Urgenteee!! vi ringrazio in anticipo
ciao a tutti, riguardo il saggio di Montale "parole e musica", mi servirebbe la suddivisione del saggio in sequenze con l'individuazione degli snodi argomentativi. L'illustrazione degli argomentiutilizzati dall'autore e l'individuazione della tesi. L'analisi dei connettivi logici e semantici più utili a ricostruire la progressione delle idee nel testo.
Aggiunto 15 minuti più tardi:
Le parole messe in musica, le parole cantate non piacciono ai più raffinati cultori dell’arte dei suoni. Fra coloro che ancora le sopportano, molti preferiscono le forme corali, in cui la parola sparisce, altri amano che della voce giunga solo l’arabesco sonoro, senza che alcuna sillaba si distingua, altri ancora (i meno) vorrebbero che la parola musicata giungesse a noi sempre scandita, chiara, intelligibile. Sono i partitanti del così detto «recitar cantando», italianissimo precetto. Mi unirei volentieri a questi ultimi se il gioco valesse come suol dirsi la candela, se fossi certo che la musica può in certi casi far sprizzare dalla poesia, che in se stessa è già musica, una musica di secondo grado degna, o non indegna, della prima.
So di sfiorare un problema sul quale esiste tutta una letteratura, che purtroppo conosco solo in minima parte. È musicabile la poesia? E qual genere di poesia? E fino a che punto? E in quale misura le parole dovranno conservare la loro autonomia e lasciarsi intendere dall’ascoltatore? In genere la recente tradizione operistica ha ignorato il problema e ha considerato la parola come il necessario pretesto a far sì che lo strumento «voce umana» possa entrare nel gioco degli altri strumenti e farsi valere. Ma esiste anche una scuola che va dai nostri grandi cinquecentisti fino a Debussy e magari fino allo Schönberg di Pierrot lunaire, e che pretende di avere un rispetto assoluto della parola, di creare ad essa il giusto prolungamento o alone sonoro, senza distruggerne l’individualità. Questi teorici, più o meno consapevoli, del canto recitato hanno però finito con l’ammettere che solo una «certa poesia» è musicabile e la scelta dei loro testi rivela chiaramente ch’essi si sono quasi sempre posti sulla via del compromesso. Musicavano una volta ballatette, poesiole d’Arcadia, strofette scritte apposta per la musica; affrontano oggi drammi di scarso valore poetico (Pelléas et Mélisande) o liriche di una vacuità addirittura inconcepibile, come la suite del Pierrot lunaire, opera di un Albert Giraud
che deve al musicista viennese il suo insperato repêchage. Il peggior partito fu quello preso dai musici che scrissero da sé i propri testi o libretti: incerti fra la doppia vocazione, poetica e musicale, essi si lasciarono ipnotizzare da parole orrende e solo si salvarono permettendo che le voci andassero sommerse nella selva del grande golfo mistico. Fa eccezione, parzialmente, Riccardo Wagner, ma ciò avviene per la superba natura del suo genio, e non perché in lui non si avverta una soverchiante prepotenza subìta dalla parola.
Se dal piano delle scuole e delle teorie ci spostiamo all’osservazione dei fatti, noi vediamo che almeno dall’Ottocento in poi un sapiente compromesso regola tutte le esecuzioni di musica vocale. Fatta eccezione per moltissimi Lieder o romanze da camera, o per qualche recitativo d’opera comica, o per alcuni superbi frammenti del Boris, la soluzione pratica del difficile problema è sempre la stessa; le parole ci sono e non ci sono, si sentono e non si sentono, aiutano o danneggiano l’effetto, a seconda dei casi. Si è formata, anche in questo campo, una tradizione che i migliori interpreti rispettano quasi d’istinto. È doveroso far sentire le parole in certi miracolosi «attacchi» che anche poeticamente hanno una freschezza primaticcia degna del nostro Duecento («Casta Diva che inargenti...», «La rivedrà nell’estasi / raggiante di pallore...») o all’inizio di qualche incalzante proposta tematica («Fuggi fuggi, per l’orrida via / sento l’orma dei passi spietati...»). In altri casi tutto è affidato all’intuizione e alle possibilità dell’artista. I ghirigori acrobatici di Rosina non possono essere pronunciati come le sillabe di un Lied di Schubert; è giusto che Vasco de Gama liberi dal vago tremolo orchestrale le suggestive parole «O paradiso dall’onde uscito», ma è