Parafrasi Odissea libro V!!!!!! PLEASEEE VENITEEE!!!!
allora buongiorno a tutti!!!! mi aiutare a fare questa parafrasi???
vi posto pure il testo!!!
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché della ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
"Sciagurato", gli disse, in questi pianti
"Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioia dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno".
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose
Con alate parole, "altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Del difficile mar flutti tremendi,
Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
Che da Giove partì, varcano appena.
No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non salirò, dove tu pria non degni
Giurare a me con giuramento grande,
Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".
Sorrise l'Atlantìde, e, della mano
Divina carezzandolo, la lingua
Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
Quali parole mi parlasti! Or sappia
Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui né più solenne han, né più sacro
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
Pietosa, non di ferro, in me s'annida".
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
Colà, ond'era l'Argicida sorto,
S'adagiò il Laerziade; e la dea molti
Davante gli mettea cibi e licori,
Quali ricever può petto mortale.
Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle
L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.
Come ambo paghi per la mensa furo,
Con tali accenti cominciava l'alta
Di Calipso beltade: "O di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
Così tu parti adunque, e alla nativa
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.
Ma se tu scorger col pensier potessi
Per quanti affanni ti comanda il fato
Prima passar, che al patrio suolo arrivi
Questa casa con me sempre vorresti
Custodir, ne son certa, e immortal vita
Da Calipso accettar: benché sì viva
Brama t'accenda della tua consorte,
A cui giorno non è che non sospiri.
Pur non cedere a lei né di statura
Mi vanto, né di volto; umana donna
Mal può con una dea, né le s'addice,
Di persona giostrare, o di sembianza".
"Venerabile iddia", riprese il ricco
D'ingegni Ulisse, "non voler di questo
Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,
Che la saggia Penelope tu vinci
Di persona non men che di sembianza,
Giudice il guardo che ti stia di contra.
Ella nacque mortale; e in te né morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
Questo il desìo che mi tormenta sempre:
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge del mio natal mi riconduca.
Che se alcun me percoterà de' numi
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
Già ne sostenni; e sosterronne ancora".
Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
Si ritira
vi posto pure il testo!!!
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
la severa imbasciata, il prode Ulisse
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
Del mar in su la sponda, ove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
Ché della ninfa non pungealo amore:
E se le notti nella cava grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
Con dolori, con gemiti con pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
"Sciagurato", gli disse, in questi pianti
"Più non mi dar, né consumare i dolci
Tuoi begli anni così: la dipartita,
Non che vietarti, agevolarti io penso.
Su via, le travi nella selva tronche,
Larga e con alti palchi a te congegna
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
Io di candido pan, che l'importuna
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
E di rosso licor, gioia dell'alma,
La carcherò: ti vestirò non vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
Con cui di senno in prova io già non vegno".
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose
Con alate parole, "altro di fermo,
Non il congedo mio, tu volgi in mente,
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
Del difficile mar flutti tremendi,
Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
Che da Giove partì, varcano appena.
No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
Non salirò, dove tu pria non degni
Giurare a me con giuramento grande,
Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".
Sorrise l'Atlantìde, e, della mano
Divina carezzandolo, la lingua
Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
Quali parole mi parlasti! Or sappia
Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
Di cui né più solenne han, né più sacro
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
Pietosa, non di ferro, in me s'annida".
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
Colà, ond'era l'Argicida sorto,
S'adagiò il Laerziade; e la dea molti
Davante gli mettea cibi e licori,
Quali ricever può petto mortale.
Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle
L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.
Come ambo paghi per la mensa furo,
Con tali accenti cominciava l'alta
Di Calipso beltade: "O di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
Così tu parti adunque, e alla nativa
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.
Ma se tu scorger col pensier potessi
Per quanti affanni ti comanda il fato
Prima passar, che al patrio suolo arrivi
Questa casa con me sempre vorresti
Custodir, ne son certa, e immortal vita
Da Calipso accettar: benché sì viva
Brama t'accenda della tua consorte,
A cui giorno non è che non sospiri.
Pur non cedere a lei né di statura
Mi vanto, né di volto; umana donna
Mal può con una dea, né le s'addice,
Di persona giostrare, o di sembianza".
"Venerabile iddia", riprese il ricco
D'ingegni Ulisse, "non voler di questo
Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,
Che la saggia Penelope tu vinci
Di persona non men che di sembianza,
Giudice il guardo che ti stia di contra.
Ella nacque mortale; e in te né morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
Questo il desìo che mi tormenta sempre:
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
Piagge del mio natal mi riconduca.
Che se alcun me percoterà de' numi
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
Già ne sostenni; e sosterronne ancora".
Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
Si ritira
Risposte
prego alla prossima
oddio grazie^^ sei una santa!!!! grazie davvero tanto!
si ti sto facendo la parafrasi del testo che hai messo...
