Tema x domani...urgenteee!!help me!

Faby_Freak
ciao..
dv fare un tema x dmn
su
foscolo, leopardi e manzoni...
dv raccontare un pò di loro e alla fine dv dire ki preferisco e xkè...
potete aiutarmi??
pleasee

P.S. direi di preferire leopardi credo...bòH

Risposte
Faby_Freak
graxiee!!

klight
In ogni epoca storica, l’uomo ha sempre desiderato la felicità, eppure, spesso essa non si trova che nella propria mente, nel proprio cuore e nella propria fantasia. Insomma, nelle illusioni.
Specialmente in un’epoca storica travagliata come quella a cavallo tra i secoli 1700 e 1800, in cui l’individuo prendeva coscienza dei propri diritti e si accendeva dei valori individuali (rimanendo però singolo e impotente di fronte ai cambiamenti della storia), l’illusione fu il rifugio di poeti ed artisti. Essi divennero i portavoce del disagio, ed Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi furono in Italia gli esponenti maggiori tra i cantori di questo malessere. Entrambi possono essere considerati come “vittime” del proprio tempo, ma soprattutto come uomini in grado di sentire, e che, nonostante una profonda introspezione, non parlano individualmente, ma si rivolgono all’universo intero, facendosi portavoce dei sogni e delle speranze che ognuno ha dentro, così come del disincanto che da esse deriva.
Ugo Foscolo, affascinato in un primo tempo dallo spirito giacobino, ma infine deluso dal rovescio della sorte che aveva visto Napoleone trasformarsi da liberatore a tiranno, trovò rifugio nell’illusione, e la pose come risposta a quell’inquietudine che deriva dal conflitto tra ragione e cuore. Egli si rifaceva spesso al mondo antico, scegliendo il mito come rappresentazione di illusioni ancora intatte, descrivendo quel mondo di favola come luogo d’ingenua felicità, di perfezione. Ma, in ogni caso, questo rifugiarsi in qualcosa di già caduto, non può che accentuare l’amarezza che proviene dal disincanto, il drastico distacco tra il sogno e la realtà, tra i sentimenti dell’uomo e la crudeltà del mondo. Jacopo Ortis, infatti, sceglie la via del suicidio perché non riesce più a sopportare la propria sconfitta, nonostante siano state proprio le illusioni, o sogni e le speranze a dargli l’impulso per andare avanti.
Anche Leopardi si sentiva profondamente a disagio nei confronti della propria epoca e della società in cui si trovava. Egli lottava tra il silenzio a cui avrebbe voluto abbandonarsi, come ogni uomo, disilluso, avrebbe l’istinto di fare, e quella voglia di combattere per rimanere in piedi e riscattarsi dalla umana condizione di “mezze belve”.
L’uomo si trova a fare i conti con una natura che gli è indifferente, se non, addirittura, avversa, ed ogni essere vivente sembra essere sempre schiacciato da una forza più grande di lui, che per quanto possa resistere rimane sempre fragile, e mortale. Ne “La ginestra”, per esempio, il poeta sprona gli uomini della propria epoca, almeno a riconoscere la bassezza e la futilità di quel tempo, confrontando l’aridità dei contemporanei con i valori più saldi dell’antichità. Ma poi, alla fine, la forza della natura è capace di distruggere l’uomo, il suo orgoglio e tutte le sue illusioni.
Anche quelle antiche città che hanno visto le vite di tanti uomini, la loro storia, gli imperi, possono essere spazzate via come un nonnulla da qualsiasi capriccio di questa natura beffarda. E l’uomo, impotente, si trova ancora davanti agli occhi la caducità delle illusioni e la futilità di credere in qualcosa. Eppure, l’illusione viene vista dai due poeti come uno stato umano inevitabile, senza il quale non si riuscirebbe a vivere, anzi, non si riuscirebbe ad accettare la vita. L’illusione è dunque come un filo posto in cielo, su cui gli uomini, come equilibristi, camminano non curandosi del mondo sottostante, ma preoccupandosi solo di non cadere giù.
Eppure basta così poco per sbilanciarsi…


