Versione (118253)
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Concluso questo combattimento, Cesare ormai non riteneva di dover ascoltare gli ambasciatori o accettare le condizioni di pace da quelli che, chiesta la pace, avevano volontariamente mosso la guerra con l’inganno e le imboscate; inoltre riteneva che fosse una grandissima follia attendere, mentre le truppe dei nemici venivano accresciute e la cavalleria ritornava, e, conosciuta la volubilità dei Galli, comprendeva quanto prestigio i nemici, con un solo combattimento, avessero presso di loro; credeva che a questi non doveva essere concesso il tempo per prendere decisioni. Stabilite queste cose e condiviso con i luogotenenti e con il questore il proposito di non interrompere di un solo giorno la battaglia, avvenne una cosa molto opportuna, infatti la mattina del giorno seguente, avvalendosi della stessa perfidia e ipocrisia, parecchi Germani, coinvolti tutti i capi e i più anziani, giunsero da lui nell’accampamento, al contempo, come era detto, per scusarsi, poiché, contro ciò che era stato detto e che essi stessi avevano chiesto, il giorno prima avevano attaccato battaglia, nonché per ottenere con l’inganno, se avessero potuto, una tregua. Cesare, rallegrandosi del fatto che gli si fossero offerti, ordinò che venissero trattenuti; lui portò fuori dall’accampamento tutte le truppe e ordinò alla cavalleria, che riteneva terrorizzata dal recente combattimento, di seguire l’esercito.
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