Aggiunto 34 minuti più tardi:
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
l'augusta ninfa dopo aver udito
la severa imbasciata, il prode Ulisse
le parole di Saturno, si avvioò a cercare il prode
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
ulisse
Del mar in su la sponda, ove le guance
per il mare sulla sponda dove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
le si rigavano di lascrime di pianto e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
con il penisero del suo ritorno i suo dolci anni
Ché della ninfa non pungealo amore:
che della ninda non lo pungeva amore:
E se le notti nella cava grotta
e se le notti nlla grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
con lei voglioso egli non passa con altrettanta voglia di lei
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
cosa altro puo fare un eroe? me quando arriva il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
sulle spiagge addormentato e sugli scogli appuntiti
Con dolori, con gemiti con pianti
cn dolori, gmeiti e pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
si strugge l'anime e infecondomare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
guarda lui che lacrima
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
Calipso, dea illustre, gli sta dietro:
"Sciagurato", gli disse, in questi pianti
sciagurato gli disee, con questi pianti
"Più non mi dar, né consumare i dolci
non mi dia più nulla e non puoi consumare i tuoi migliori anni
Tuoi begli anni così: la dipartita,
così io la tua partenza
Non che vietarti, agevolarti io penso.
non voglio vietarti, ma penso di aiutarti
Su via, le travi nella selva tronche,
su via, prendi letravi dai tronchi della foresta
Larga e con alti palchi a te congegna
fai una zattera larga e con alti palgni come a te piace
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
che sul mar ti porti
Io di candido pan, che l'importuna
io ti darò del bianco pane che possa
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
possa sfamarti dall'inopportuna fame, io di onda purissima
E di rosso licor, gioia dell'alma,
e di rosso liquore, gioia dell'anima,
La carcherò: ti vestirò non vili
la caricherò, ti vestito di panni nn vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
e manderò da te un vento
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
che ti spinga verso le tue terre illeso
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
solo che questo piaccia agli dei
Con cui di senno in prova io già non vegno".
con cui di senno io nonvengo messa a confronto (controllalo col tuo libro)
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
che fanno capricci perche tu ulisse non sei mai
Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose
stato vinto dalle svenutre, e o dei rispose
Con alate parole, "altro di fermo,
con parole alate, altro di sicuro
Non il congedo mio, tu volgi in mente
non il mio congedo tu hai in mente
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
perchè vuoi che su una tale barca iopassi i grossi
Del difficile mar flutti tremendi,
e tremendi flutti del mare
Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi
che le navi più forti con grandi fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
e felici delvendo amico di giove,
Che da Giove partì, varcano appena.
riescono appena a solcare.
No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
no, non salirè mai su una barca fatto in questo modo
Non salirò, dove tu pria non degni
dove tu per prima non ti degni
Giurare a me con giuramento grande,
di giurarmi , con grande giuramento
Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".
che il tuo cuore non voglia arrecarmi alcun danno.
Sorrise l'Atlantìde, e, della mano
sorrise l'atlantide e lo accarezzo con la mano
Divina carezzandolo, la lingua
divina e con la sua lingua
Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,
sciolse questa voce: sei cattivo
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
e non scordi mai ciò che faccio per te
Quali parole mi parlasti! Or sappia
con quali parole mi parlasti! ora sappi che
Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
la terra e il cielo al di sopra e l'altra che
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
sottoterra si sviluppa, acqua di stige
Di cui né più solenne han, né più sacro
di cui ninte di più solenne né di più sacro giuramento
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
hanno gli dei beati; sappi
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
che il mio cuore non trama nessun danno contro di te
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
quello anzi io pennso e ti chiedo che io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
....(controlla il libro e anche i versi sopra che sono un po confusi)
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
la mia mente vuole giustiziae un'anima pietosa
Pietosa, non di ferro, in me s'annida".
non la guerra nel mio cuore si annida
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta
detto questo abbandono in fretta la spiaggia
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
e ulisse lasegui. Arrivati alla grotta
Colà, ond'era l'Argicida sorto,
la dove era nata l'argicida
S'adagiò il Laerziade; e la dea molti
si adagiò il l e la dea lgi mmise davanti
Davante gli mettea cibi e licori,
moli cibi e liquori (controlla licori e semmai correggi pure sopra)
Quali ricever può petto mortale.
che puo ricevere un petto mortale
Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle
poi gli si sedette difornte e le sue ancelle
L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.
le servirono ambrosia e il rosso nettare
Come ambo paghi per la mensa furo,
quando entrambi furono sazi
Con tali accenti cominciava l'alta
Calipso cominciò a parlare con questi accenti
Di Calipso beltade: "O di Laerte
o figlio divino di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
ingengoso ulisse
Così tu parti adunque, e alla nativa
così tu parti e torni alla tua
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
terra che ti ha vistonascere e vai alle case dei tuoi padri?
Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.
vai se così ti piace e sii felice
Ma se tu scorger col pensier potessi
ma se il tuo pensiero potesse scorgere
Per quanti affanni ti comanda il fato
quante nuove fatiche ti manda il destino
Prima passar, che al patrio suolo arrivi
prima che tu possa arrivare alla tua terra
Questa casa con me sempre vorresti
vorresti rimanere sempre con me in questa casa
Custodir, ne son certa, e immortal vita
custordirla, e accettare da me la vita immortale
Da Calipso accettar: benché sì viva
ne sono certa, benche questo deisderio
Brama t'accenda della tua consorte,
così vivo della tua consorte di accende
A cui giorno non è che non sospiri.
a cui sospirti tutti i giorni
mi vanto di non essere meno di
non cedere a lei ne di statura
lei né di statura
Mi vanto, né di volto; umana donna
ne di volto, una donna umana
Mal può con una dea, né le s'addice,
non puoi niente contro una dea e non le si addice
Di persona giostrare, o di sembianza".
ne giocare di persona che di sembianza
"Venerabile iddia", riprese il ricco
venerabile dea, disse l'ingegnoso ulisse
D'ingegni Ulisse, "non voler di questo
Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,
non vorrei sdegnarti si questo io conosco benissimo
Che la saggia Penelope tu vinci
che tu sei superiore sia di persona che di sembianze
Di persona non men che di sembianza,
alla saggia penelope
Giudice il guardo che ti stia di contra.
