Cicerone filosfo
ciao ragazzi sono nella merda perchè domani ho una verifica su cicerone come filosofo...avrei solo bisogno di una cosa
quali figure retoriche utilizza prevalentemente? e se mi daste anche quelche esempio sarebbe il massimo ma mi basta anche la risposta grazie mille
quali figure retoriche utilizza prevalentemente? e se mi daste anche quelche esempio sarebbe il massimo ma mi basta anche la risposta grazie mille
Risposte
Ti riassumo lo stile ciceroniano
Il latino che viene studiato e insegnato a scuola oggi, corrisponde fondamentalmente al latino delle orazioni, dei trattati retorici e filosofici di Cicerone. Si può dire che Cicerone sia il latino classico così come ci è familiare; e nel contempo lo stesso latino colloquiale con le sue libertà sintattiche e le sue particolarità espressive risulta testimoniato dal Cicerone nell'epistolario. Queste considerazioni rendono bene l'idea di quanto profondo e importante sia stato nel corso dei secoli il modello di lingua e di stile da lui elaborato. Si tratta di un modello che andò progressivamente formandosi nel corso dell'esperienza intellettuale di Cicerone.
Dalla iuvenilis redundantia (=frondosità giovanile), di cui lui stesso ci parla, Cicerone passò a uno stile più misurato soprattutto grazie all'insegnamento del retore rodiese Apollonio Molone, giungendo alla perfetta maturazione delle sue più personali e specifiche facoltà.
Ma l'aspirazione a qualcosa di ampio, maestoso e monumentale, pur in una varietà che non annoi, è forse la spinta più caratteristica dello stile maturo di Cicerone. Essa si manifesta soprattutto nel dominio della sintassi. La cellula stilistica fondamentale è qui il periodo, mentre in altre epoche sarà la frase ad effetto o sententia (con i retori declamatori e con Seneca), quando non addirittura la singola parola (con Frontone e gli arcaisti). E il periodo di Cicerone è un periodo ampio, forte di una vigilata, geometrica distribuzione di coordinate e subordinate attorno al centro costituito dalla proposizione principale, in un armonico e robusto complesso architettonico. Alla perfetto costruzione del periodo ciceroniano, concorrono i giochi di parallelismi e contrapposizioni: è questo il dominio della concinnitas, cioè l'armoniosa consonanza delle rispondenze. E' la concinnitas a disciplinare l'arte di disporre in equilibrio fra loro singole strutture di varia lunghezza (i cola o membra, di 4-6 piedi; i commata o incisa, di 1-3 piedi) in modo da ottenere sequenze dotate di un certo andamento ritmico.
Può intervenire infine una seconda fonte di piacevole ritmicità, cioè il numerus, ovvero l'impiego di vere e proprie sequenze metriche, chiamate clausulae. Il buon prosatore deve sfruttarle con parsimonia, riservarle soprattutto per la fine del periodo ed avere cura che non assomiglino a quelle in uso nella poesia.
In conclusione, volendo abbracciare in un giudizio sintetico la prosa delle orazioni e quella dei trattati (il che corrisponde ad una banalizzazione estrema della questione), si può dire che Cicerone aspira ad uno stile geometrico, lucido e chiaro, ma al contempo capace di impressionare lo spettatore sollevandosi con l'aiuto di figure retoriche e strutture ritmiche a un'espressione patetica di grande affetto. Sarà il senso dell'opportunità, il decorum, a mantenere questo registro vibrato al di qua dell'esagerata gonfiezza di tipo asiano, nei confini della gravitas, cioè di quella espressione sempre sorvegliata dall'equilibrio che coincide con il concetto odierno di classico.
---> Assenza totale di "grecismi".
---> Sperimentazione stilistica.
---> Uso di strutture complesse di periodi, con molte subordinate e coordinate a dare rilevanza alla frase principale.
---> Stile chiaro e diretto, capace di colpire il lettore.