altrettanto lecito che il grande navigatore ci nasconda gli ulteriori sviluppi della sua sorpresa, specie quand’essi restano affidati alla sola forza di penetrazione del si naturale o del do sopra le righe. L’invettiva di Rigoletto «Solo per me l’infamia» è un suono di gong più che un suono di sillabe umane: guai a pronunciare troppo, guai a turbare la piena rotondità di quel rombo da giorno del Giudizio. Viceversa, tutte le volte che un tema è annunciato in anticipo da uno o più strumenti, l’attacco delle prime parole deve riuscire nitidissimo. Quando il vecchio Sir Giorgio, nei Puritani, incide a gran voce «Il rivale salvar tu puoi...», il pubblico è felice di sentire incarnarsi in parole un disegno melodico a lui già noto: ma subito dopo le acque si intorbidano e il tema, ripreso da una voce troppo uguale, quella di Sir Riccardo, non riesce a far corpo con le parole come
«Fu voler del Parlamento», che fanno veramente cascar l’asino. Non che sia un verso peggiore di tanti altri; ma le parole troppo astratte o troppo tecniche o troppo specifiche sopportano male la musica; ed evidentemente questo quasi carducciano parlamento non fa eccezione. (È una delle tante meritate disgrazie dell’istituto parlamentare; ma lasciamo correre...) I problemi della parola in musica, del recitar cantando o del cantare non recitando affatto restano dunque aperti e insolubili: Mussorgski, Debussy e alcuni autori di canti negri sembrano, fra i moderni, coloro che meglio sono riusciti a legare il suono alla parola, ma la loro personalissima soluzione non può valere per tutti. Sono esistiti, e speriamo ne sorgano altri in avvenire, grandissimi musicisti del teatro che si servono della parola scritta come d’un semplice punto d’appoggio: Mozart, Bellini e Verdi, per esempio. Il loro ideale non era quello di Strawinski, una lingua morta, un testo latino quasi indecifrabile al gran pubblico, ma un discorso chiaro e neutro al quale si potesse far violenza. Ciò resta vero anche se Mozart amò i libretti dell’abate Da Ponte e Bellini quelli di Felice Romani.
E Verdi? Si è un poco esagerato sugli orrori delle parole da lui musicate. «L’orma dei passi spietati», tristamente famosa, non riesce a muovermi a sdegno. Guai se leggessimo Shakespeare a questa stregua: non venitemi a dire, per carità!, che l’orma si vede e non si sente. D’altronde anche i vecchi libretti, fatti apposta per essere musicati, confermano, quando toccano qualche espressione riuscita, che poesia e musica camminano per conto proprio e che il loro incontro resta affidato a fortune occasionali. Peggio quando raggiungono involontariamente il clima del surreale. Conoscevo un uomo (un uomo in tutto il resto normalissimo) che provava il bisogno di ripetere da cento a centocinquanta volte al giorno un verso che era diventato il suo intercalare favorito: «Stolto! ei corre alla Negroni!». Lo diceva anche al telefono, in conversazioni di carattere commerciale. Quando gli rivelai che si trattava della Lucrezia Borgia egli impallidì, geloso del suo segreto, e mi disse che mai avrebbe sentito quell’opera per non provare la delusione di una musica soprammessa alle sue «divine parole». Scansato da tutti come un appestato, egli finì per stringere amicizia con un tale che ripeteva a intermittenza «La nostra tomba è un’ara» (variante della foscoliana «vostra tomba») e con un terzo maniaco che aveva scelto il più lungo intercalare ch’io ricordi: «Speriamo di morire prima che le Pleiadi si colchino». Doveva essere un classicista a spasso, un professore in pensione. I tre
uomini, vistisi porre al bando per la loro incorreggibile, benché innocua ed epigrafica, ecolalia, finirono per incontrarsi clandestinamente in una camera d’affitto dove potevano emettere a ripetizione il loro verso preferito; e dove poi (il fatto avvenne una quindicina d’anni fa) furono arrestati, accusati di congiurare contro il regime e proposti per il confino.
Dopo tale disavventura il trio si sciolse e oggi non saprei dire se qualcuno dei suoi componenti sopravviva. Inconsapevoli testimoni della magica autosufficienza della Parola, i tre sventurati sarebbero assai sorpresi di riconoscersi in uno scritto che sfiora, ma non pretende di risolvere la vessata questione dei rapporti, coniugali ed extra-coniugali, tra il Verbo e la Musica.