e lo giudica il mio sguardo che ti sta davanti
Ella nacque mortale; e in te né morte
ella è mortale e in te non possono niente ne la morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
ne la vecchiaia, ma il mio pensiero è questo;
Questo il desìo che mi tormenta sempre:
questo è il desiderio che sempre mi tormenta
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
vedere il giorno finale che mi conduce
Piagge del mio natal mi riconduca.
alle spiagge della mia città natale
Che se alcun me percoterà de' numi
che se qualcuno dei numi mi percuoterà
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
per le onde del mare, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
la mia anima contro i disastri
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
molti sopra il mare molti per le armi
Già ne sostenni; e sosterronne ancora".
gia ne ho sostenuti e ne sosterro ancora
Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
disse, e il sole tramontò, si ritarono
Si ritira
Aggiunto 34 minuti più tardi:
L'augusta ninfa, del Saturnio udita
l'augusta ninfa dopo aver udito
la severa imbasciata, il prode Ulisse
le parole di Saturno, si avvioò a cercare il prode
Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso
ulisse
Del mar in su la sponda, ove le guance
per il mare sulla sponda dove le guance
Di lagrime rigava, e consumava
le si rigavano di lascrime di pianto e consumava
Col pensier del ritorno i suoi dolci anni;
con il penisero del suo ritorno i suo dolci anni
Ché della ninfa non pungealo amore:
che della ninda non lo pungeva amore:
E se le notti nella cava grotta
e se le notti nlla grotta
Con lei vogliosa non voglioso passa,
con lei voglioso egli non passa con altrettanta voglia di lei
Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno,
cosa altro puo fare un eroe? me quando arriva il giorno,
Su i lidi assiso e su i romiti scogli,
sulle spiagge addormentato e sugli scogli appuntiti
Con dolori, con gemiti con pianti
cn dolori, gmeiti e pianti
Struggesi l'alma, e l'infecondo mare,
si strugge l'anime e infecondomare,
Lagrime spesse lagrimando, agguarda.
guarda lui che lacrima
Calipso, illustre dea, standogli appresso:
Calipso, dea illustre, gli sta dietro:
"Sciagurato", gli disse, in questi pianti
sciagurato gli disee, con questi pianti
"Più non mi dar, né consumare i dolci
non mi dia più nulla e non puoi consumare i tuoi migliori anni
Tuoi begli anni così: la dipartita,
così io la tua partenza
Non che vietarti, agevolarti io penso.
non voglio vietarti, ma penso di aiutarti
Su via, le travi nella selva tronche,
su via, prendi letravi dai tronchi della foresta
Larga e con alti palchi a te congegna
fai una zattera larga e con alti palgni come a te piace
Zattera, che sul mar fosco ti porti.
che sul mar ti porti
Io di candido pan, che l'importuna
io ti darò del bianco pane che possa
Fame rintuzzi, io di purissim'onda,
possa sfamarti dall'inopportuna fame, io di onda purissima
E di rosso licor, gioia dell'alma,
e di rosso liquore, gioia dell'anima,
La carcherò: ti vestirò non vili
la caricherò, ti vestito di panni nn vili
Panni, e ti manderò da tergo un vento,
e manderò da te un vento
Che alle contrade tue ti spinga illeso,
che ti spinga verso le tue terre illeso
Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia,
solo che questo piaccia agli dei
Con cui di senno in prova io già non vegno".
con cui di senno io nonvengo messa a confronto (controllalo col tuo libro)
Raccapricciossi a questo il non mai vinto
che fanno capricci perche tu ulisse non sei mai
Dalle sventure Ulisse, e: "O dea", rispose
stato vinto dalle svenutre, e o dei rispose
Con alate parole, "altro di fermo,
con parole alate, altro di sicuro
Non il congedo mio, tu volgi in mente
non il mio congedo tu hai in mente
Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi
perchè vuoi che su una tale barca iopassi i grossi
Del difficile mar flutti tremendi,
e tremendi flutti del mare
Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi
che le navi più forti con grandi fianchi
Munite, e liete di quel vento amico
e felici delvendo amico di giove,
Che da Giove partì, varcano appena.
riescono appena a solcare.
No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto,
no, non salirè mai su una barca fatto in questo modo
Non salirò, dove tu pria non degni
dove tu per prima non ti degni
Giurare a me con giuramento grande,
di giurarmi , con grande giuramento
Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce".
che il tuo cuore non voglia arrecarmi alcun danno.
Sorrise l'Atlantìde, e, della mano
sorrise l'atlantide e lo accarezzo con la mano
Divina carezzandolo, la lingua
divina e con la sua lingua
Sciolse in tai voci: "Un cattivello sei,
sciolse questa voce: sei cattivo
Né ciò che per te fa, scordi giammai.
e non scordi mai ciò che faccio per te
Quali parole mi parlasti! Or sappia
con quali parole mi parlasti! ora sappi che
Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra,
la terra e il cielo al di sopra e l'altra che
Che sotterra si volve, acqua di Stige,
sottoterra si sviluppa, acqua di stige
Di cui né più solenne han, né più sacro
di cui ninte di più solenne né di più sacro giuramento
Gl'Iddii beati giuramento; sappia,
hanno gli dei beati; sappi
Che nessuno il mio cor danno t'ordisce.
che il mio cuore non trama nessun danno contro di te
Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io
quello anzi io pennso e ti chiedo che io
Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi.