Il latino che viene studiato e insegnato a scuola oggi, corrisponde fondamentalmente al latino delle orazioni, dei trattati retorici e filosofici di Cicerone. Si può dire che Cicerone sia il latino classico così come ci è familiare; e nel contempo lo stesso latino colloquiale con le sue libertà sintattiche e le sue particolarità espressive risulta testimoniato dal Cicerone nell'epistolario. Queste considerazioni rendono bene l'idea di quanto profondo e importante sia stato nel corso dei secoli il modello di lingua e di stile da lui elaborato. Si tratta di un modello che andò progressivamente formandosi nel corso dell'esperienza intellettuale di Cicerone.
Dalla iuvenilis redundantia (=frondosità giovanile), di cui lui stesso ci parla, Cicerone passò a uno stile più misurato soprattutto grazie all'insegnamento del retore rodiese Apollonio Molone, giungendo alla perfetta maturazione delle sue più personali e specifiche facoltà.
Ma l'aspirazione a qualcosa di ampio, maestoso e monumentale, pur in una varietà che non annoi, è forse la spinta più caratteristica dello stile maturo di Cicerone. Essa si manifesta soprattutto nel dominio della sintassi. La cellula stilistica fondamentale è qui il periodo, mentre in altre epoche sarà la frase ad effetto o sententia (con i retori declamatori e con Seneca), quando non addirittura la singola parola (con Frontone e gli arcaisti). E il periodo di Cicerone è un periodo ampio, forte di una vigilata, geometrica distribuzione di coordinate e subordinate attorno al centro costituito dalla proposizione principale, in un armonico e robusto complesso architettonico. Alla perfetto costruzione del periodo ciceroniano, concorrono i giochi di parallelismi e contrapposizioni: è questo il dominio della concinnitas, cioè l'armoniosa consonanza delle rispondenze. E' la concinnitas a disciplinare l'arte di disporre in equilibrio fra loro singole strutture di varia lunghezza (i cola o membra, di 4-6 piedi; i commata o incisa, di 1-3 piedi) in modo da ottenere sequenze dotate di un certo andamento ritmico.
Può intervenire infine una seconda fonte di piacevole ritmicità, cioè il numerus, ovvero l'impiego di vere e proprie sequenze metriche, chiamate clausulae. Il buon prosatore deve sfruttarle con parsimonia, riservarle soprattutto per la fine del periodo ed avere cura che non assomiglino a quelle in uso nella poesia.
In conclusione, volendo abbracciare in un giudizio sintetico la prosa delle orazioni e quella dei trattati (il che corrisponde ad una banalizzazione estrema della questione), si può dire che Cicerone aspira ad uno stile geometrico, lucido e chiaro, ma al contempo capace di impressionare lo spettatore sollevandosi con l'aiuto di figure retoriche e strutture ritmiche a un'espressione patetica di grande affetto. Sarà il senso dell'opportunità, il decorum, a mantenere questo registro vibrato al di qua dell'esagerata gonfiezza di tipo asiano, nei confini della gravitas, cioè di quella espressione sempre sorvegliata dall'equilibrio che coincide con il concetto odierno di classico.
---> Assenza totale di "grecismi".
---> Sperimentazione stilistica.
---> Uso di strutture complesse di periodi, con molte subordinate e coordinate a dare rilevanza alla frase principale.
---> Stile chiaro e diretto, capace di colpire il lettore.
Emh ita, credo cercasse le figure retoriche (anastrofe, allitterazione etc.) non la sua retorica...
ecco
LE OPERE RETORICHE
Cicerone trattò di retorica in varie opere. Negli anni giovanili compose in due libri il De invenzione, un’operetta scolastica in cui venivano riprese ed elaborate fonti manualistiche greche.
Tutt’altro carattere e ben diversa importanza ha il De oratore, scritto nel 55 a.C., dopo il ritorno dall’esilio. Siamo in un periodo in cui il rallentamento dell’attività pubblica consente a Cicerone d’intensificare lo studio e la lettura e di svolgere un’imponente attività letteraria.