Aggiunto 15 minuti più tardi:
Le parole messe in musica, le parole cantate non piacciono ai più raffinati cultori dell’arte dei suoni. Fra coloro che ancora le sopportano, molti preferiscono le forme corali, in cui la parola sparisce, altri amano che della voce giunga solo l’arabesco sonoro, senza che alcuna sillaba si distingua, altri ancora (i meno) vorrebbero che la parola musicata giungesse a noi sempre scandita, chiara, intelligibile. Sono i partitanti del così detto «recitar cantando», italianissimo precetto. Mi unirei volentieri a questi ultimi se il gioco valesse come suol dirsi la candela, se fossi certo che la musica può in certi casi far sprizzare dalla poesia, che in se stessa è già musica, una musica di secondo grado degna, o non indegna, della prima.
So di sfiorare un problema sul quale esiste tutta una letteratura, che purtroppo conosco solo in minima parte. È musicabile la poesia? E qual genere di poesia? E fino a che punto? E in quale misura le parole dovranno conservare la loro autonomia e lasciarsi intendere dall’ascoltatore? In genere la recente tradizione operistica ha ignorato il problema e ha considerato la parola come il necessario pretesto a far sì che lo strumento «voce umana» possa entrare nel gioco degli altri strumenti e farsi valere. Ma esiste anche una scuola che va dai nostri grandi cinquecentisti fino a Debussy e magari fino allo Schönberg di Pierrot lunaire, e che pretende di avere un rispetto assoluto della parola, di creare ad essa il giusto prolungamento o alone sonoro, senza distruggerne l’individualità. Questi teorici, più o meno consapevoli, del canto recitato hanno però finito con l’ammettere che solo una «certa poesia» è musicabile e la scelta dei loro testi rivela chiaramente ch’essi si sono quasi sempre posti sulla via del compromesso. Musicavano una volta ballatette, poesiole d’Arcadia, strofette scritte apposta per la musica; affrontano oggi drammi di scarso valore poetico (Pelléas et Mélisande) o liriche di una vacuità addirittura inconcepibile, come la suite del Pierrot lunaire, opera di un Albert Giraud
che deve al musicista viennese il suo insperato repêchage. Il peggior partito fu quello preso dai musici che scrissero da sé i propri testi o libretti: incerti fra la doppia vocazione, poetica e musicale, essi si lasciarono ipnotizzare da parole orrende e solo si salvarono permettendo che le voci andassero sommerse nella selva del grande golfo mistico. Fa eccezione, parzialmente, Riccardo Wagner, ma ciò avviene per la superba natura del suo genio, e non perché in lui non si avverta una soverchiante prepotenza subìta dalla parola.
Se dal piano delle scuole e delle teorie ci spostiamo all’osservazione dei fatti, noi vediamo che almeno dall’Ottocento in poi un sapiente compromesso regola tutte le esecuzioni di musica vocale. Fatta eccezione per moltissimi Lieder o romanze da camera, o per qualche recitativo d’opera comica, o per alcuni superbi frammenti del Boris, la soluzione pratica del difficile problema è sempre la stessa; le parole ci sono e non ci sono, si sentono e non si sentono, aiutano o danneggiano l’effetto, a seconda dei casi. Si è formata, anche in questo campo, una tradizione che i migliori interpreti rispettano quasi d’istinto. È doveroso far sentire le parole in certi miracolosi «attacchi» che anche poeticamente hanno una freschezza primaticcia degna del nostro Duecento («Casta Diva che inargenti...», «La rivedrà nell’estasi / raggiante di pallore...») o all’inizio di qualche incalzante proposta tematica («Fuggi fuggi, per l’orrida via / sento l’orma dei passi spietati...»). In altri casi tutto è affidato all’intuizione e alle possibilità dell’artista. I ghirigori acrobatici di Rosina non possono essere pronunciati come le sillabe di un Lied di Schubert; è giusto che Vasco de Gama liberi dal vago tremolo orchestrale le suggestive parole «O paradiso dall’onde uscito», ma è altrettanto lecito che il grande navigatore ci nasconda gli ulteriori sviluppi della sua sorpresa, specie quand’essi restano affidati alla sola forza di penetrazione del si naturale o del do sopra le righe. L’invettiva di Rigoletto «Solo per me l’infamia» è un suono di gong più che un suono di sillabe umane: guai a pronunciare troppo, guai a turbare la piena rotondità di quel rombo da giorno del Giudizio. Viceversa, tutte le volte che un tema è annunciato in anticipo da uno o più strumenti, l’attacco delle prime parole deve riuscire nitidissimo. Quando il vecchio Sir Giorgio, nei Puritani, incide a gran voce «Il rivale salvar tu puoi...», il pubblico è felice di sentire incarnarsi in parole un disegno melodico a lui già noto: ma subito dopo le acque si intorbidano e il tema, ripreso da una voce troppo uguale, quella di Sir Riccardo, non riesce a far corpo con le parole come