....(controlla il libro e anche i versi sopra che sono un po confusi)
Giustizia regge la mia mente, e un'alma
la mia mente vuole giustiziae un'anima pietosa
Pietosa, non di ferro, in me s'annida".
non la guerra nel mio cuore si annida
Ciò detto, abbandonava il lido in fretta
detto questo abbandono in fretta la spiaggia
E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta,
e ulisse lasegui. Arrivati alla grotta
Colà, ond'era l'Argicida sorto,
la dove era nata l'argicida
S'adagiò il Laerziade; e la dea molti
si adagiò il l e la dea lgi mmise davanti
Davante gli mettea cibi e licori,
moli cibi e liquori (controlla licori e semmai correggi pure sopra)
Quali ricever può petto mortale.
che puo ricevere un petto mortale
Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle
poi gli si sedette difornte e le sue ancelle
L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro.
le servirono ambrosia e il rosso nettare
Come ambo paghi per la mensa furo,
quando entrambi furono sazi
Con tali accenti cominciava l'alta
Calipso cominciò a parlare con questi accenti
Di Calipso beltade: "O di Laerte
o figlio divino di Laerte
Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse,
ingengoso ulisse
Così tu parti adunque, e alla nativa
così tu parti e torni alla tua
Terra e alle case de' tuoi padri vai?
terra che ti ha vistonascere e vai alle case dei tuoi padri?
Va, poiché sì t'aggrada, e va felice.
vai se così ti piace e sii felice
Ma se tu scorger col pensier potessi
ma se il tuo pensiero potesse scorgere
Per quanti affanni ti comanda il fato
quante nuove fatiche ti manda il destino
Prima passar, che al patrio suolo arrivi
prima che tu possa arrivare alla tua terra
Questa casa con me sempre vorresti
vorresti rimanere sempre con me in questa casa
Custodir, ne son certa, e immortal vita
custordirla, e accettare da me la vita immortale
Da Calipso accettar: benché sì viva
ne sono certa, benche questo deisderio
Brama t'accenda della tua consorte,
così vivo della tua consorte di accende
A cui giorno non è che non sospiri.
a cui sospirti tutti i giorni
mi vanto di non essere meno di
non cedere a lei ne di statura
lei né di statura
Mi vanto, né di volto; umana donna
ne di volto, una donna umana
Mal può con una dea, né le s'addice,
non puoi niente contro una dea e non le si addice
Di persona giostrare, o di sembianza".
ne giocare di persona che di sembianza
"Venerabile iddia", riprese il ricco
venerabile dea, disse l'ingegnoso ulisse
D'ingegni Ulisse, "non voler di questo
Meco sdegnarti; appien conosco io stesso,
non vorrei sdegnarti si questo io conosco benissimo
Che la saggia Penelope tu vinci
che tu sei superiore sia di persona che di sembianze
Di persona non men che di sembianza,
alla saggia penelope
Giudice il guardo che ti stia di contra.
e lo giudica il mio sguardo che ti sta davanti
Ella nacque mortale; e in te né morte
ella è mortale e in te non possono niente ne la morte
Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo;
ne la vecchiaia, ma il mio pensiero è questo;
Questo il desìo che mi tormenta sempre:
questo è il desiderio che sempre mi tormenta
Veder quel giorno al fin, che alle dilette
vedere il giorno finale che mi conduce
Piagge del mio natal mi riconduca.
alle spiagge della mia città natale
Che se alcun me percoterà de' numi
che se qualcuno dei numi mi percuoterà
Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo
per le onde del mare, io soffrirò, chiudendo
Forte contra i disastri anima in petto.
la mia anima contro i disastri
Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi,
molti sopra il mare molti per le armi
Già ne sostenni; e sosterronne ancora".
gia ne ho sostenuti e ne sosterro ancora
Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno
disse, e il sole tramontò, si ritarono
Si ritira
sinceramente nn va bene... ma grazie cmq... non è per caso mi aiuti tu francy???
Serve ancora? Va bene così?
vedi un pò tu...
