetto" nel senso tecnico di punto di vista sotto cui una data cosa é guardata/osservata/valutata. Per esempio, la filosofia contemporanea é bene che sia a conoscenza dei tratti fondamentali delle neuroscienze, in quanto il darvinismo neurale, o l'identificazione morfofunzionale o processuale di corrispettivi emozionali, ideativi (cfr. Edelman), deve poter incidere nella riflessione filosofica di tipo gnoseologico. Senza che ciò implichi la dettagliata conoscenza dell'anatomia cerebrale o della sua fisiologia o biochimica cellulare. Il dato che al filosofo basta é che vi siano strutture correlabili con determinati aspetti dell'espressione umana, del comportamento (cfr. Damasio), della stessa formulazione delle idee. Nello specifico neuro-evolutivo, la filosofia assume ed elabora la nozione di 'genealogia' della mente, cercando di trarne le conseguenze di carattere universale circa la concezione dell'uomo. Rimanendo, tuttavia all'interno di un circolo ermeneutico sincronico e diacronico, per cui il dato é assimilato criticamente, ed analizzato secondo diverse possibili ermeneutiche. Approccio diverso é quello della filosofia della mente, che rientra esattamente tra le specializzazioni filosofiche che tu suggerisci. In tal caso, dal mio punto di vista il termine é ambiguo, in quanto la filosofia é ridotta biunivocamente al suo rapporto coi dati di una determinata scienza. Quando, invece, il suo miglior interlocutore é la scienza nel suo complesso.
Non credo di essere un mago delle argometazioni, ma almeno ci tento.
Mi pare, invece, che tu proceda non per argometazioni, ma per constatazioni. Ora si sà che il dato di fatto, the state of affairs, é più il punto di partenza della riflessione di quanto non sia, non possa valere da conclusione, né tanto meno da prova per sé evidente; e questo perché abbiamo a che fare con stati di cose d'ordine culturale, scienza e filosofia incluse. Stati che richiedono quanto meno una intepretazione scientifica, e l'esercizio del discernimento, selettivo circa quanto di quel dato attiene meramente alla fisica, o alla filosofia.
Nè si tratta nella dialettica, di tagliar corto, omettendo l'argomento contrario, continuando a ribadire il proprio slogan, il proprio credo.
Forse rimprovero ad altri quello che dovrei rimproverare a me. E lo farei se la querelle viaggiasse sui binari di una schietta dialettica.
a risentirci
tau
PS. 1) la filosofia non é la scienza delle scienze
2) la metafilosofia non é un'astrazione iperplatonica, ma uno dei momenti (auto)riflessivi della filosofia
3) non da ultimo, buonas parte del reale (cfr la costante di Chaitin) non é razionale, o meglio non ha un unico modello di reazionalità. Ci sono altri modi di conoscere le cose oltre la scienza e la filosofia, conoscenze che si sottraggono tanto alla presa scientifica,, tanto a quella filosofica. L'antropologia culturale di Geertz, un Turner, credo siano validi (scientifici) esempi.
"Andrea69":
Non entro nel merito della questione (il tempo è tiranno !), ma mi limito a ricordare - un po' burocraticamente, forse - che nell'ultimo secolo si fa decisamente fatica a separare filosofi e matematici: Russell, Whitehead, Quine, Kripke, Putnam, Feferman e praticamente tutti i logici e filosofi analitici dovrebbero essere distribuiti equamente dai due lati dello steccato ideale... certo, ci sono anche filosofi chiacchieroni e (questi sì) perditempo, in buona parte militanti nelle fila dei "continentali", relativisti, postmodernisti e propalatori del "pensiero debole", in sostanza i destinatari della poderosa beffa di Alan Sokal.
Sta di fatto che, dopo Frege, non si può più fare finta che non esistano le specializzazioni in filosofia.
Che un matematico sia assieme un filosofo è il minimo. Che un filosofo non sia al pari tempo un matematico è quantomeno curioso. Bisogna però intenderci su cosa sia un matematico, oltreché un filosofo. Quanto alla filosofia, essa ha sovente se non sempre fatto uso di matematica: in sintesi, a me pare che tutto il linguaggio sia matematica e che si dia buona filosofia quando il Logos del discorso filosofico riesca ad essere coerente, armonico e persuasivo, tre qualità che mi paion regine nella stessa matematica.
Non mi hanno mai convinto le discipline che pretendono di avocare a sé tutto quanto: ad esempio, quella antropologia che si autoproclama summa di tutto ciò che riguarda l'uomo, e che in certo qual modo vorrebbe compendiare e riassumere tutto ciò che compete le neuroscienze, la medicina, le tecnologie, la storia e la paleontologia, l'etnologia, la filosofia, la sociologia, la letteratura e l'arte in quanto produzioni umane... lasciando scoperte, bontà sua, solo l'erpetologia o la mirmecologia, ché invece di animali domestici c'è sempre la scusa per occuparsi, essendo questi a stretto contatto con l'uomo.
Spiacente, ma no: ed è un no risoluto, perentorio. Non ci siamo. Non esiste la scienza delle scienze, i tuttologi erano possibili fino a quando quando si sapeva poco e male.