Il dolore nell’era romantica in Foscolo, Manzoni e Leopardi

Una delle caratteristiche principali del movimento romantico è il dolore, in cui si vede il male o la malattia del diciannovesimo secolo. Questo dolore è dovuto al fatto che l’uomo sogna una realtà felice ma trova una società che frena i suoi grandi sogni.
Il dolore è un'esperienza che ci mostra via via i volti dei nostri stati effettivi. E' una condizione dell'animo, una sensazione interna del nostro essere, attraverso la quale scappiamo dal mondo. Il dolore non è solo una malattia dell'animo, ma è anche una via di accesso alla profondità e alla problematicità dell'anima. Attraverso il dolore, la superficie della conoscenza si rompe e si apre l'abisso della profondità delle cose, ci appare la loro possibile insensatezza.
Nel Foscolo è visibilissima quell'aria di irrequieto dolore, quel desiderio di pace e di oblio, che fu comune agli uomini e agli scrittori della generazione romantica.
Più di una volta affermò che l'uomo fosse nato più al dolore che al piacere, infatti sia al giovane che ama, come ai pessimisti, tutto appare sostanzialmente vano.
Infatti scrisse ad Antognetta Fagnani-Arese, con cui ebbe una relazione: « Tutto è follia... e quando anche il soave sogno dei nostri amori terminerà, credimi, io calerò il sipario. La gloria, il sapere, l'amicizia, le ricchezze, tutti fantasmi, che hanno recitato fino ad ora nella mia commedia, non fanno più per me. Io calerò il sipario, e lascerò che gli uomini si affannino per fuggire i dolori di un'esistenza, che non sanno troncare ». L'infelicità è inerente alla natura dell’uomo. Anche l'uomo apparentemente felice è in realtà un misero. « Quando la malinconia si impadronisce di me — scriveva ancora alla Fagnani-Arese — io m'immagino tutto quello che potrebbe rendermi beato, e ch'è il voto di tutti i mortali...; mi figuro di possederlo; e sento ch'io sarei egualmente e perpetuamente infelice» Visto che il cuore suggerisce al poeta che la vita così sostanzialmente misera ha pure in sé una qualche fonte di consolazione e gli uomini si distruggerebbero l'un l'altro se non nascesse in essi la virtù della compassione. Le Grazie saranno in gran parte l'espressione poetica di tali concetti, e diventeranno la correzione dell'Ori, che è la sintesi del pessimismo giovanile e sentimentale dell'autore.
La capacità di Leopardi di avvertire certe contraddizioni perfino della società contemporanea, era legata anche alla sua malattia, alla sua sofferenza fisica. Ecco, a Leopardi il dolore ha dato una capacità di comprensione del mondo. Però questo non significa che il dolore fosse una forma privilegiata: avrebbe preferito non soffrire. Allora, chi si serve del dolore per conoscere, riesce a farlo solo se protesta duramente contro il dolore stesso. Il dolore è un'esperienza necessaria, inevitabile degli esseri umani, che però gli uomini riescono a vivere, a capire fino in fondo solo se in qualche modo protestano anche contro di essa, cercando di uscirne. Il confronto col dolore è anche - e questo nella poesia si sente particolarmente -, è anche una lotta contro il dolore, un modo di controllarlo, di servirsene per approfondire l'esperienza, per capire l'io e il mondo, ma anche per uscirne.
L’esperienza dolorosa della vita per Leopardi giunge al suo apice nel 1819 in una lettera al Giordani parla di un crescente travaglio fisico e spirituale, di un’orrida malinconia, della fatica degli studi, dell’odio contro la famiglia e Recanati.
Per Leopardi tra gli esseri il più infelice è l’uomo, perché la sua infelicità è soprattutto coscienza dell’infelicità stessa e non c’è illusione che riesca a far tacere questa verità
Il pessimismo leopardiano può essere definito come la convinzione ferma, costante e assoluta che ogni essere ubbidisce ad una legge di dolore, alla quale è impossibile contrastare.
La concezione manzoniana della vita è simile, per molti aspetti, a quella del Foscolo. Anch’egli è convinto dell'infelicità dell'uomo e vede ovunque e in ogni tempo il dolore, a cui sono soggetti gli individui, le famiglie, interi popoli. Nel periodo della giovinezza, quando egli rimase sostanzialmente lontano dal pensiero religioso ed aderì alla filosofia illuministica, la vita umana gli apparve come dominata, oltre che dal dolore, dal mistero, dal nulla; tuttavia questo pessimismo, che occupa saldamente lo spirito del Manzoni prima della conversione, non è tale da mortificare la sua energia morale e la fede in ideali che egli si trovò ad avere spontaneamente ed irrobustì ed approfondì con le sue riflessioni e con la sua adesione all'aspetto più serio e profondo della sensibilità e del pensiero della sua epoca. La fede in Dio indusse il Manzoni a considerare il dolore non come cieco ed inutile, ma come una caratteristica naturale e significativa della condizione umana. Il poeta giunge a formulare il concetto di provvida sventura, ossia vede nella sofferenza un segno della presenza di Dio, che mette alla prova le sue creature ma non le abbandona. Il dolore è anche un segno dell'amore di Dio, poichè redime e santifica la vita, o rende degni di una vita migliore coloro che lo sopportano con rassegnazione e con fede. In effetti, nella storia del Manzoni non c'è soluzione di continuità fra il periodo che precede e quello che segue il ritorno alla fede cattolica, poichè la conversione rappresenta da una parte l'inizio di un esame più profondo della vita (che gli appare sotto una luce più severa e dignitosa, come una missione) e dall'altra determina una conferma dei suoi ideali di giustizia, di libertà e di progresso e delle sue più nobili convinzioni.
Spero ti sia di aiuto!

lino17
http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_761552279/Foscolo_Ugo.html vedi qui foscolo
http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_761561858/Leopardi_Giacomo.html vedi qui x leopardi
http://it.encarta.msn.com/encyclopedia_761563449/Manzoni_Alessandro.html vedi qui x manzoni

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