Già l'Aurora, levandosi a Titone D'allato, abbandonava il croceo letto, E ai dèi portava ed ai mortali il giorno; E già tutti a concilio i dèi beati Sedean con Giove altitonante in mezzo, Cui di possanza cede ogni altro nume. Memore Palla dell'egregio Ulisse, Che mal suo grado appo la ninfa scorge, I molti ritesseane acerbi casi: «O Giove», disse, «e voi tutti d'Olimpo Concittadini, che in eterno siete, Spoglisi di giustizia e di pietade, E iniquitate e crudeltà si vesta D'ora innanzi ogni re, quando l'imago D'Ulisse più non vive in un sol core Di quella gente ch'ei reggea da padre. Ei nell'isola intanto, ove Calipso In cave grotte ripugnante il tiene, Giorni oziosi e travagliosi mena; E del tornare alla sua patria è nulla, Poiché navi non ha, non ha compagni, Che il carreggin del mar su l'ampio tergo. Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo Mosse ed a Sparta, onde saver di lui, Tôr di vita si brama al suo ritorno. «Figlia, qual ti sentii fuggir parola Dal recinto de' denti?» a lei rispose L'adunator di nubi Olimpio Giove; «Tu stessa in te non divisavi, come Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo Per opra tua, chi tel contende? salvo Rïentri, e l'onde navigate indarno Rinavighi de' proci il reo naviglio. Disse, e a Mercurio, sua diletta prole, Così si rivolgea: «Mercurio, antico De' miei comandi apportator fedele, Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse Le native contrade omai rivegga, Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi, Con multiplici nodi in un congiunte, E il ventesimo dì della feconda Scheria le rive, sospirando, attinga; E i Feaci l'accolgano, che quasi Degl'immortali al par vivon felici. Essi qual nume onoreranlo, e al dolce Nativo loco il manderan per nave; Rame in copia darangli, ed oro e vesti, Quanto al fin seco dalla vinta Troia Condotto non avrìa, se con la preda, Che gli toccò, ne ritornava illeso: Ché la patria così, gli amici e l'alto Riveder suo palagio, è a lui destino». Obbedì il prode messaggiero. Al piede S'avvinse i talar belli, aurei, immortali, Che sul mare il portavano, e su i campi Della terra infiniti, al par col vento. Poi, l'aurea verga nelle man recossi, Onde i mortali dolcemente assonna, Quanti gli piace, e li dissonna ancora, E con quella tra man l'aure fendea. Come presi ebbe di Pïeria i gioghi, Si calò d'alto, e si gettò sul mare: Indi l'acque radea velocemente, Simile al laro, che pe' vasti golfi S'aggira in traccia de' minuti pesci, E spesso nel gran sale i vanni bagna. Non altrimenti sen venìa radendo Molte onde e molte l'Argicìda Ermete. Ma tosto che fu all'isola remota, Salendo allor dagli azzurrini flutti, Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina S'offerse a lui la spazïosa grotta, Soggiorno della ninfa il crin ricciuta, Cui trovò il nume alla sua grotta in seno. Grande vi splendea foco, e la fragranza Del cedro ardente e dell'ardente tio Per tutta si spargea l'isola intorno. Ella, cantando con leggiadra voce, Fra i tesi fili dell'ordìta tela Lucida spola d'ôr lanciando andava. Selva ognor verde l'incavato speco Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni E gli spiranti odor bruni cipressi: E tra i lor rami fabbricato il nido S'aveano augelli dalle lunghe penne, Il gufo, lo sparviere e la loquace Delle rive del mar cornacchia amica. Giovane vite di purpurei grappi S'ornava e tutto rivestìa lo speco. Volvean quattro bei fonti acque d'argento, Tra sé vicini prima, e poi divisi L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole Ricca si dispiegava in ogni dove De' molli prati l'immortal verzura. Questa scena era tal, che sino a un nume Non potea farsi ad essa, e non sentirsi Di maraviglia colmo e di dolcezza. Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto Lodatola in suo core, all'antro cavo, Non indugiando più, dentro si mise. Calipso, inclita dea, non ebbe in lui Gli occhi affissati, che il conobbe: quando, Per distante che l'un dall'altro alberghi, Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno. Ma nella grotta il generoso Ulisse Non era: mesto sul deserto lido, Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi Con dolori, con gemiti, con pianti Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare Sempre agguardava, lagrime stillando. La diva il nume interrogò, cui posto Su mirabile avea seggio lucente: «Mercurio, nume venerato e caro, Che della verga d'ôr la man guernisci, Qual mai cagione a me, che per l'addietro Non visitavi, oggi t'addusse? Parla. Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna, Disdirti io non saprei, se il pur volessi. Su via, ricevi l'ospital convito: Poscia favellerai». Detto, la mensa, Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti, Ed il purpureo néttare versògli. Questo il celere messaggiero e quella Prendea; né prima nelle forze usate Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti: «Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero, Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro. Questo viaggio di Saturno il figlio Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai Varcar tante onde salse, infinite onde, Dove città non sorge, e sagrificî Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri? Ma il precetto di Giove a un altro nume Né vïolar, né oblïar lice. Teco,» Disse l'Egidarmato, «i giorni mena L'uom più gramo tra quanti alla cittade Di Priamo innanzi combattean nove anni, Finché il decimo alfin, Troia combusta, Spiegâro in mar le ritornanti vele. Ma nel cammino ingiurïar Minerva, Che destò le bufere, e immensi flutti Contra lor sollevò. Tutti