Non esiste neppure la metafilosofia, nel senso di astrazione iperplatonica che riesca a spiegarti cosa e quando scegliere, il racconto mitologico alla Hillman e il lambda calcolo. Esistono certamente livelli e metalivelli, al di sopra delle specializzazioni, ma si fermano quel "sapere di base" di cui parla spesso e volentieri Piattelli Palmarini: quella buona filosofia che ti consente di riconoscere una foresta quando ci sei in mezzo, senza per questo sapere di quanti strati cellulari è composta una foglia.
D'altro canto, la logica (parliamo per semplicità di logica classica) non può essere refutata in un discorso razionale, e non v'è modo alcuno di trattare la razionalità stando volutamente all'esterno di essa !
Oggi possediamo anche logiche dialogiche, pragmatiche, aletiche e deontiche per delineare le forme di razionalità "diverse" rispetto al discorso logico matematico: ben vengano. Ma oltre queste colonne d'Ercole, chi può pensare di fare ancora buona filosofia della scienza ?
Certamente si può refutare scientemente la razionalità (almeno a chiacchiere: ché poi anche i più esasperati relativisti mettono il gelato in frigo, il pollo in forno, e si guardano bene dall'uscire dalla finestra se sono al quinto piano), ma in quel caso la specializzazione è automatica, direi perfino preterintenzionale.
Possiamo continuare molto a lungo, ma al momento mi fermo qui e propongo una simpatica domanda.
La Matematica oggi ha solidificato a dismisura la propria posizione di assoluta unicità epistemica in quanto conosce con chiarezza in passato inconcepibile l'esistenza (e spesso anche l'estensione) dei propri limiti, grazie a teoremi come quelli di Gödel, Church, Turing, Chaitin. D'altro canto, le scienze fisiche hanno il loro bravo principio di indeterminazione di Heisenberg, il teorema di Bell e altre piacevolezze. Tutto intorno il panorama delle nostre conoscenze è un proliferare di muri, di confini, di limiti che mitigano gli entusiasmi ottocenteschi, e ridimensionano la natura di reazioni come il Romanticismo.
Ora, la filosofia (che si occupa di conoscenza, se ci accordiamo sull'etimo...) vuole continuare ad illudersi di non avere limiti strutturali, salvo poi sbatterci il naso in qualche futura occasione, o preferisce rassegnarsi ad accettare la propria dimensione e rientrare nell'alveo delle specializzazioni e della ragionevolezza, come disciplina dei fondamenti (del sapere, s'intende) ?
Dalla risposta a questa domanda, più che dalle simpatie geografiche (anche in Europa, isole comprese, abbiamo fior di analitici...), dipendono il futuro e la carriera di un filosofo, in my opinion.
Spiacente, ma no: ed è un no risoluto, perentorio. Non ci siamo. Non esiste la scienza delle scienze, i tuttologi erano possibili fino a quando quando si sapeva poco e male.
Non esiste neppure la metafilosofia, nel senso di astrazione iperplatonica che riesca a spiegarti cosa e quando scegliere, il racconto mitologico alla Hillman e il lambda calcolo. Esistono certamente livelli e metalivelli, al di sopra delle specializzazioni, ma si fermano quel "sapere di base" di cui parla spesso e volentieri Piattelli Palmarini: quella buona filosofia che ti consente di riconoscere una foresta quando ci sei in mezzo, senza per questo sapere di quanti strati cellulari è composta una foglia.
D'altro canto, la logica (parliamo per semplicità di logica classica) non può essere refutata in un discorso razionale, e non v'è modo alcuno di trattare la razionalità stando volutamente all'esterno di essa !
Oggi possediamo anche logiche dialogiche, pragmatiche, aletiche e deontiche per delineare le forme di razionalità "diverse" rispetto al discorso logico matematico: ben vengano. Ma oltre queste colonne d'Ercole, chi può pensare di fare ancora buona filosofia della scienza ?
Certamente si può refutare scientemente la razionalità (almeno a chiacchiere: ché poi anche i più esasperati relativisti mettono il gelato in frigo, il pollo in forno, e si guardano bene dall'uscire dalla finestra se sono al quinto piano), ma in quel caso la specializzazione è automatica, direi perfino preterintenzionale.
Possiamo continuare molto a lungo, ma al momento mi fermo qui e propongo una simpatica domanda.
La Matematica oggi ha solidificato a dismisura la propria posizione di assoluta unicità epistemica in quanto conosce con chiarezza in passato inconcepibile l'esistenza (e spesso anche l'estensione) dei propri limiti, grazie a teoremi come quelli di Gödel, Church, Turing, Chaitin. D'altro canto, le scienze fisiche hanno il loro bravo principio di indeterminazione di Heisenberg, il teorema di Bell e altre piacevolezze. Tutto intorno il panorama delle nostre conoscenze è un proliferare di muri, di confini, di limiti che mitigano gli entusiasmi ottocenteschi, e ridimensionano la natura di reazioni come il Romanticismo.
Ora, la filosofia (che si occupa di conoscenza, se ci accordiamo sull'etimo...) vuole continuare ad illudersi di non avere limiti strutturali, salvo poi sbatterci il naso in qualche futura occasione, o preferisce rassegnarsi ad accettare la propria dimensione e rientrare nell'alveo delle specializzazioni e della ragionevolezza, come disciplina dei fondamenti (del sapere, s'intende) ?
Dalla risposta a questa domanda, più che dalle simpatie geografiche (anche in Europa, isole comprese, abbiamo fior di analitici...), dipendono il futuro e la carriera di un filosofo, in my opinion.
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