«Fu voler del Parlamento», che fanno veramente cascar l’asino. Non che sia un verso peggiore di tanti altri; ma le parole troppo astratte o troppo tecniche o troppo specifiche sopportano male la musica; ed evidentemente questo quasi carducciano parlamento non fa eccezione. (È una delle tante meritate disgrazie dell’istituto parlamentare; ma lasciamo correre...) I problemi della parola in musica, del recitar cantando o del cantare non recitando affatto restano dunque aperti e insolubili: Mussorgski, Debussy e alcuni autori di canti negri sembrano, fra i moderni, coloro che meglio sono riusciti a legare il suono alla parola, ma la loro personalissima soluzione non può valere per tutti. Sono esistiti, e speriamo ne sorgano altri in avvenire, grandissimi musicisti del teatro che si servono della parola scritta come d’un semplice punto d’appoggio: Mozart, Bellini e Verdi, per esempio. Il loro ideale non era quello di Strawinski, una lingua morta, un testo latino quasi indecifrabile al gran pubblico, ma un discorso chiaro e neutro al quale si potesse far violenza. Ciò resta vero anche se Mozart amò i libretti dell’abate Da Ponte e Bellini quelli di Felice Romani.
E Verdi? Si è un poco esagerato sugli orrori delle parole da lui musicate. «L’orma dei passi spietati», tristamente famosa, non riesce a muovermi a sdegno. Guai se leggessimo Shakespeare a questa stregua: non venitemi a dire, per carità!, che l’orma si vede e non si sente. D’altronde anche i vecchi libretti, fatti apposta per essere musicati, confermano, quando toccano qualche espressione riuscita, che poesia e musica camminano per conto proprio e che il loro incontro resta affidato a fortune occasionali. Peggio quando raggiungono involontariamente il clima del surreale. Conoscevo un uomo (un uomo in tutto il resto normalissimo) che provava il bisogno di ripetere da cento a centocinquanta volte al giorno un verso che era diventato il suo intercalare favorito: «Stolto! ei corre alla Negroni!». Lo diceva anche al telefono, in conversazioni di carattere commerciale. Quando gli rivelai che si trattava della Lucrezia Borgia egli impallidì, geloso del suo segreto, e mi disse che mai avrebbe sentito quell’opera per non provare la delusione di una musica soprammessa alle sue «divine parole». Scansato da tutti come un appestato, egli finì per stringere amicizia con un tale che ripeteva a intermittenza «La nostra tomba è un’ara» (variante della foscoliana «vostra tomba») e con un terzo maniaco che aveva scelto il più lungo intercalare ch’io ricordi: «Speriamo di morire prima che le Pleiadi si colchino». Doveva essere un classicista a spasso, un professore in pensione. I tre
uomini, vistisi porre al bando per la loro incorreggibile, benché innocua ed epigrafica, ecolalia, finirono per incontrarsi clandestinamente in una camera d’affitto dove potevano emettere a ripetizione il loro verso preferito; e dove poi (il fatto avvenne una quindicina d’anni fa) furono arrestati, accusati di congiurare contro il regime e proposti per il confino.
Dopo tale disavventura il trio si sciolse e oggi non saprei dire se qualcuno dei suoi componenti sopravviva. Inconsapevoli testimoni della magica autosufficienza della Parola, i tre sventurati sarebbero assai sorpresi di riconoscersi in uno scritto che sfiora, ma non pretende di risolvere la vessata questione dei rapporti, coniugali ed extra-coniugali, tra il Verbo e la Musica.
Miglior risposta
Ciao Giovanna,
prova a fare tu l'esercizio e noi ti aiutiamo con correzioni e consigli.
Ciao,
Giorgia.
prova a fare tu l'esercizio e noi ti aiutiamo con correzioni e consigli.
Ciao,
Giorgia.
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