perîro Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato. Or tu costui congederai di botto; Ché non morir dalla sua terra lunge, Ma la patria bensì, gli amici e l'alto Riveder suo palagio, è a lui destino». Inorridì Calipso, e con alate Parole rispondendo: «Ah, numi ingiusti,» Sclamò, «che invidia non più intesa è questa, Che se una dea con maritale amplesso Si congiunge a un mortal, voi non soffrite? Quando la tinta di rosato Aurora Orïone rapì, voi, dèi, cui vita Facile scorre, acre livor mordea, Finché in Ortigia il rintracciò la casta Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa Morte il colpì con invisibil dardo. E allor che venne, inanellata il crine, Cerere a Giasïon tutta amorosa, E nel maggese, che il pesante aratro Tre volte aperto avea, se gli concesse, Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise Giasïon con la folgore affocata. Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco Mi vedete un eroe da me serbato, Che solo stava in su i meschini avanzi Della nave, che il telo igneo di Giove Nel mare oscuro gli percosse e sciolse. Io raccogliealo amica, io lo nutria Gelosamente, io prometteagli eterni Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni. Ma quando troppo è ver che alcun di Giove Precetto vïolare a un altro nume Non lice, od obblïar, parta egli e solchi, Se il comandò l'Egidarmato, i campi Non seminati. Io nol rimando certo; Ché navi a me non sono e non compagni, Che del mare il carreggino sul tergo. Ben sovverrógli di consiglio, e il modo Gli additerò, che alla sua dolce terra Su i perigliosi flutti ei giunga illeso». «Ogni modo il rimanda,» l'Argicida Soggiunse, «e pensa che infiammarsi d'ira Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno». E sul fin di tai detti a lei si tolse. L'augusta ninfa, del Saturnio udita la severa imbasciata, il prode Ulisse Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso Del mar in su la sponda, ove le guance Di lagrime rigava, e consumava Col pensier del ritorno i suoi dolci anni; Ché della ninfa non pungealo amore: E se le notti nella cava grotta Con lei vogliosa non voglioso passa, Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno, Su i lidi assiso e su i romiti scogli, Con dolori, con gemiti con pianti Struggesi l'alma, e l'infecondo mare, Lagrime spesse lagrimando, agguarda. Calipso, illustre dea, standogli appresso: «Sciagurato», gli disse, in questi pianti «Più non mi dar, né consumare i dolci Tuoi begli anni così: la dipartita, Non che vietarti, agevolarti io penso. Su via, le travi nella selva tronche, Larga e con alti palchi a te congegna Zattera, che sul mar fosco ti porti. Io di candido pan, che l'importuna Fame rintuzzi, io di purissim'onda, E di rosso licor, gioia dell'alma, La carcherò: ti vestirò non vili Panni, e ti manderò da tergo un vento, Che alle contrade tue ti spinga illeso, Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia, Con cui di senno in prova io già non vegno». Raccapricciossi a questo il non mai vinto Dalle sventure Ulisse, e: «O dea», rispose Con alate parole, «altro di fermo, Non il congedo mio, tu volgi in mente, Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi Del difficile mar flutti tremendi, Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi Munite, e liete di quel vento amico Che da Giove partì, varcano appena. No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto, Non salirò, dove tu pria non degni Giurare a me con giuramento grande, Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce». Sorrise l'Atlantìde, e, della mano Divina carezzandolo, la lingua Sciolse in tai voci: «Un cattivello sei, Né ciò che per te fa, scordi giammai. Quali parole mi parlasti! Or sappia Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra, Che sotterra si volve, acqua di Stige, Di cui né più solenne han, né più sacro Gl'Iddii beati giuramento; sappia, Che nessuno il mio cor danno t'ordisce. Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi. Giustizia regge la mia mente, e un'alma Pietosa, non di ferro, in me s'annida». Ciò detto, abbandonava il lido in fretta E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta, Colà, ond'era l'Argicida sorto, S'adagiò il Laerziade; e la dea molti Davante gli mettea cibi e licori, Quali ricever può petto mortale. Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro. Come ambo paghi per la mensa furo, Con tali accenti cominciava l'alta Di Calipso beltade: «O di Laerte Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse, Così tu parti adunque, e alla nativa Terra e alle case de' tuoi padri vai? Va, poiché sì t'aggrada, e va felice. Ma se tu scorger col pensier potessi Per quanti affanni ti comanda il fato Prima passar, che al patrio suolo arrivi Questa casa con me sempre vorresti Custodir, ne son certa, e immortal vita Da Calipso accettar: benché sì viva Brama t'accenda della tua consorte, A cui giorno non è che non sospiri. Pur non cedere a lei né di statura Mi vanto, né di volto; umana donna Mal può con una dea, né le s'addice, Di persona giostrare, o di sembianza». «Venerabile iddia», riprese il ricco D'ingegni Ulisse, «non voler di questo Meco sdegnarti; appien conosco io stesso, Che la saggia Penelope tu vinci Di persona non men che di sembianza, Giudice il guardo che ti stia di contra. Ella nacque mortale; e in te né morte Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo; Questo il desìo che mi tormenta sempre: Veder quel giorno al fin, che alle dilette Piagge del mio natal mi riconduca. Che se alcun me percoterà de' numi Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo Forte contra i disastri anima in petto. Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi, Già ne sostenni; e sosterronne ancora». Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno Si ritira
Già l'Aurora, levandosi a Titone D'allato, abbandonava il croceo letto, E ai dèi portava ed ai mortali il giorno; E già tutti a concilio i dèi beati Sedean con Giove altitonante in mezzo, Cui di possanza cede ogni altro nume. Memore Palla dell'egregio Ulisse, Che mal suo grado appo la ninfa scorge, I molti ritesseane acerbi casi: «O Giove», disse, «e voi tutti d'Olimpo Concittadini, che in eterno siete, Spoglisi di giustizia e di pietade, E iniquitate e crudeltà si vesta D'ora innanzi ogni re, quando l'imago D'Ulisse più non vive in un sol core Di quella gente ch'ei reggea da padre. Ei nell'isola intanto, ove Calipso In cave grotte ripugnante il tiene, Giorni oziosi e travagliosi mena; E del tornare alla sua patria è nulla, Poiché navi non ha, non ha compagni, Che il carreggin del mar su l'ampio tergo. Che più? Il figliuol, che all'arenosa Pilo Mosse ed a Sparta, onde saver di lui, Tôr di vita si brama al suo ritorno. «Figlia, qual ti sentii fuggir parola Dal recinto de' denti?» a lei rispose L'adunator di nubi Olimpio Giove; «Tu stessa in te non divisavi, come Rieda Ulisse alla patria, e di que' tristi Vendetta faccia? In Itaca il figliuolo Per opra tua, chi tel contende? salvo Rïentri, e l'onde navigate indarno Rinavighi de' proci il reo naviglio. Disse, e a Mercurio, sua diletta prole, Così si rivolgea: «Mercurio, antico De' miei comandi apportator fedele, Vanne, alla ninfa dalle crespe chiome Il fermo annunzia mio voler, che Ulisse Le native contrade omai rivegga, Ma nol guidi uom, né dio. Parta su travi, Con multiplici nodi in un congiunte, E il ventesimo dì della feconda Scheria le rive, sospirando, attinga; E i Feaci l'accolgano, che quasi Degl'immortali al par vivon felici. Essi qual nume onoreranlo, e al dolce Nativo loco il manderan per nave; Rame in copia darangli, ed oro e vesti, Quanto al fin seco dalla vinta Troia Condotto non avrìa, se con la preda, Che gli toccò, ne ritornava illeso: Ché la patria così, gli amici e l'alto Riveder suo palagio, è a lui destino». Obbedì il prode messaggiero. Al piede S'avvinse i talar belli, aurei, immortali, Che sul mare il portavano, e su i campi Della terra infiniti, al par col vento. Poi, l'aurea verga nelle man recossi, Onde i mortali dolcemente assonna, Quanti gli piace, e li dissonna ancora, E con quella tra man l'aure fendea. Come presi ebbe di Pïeria i gioghi, Si calò d'alto, e si gettò sul mare: Indi l'acque radea velocemente, Simile al laro, che pe' vasti golfi S'aggira in traccia de' minuti pesci, E spesso nel gran sale i vanni bagna. Non altrimenti sen venìa radendo Molte onde e molte l'Argicìda Ermete. Ma tosto che fu all'isola remota, Salendo allor dagli azzurrini flutti, Lungo il lido ei sen gìa, finché vicina S'offerse a lui la spazïosa grotta, Soggiorno della ninfa il crin ricciuta, Cui trovò il nume alla sua grotta in seno. Grande vi splendea foco, e la fragranza Del cedro ardente e dell'ardente tio Per tutta si spargea l'isola intorno. Ella, cantando con leggiadra voce, Fra i tesi fili dell'ordìta tela Lucida spola d'ôr lanciando andava. Selva ognor verde l'incavato speco Cingeva: i pioppi vi cresceano e gli alni E gli spiranti odor bruni cipressi: E tra i lor rami fabbricato il nido S'aveano augelli dalle lunghe penne, Il gufo, lo sparviere e la loquace Delle rive del mar cornacchia amica. Giovane vite di purpurei grappi S'ornava e tutto rivestìa lo speco. Volvean quattro bei fonti acque d'argento, Tra sé vicini prima, e poi divisi L'un dall'altro e fuggenti; e di vïole Ricca si dispiegava in ogni dove De' molli prati l'immortal verzura. Questa scena era tal, che sino a un nume Non potea farsi ad essa, e non sentirsi Di maraviglia colmo e di dolcezza. Mercurio, immoto, s'ammirava; e, molto Lodatola in suo core, all'antro cavo, Non indugiando più, dentro si mise. Calipso, inclita dea, non ebbe in lui Gli occhi affissati, che il conobbe: quando, Per distante che l'un dall'altro alberghi, Celarsi l'uno all'altro i dèi non ponno. Ma nella grotta il generoso Ulisse Non era: mesto sul deserto lido, Cui spesso si rendea, sedeasi; ed ivi Con dolori, con gemiti, con pianti Struggeasi l'alma, e l'infecondo mare Sempre agguardava, lagrime stillando. La diva il nume interrogò, cui posto Su mirabile avea seggio lucente: «Mercurio, nume venerato e caro, Che della verga d'ôr la man guernisci, Qual mai cagione a me, che per l'addietro Non visitavi, oggi t'addusse? Parla. Cosa ch'io valga oprar, né si sconvegna, Disdirti io non saprei, se il pur volessi. Su via, ricevi l'ospital convito: Poscia favellerai». Detto, la mensa, Che ambrosia ricoprìa, gli pose avanti, Ed il purpureo néttare versògli. Questo il celere messaggiero e quella Prendea; né prima nelle forze usate Tornò, che aprìa le labbra in tali accenti: «Tu dea me dio dunque richiedi? Il vero, Poiché udirlo tu vuoi, schietto io ti narro. Questo viaggio di Saturno il figlio Mal mio grado mi diè. Chi vorrìa mai Varcar tante onde salse, infinite onde, Dove città non sorge, e sagrificî Non v'ha chi ci offra, ed ecatombe illustri? Ma il precetto di Giove a un altro nume Né vïolar, né oblïar lice. Teco,» Disse l'Egidarmato, «i giorni mena L'uom più gramo tra quanti alla cittade Di Priamo innanzi combattean nove anni, Finché il decimo alfin, Troia combusta, Spiegâro in mar le ritornanti vele. Ma nel cammino ingiurïar Minerva, Che destò le bufere, e immensi flutti Contra lor sollevò. Tutti perîro Di quest'uomo i compagni; ed ei dal vento Venne, e dal fiotto ai lidi tuoi portato. Or tu costui congederai di botto; Ché non morir dalla sua terra lunge, Ma la patria bensì, gli amici e l'alto Riveder suo palagio, è a lui destino». Inorridì Calipso, e con alate Parole rispondendo: «Ah, numi ingiusti,» Sclamò, «che invidia non più intesa è questa, Che se una dea con maritale amplesso Si congiunge a un mortal, voi non soffrite? Quando la tinta di rosato Aurora Orïone rapì, voi, dèi, cui vita Facile scorre, acre livor mordea, Finché in Ortigia il rintracciò la casta Dal seggio aureo Dïana, e d'improvvisa Morte il colpì con invisibil dardo. E allor che venne, inanellata il crine, Cerere a Giasïon tutta amorosa, E nel maggese, che il pesante aratro Tre volte aperto avea, se gli concesse, Giove, cui l'opra non fu ignota, uccise Giasïon con la folgore affocata. Così voi, dèi, con invid'occhio al fianco Mi vedete un eroe da me serbato, Che solo stava in su i meschini avanzi Della nave, che il telo igneo di Giove Nel mare oscuro gli percosse e sciolse. Io raccogliealo amica, io lo nutria Gelosamente, io prometteagli eterni Giorni, e dal gel della vecchiezza immuni. Ma quando troppo è ver che alcun di Giove Precetto vïolare a un altro nume Non lice, od obblïar, parta egli e solchi, Se il comandò l'Egidarmato, i campi Non seminati. Io nol rimando certo; Ché navi a me non sono e non compagni, Che del mare il carreggino sul tergo. Ben sovverrógli di consiglio, e il modo Gli additerò, che alla sua dolce terra Su i perigliosi flutti ei giunga illeso». «Ogni modo il rimanda,» l'Argicida Soggiunse, «e pensa che infiammarsi d'ira Potrebbe contra te l'Olimpio un giorno». E sul fin di tai detti a lei si tolse. L'augusta ninfa, del Saturnio udita la severa imbasciata, il prode Ulisse Per cercar s'avvïò. Trovollo assiso Del mar in su la sponda, ove le guance Di lagrime rigava, e consumava Col pensier del ritorno i suoi dolci anni; Ché della ninfa non pungealo amore: E se le notti nella cava grotta Con lei vogliosa non voglioso passa, Che altro l'eroe può? Ma quanto è il giorno, Su i lidi assiso e su i romiti scogli, Con dolori, con gemiti con pianti Struggesi l'alma, e l'infecondo mare, Lagrime spesse lagrimando, agguarda. Calipso, illustre dea, standogli appresso: «Sciagurato», gli disse, in questi pianti «Più non mi dar, né consumare i dolci Tuoi begli anni così: la dipartita, Non che vietarti, agevolarti io penso. Su via, le travi nella selva tronche, Larga e con alti palchi a te congegna Zattera, che sul mar fosco ti porti. Io di candido pan, che l'importuna Fame rintuzzi, io di purissim'onda, E di rosso licor, gioia dell'alma, La carcherò: ti vestirò non vili Panni, e ti manderò da tergo un vento, Che alle contrade tue ti spinga illeso, Sol che d'Olimpo agli abitanti piaccia, Con cui di senno in prova io già non vegno». Raccapricciossi a questo il non mai vinto Dalle sventure Ulisse, e: «O dea», rispose Con alate parole, «altro di fermo, Non il congedo mio, tu volgi in mente, Che vuoi ch'io varchi su tal barca i grossi Del difficile mar flutti tremendi, Che le navi più ratte, e d'uguai fianchi Munite, e liete di quel vento amico Che da Giove partì, varcano appena. No: su barca sì fatta, e a tuo dispetto, Non salirò, dove tu pria non degni Giurare a me con giuramento grande, Che nessuno il tuo cor danno m'ordisce». Sorrise l'Atlantìde, e, della mano Divina carezzandolo, la lingua Sciolse in tai voci: «Un cattivello sei, Né ciò che per te fa, scordi giammai. Quali parole mi parlasti! Or sappia Dunque la Terra e il Ciel superno, e l'atra, Che sotterra si volve, acqua di Stige, Di cui né più solenne han, né più sacro Gl'Iddii beati giuramento; sappia, Che nessuno il mio cor danno t'ordisce. Quello anzi io penso, e ti propongo, ch'io Torrei per me, se in cotant'uopo io fossi. Giustizia regge la mia mente, e un'alma Pietosa, non di ferro, in me s'annida». Ciò detto, abbandonava il lido in fretta E Ulisse la seguìa. Giunti alla grotta, Colà, ond'era l'Argicida sorto, S'adagiò il Laerziade; e la dea molti Davante gli mettea cibi e licori, Quali ricever può petto mortale. Poi gli s'assise in fronte; e a lei le ancelle L'ambrosia e il roseo néttare imbandiro. Come ambo paghi per la mensa furo, Con tali accenti cominciava l'alta Di Calipso beltade: «O di Laerte Figlio divin, molto ingegnoso Ulisse, Così tu parti adunque, e alla nativa Terra e alle case de' tuoi padri vai? Va, poiché sì t'aggrada, e va felice. Ma se tu scorger col pensier potessi Per quanti affanni ti comanda il fato Prima passar, che al patrio suolo arrivi Questa casa con me sempre vorresti Custodir, ne son certa, e immortal vita Da Calipso accettar: benché sì viva Brama t'accenda della tua consorte, A cui giorno non è che non sospiri. Pur non cedere a lei né di statura Mi vanto, né di volto; umana donna Mal può con una dea, né le s'addice, Di persona giostrare, o di sembianza». «Venerabile iddia», riprese il ricco D'ingegni Ulisse, «non voler di questo Meco sdegnarti; appien conosco io stesso, Che la saggia Penelope tu vinci Di persona non men che di sembianza, Giudice il guardo che ti stia di contra. Ella nacque mortale; e in te né morte Può, né vecchiezza. Ma il pensiero è questo; Questo il desìo che mi tormenta sempre: Veder quel giorno al fin, che alle dilette Piagge del mio natal mi riconduca. Che se alcun me percoterà de' numi Per le fosche onde, io soffrirò, chiudendo Forte contra i disastri anima in petto. Molti sovr'esso il mar, molti fra l'armi, Già ne sostenni; e sosterronne ancora». Disse; e il Sol cadde, ed annottò. Nel seno Si ritira