Il De oratore, in tre libri, è un dialogo di tipo platonico-aristotelico. Si tratta di un’opera in cui l’autore affida il compito di trattare l’argomento a vari interlocutori, inseriti in una cornice "drammatica". Questa impostazione gli permette di sostituire ad un’esposizione continuata un dibattito vario e animato. I protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, che Cicerone considerava i più eminenti oratori della generazione precedente la sua e che erano stati la sua guida quando aveva incominciato a frequentare il foro. Egli immagina che il dialogo abbia avuto luogo nella villa di Crasso a Muscolo nel 91 a.C. e che vi abbiano partecipato altri cinque personaggi minori, fra cui Quinto Mucio Scevola l’Augure.
Nel primo libro Crasso espone e sviluppa ampiamente la tesi di fondo dell’opera: nessuno potrà essere riconosciuto un oratore perfetto se non avrà acquisito una conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tute le discipline. Cicerone prende posizione contro la concezione tecnicistica di quei retori greci che pretendono di formare il perfetto oratore solo per mezzo di regole e di esercizi, ma anche contro quella di chi ritiene che siano sufficienti le doti naturali e l’esperienza. Egli afferma per bocca di Crasso l’ideale di un oratore impegnato a fondo nella vita pubblica e al tempo stesso fornito di una profonda cultura. Il bagaglio culturale del perfetto oratore deve comprendere il diritto civile, la filosofia, la storia, le scienze antiquarie, la geografia, le scienze naturali. Tale complesso di nozioni deve essere armoniosamente strutturato grazie ad una personalità intellettualmente e moralmente superiore. Cicerone riprende qui e rielabora in senso romano l’ideale isocrateo dell’oratoria come scienza che rivendica a se stessa l’universalità del sapere. Egli si inserisce nel dibattito che in Grecia aveva contrapposto retori e filosofi, cioè nell’educazione dei giovani alla politica e alla formazione dei ceti dirigenti. Cicerone tende ad assumere una posizione equilibrata e conciliatrice; tuttavia, mentre afferma e ribadisce la necessità e l’importanza per l’oratore di una buona preparazione filosofica, subordina anche la filosofia all’eloquenza.
Nel secondo libro si passa alla trattazione delle parti della retorica. Antonio tratta dell’inventio, della dispositivo e della memoria. La parte relativa all’inventio contiene un excursus detto de ridiculis, sul comico e sui suoi meccanismi. I capitoli dedicati alla dispositivo illustrano le specifiche tecniche adatte alle varie parti dell’orazione: esordio, narrazione dei fatti, argomentazioni a favore della causa e a confutazione dell’avversario, epilogo e perorazione.
Nel terzo libro la trattazione è affidata a Crasso, che svolge i precetti relativi all’elocutio. Egli tratta specialmente dell’ornatus, ossia l’elaborazione artistica del materiale linguistico, da attuare con l’uso di figure retoriche. I capitoli finali sono dedicati all’actio, cioè il modo con cui un oratore deve porgere il discorso.
Il De oratore è forse, fra tutti i dialoghi di Cicerone, quello scritto con maggior cura formale.
Cicerone riprese gli argomenti del De oratore in altre due opere, il Brutus e l’Orator, scritte nel 46 a.C.
Il Brutus, in forma di dialogo, ha come interlocutori Cicerone e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto, cui l’opera è dedicata. Dopo un excursus sulla storia dell’oratoria greca, Cicerone sviluppa una grandiosa storia dell’oratoria romana, presentando e illustrando le caratteristiche di circa duecento oratori che vengono passati in rassegna in ordine cronologico. Secondo Cicerone l’arte della parola a Roma si è evoluta progressivamente nel corso dei secoli fino a raggiungere l’eccellenza con Quinto Ortensio Ortalo. Egli viene considerato il massimo rappresentante dello stile asiano in entrambe le sue tendenze: quella che imposta il discorso su frasi brevi e quella che ricorre a un’elocuzione fluente. Nell’ultima parte del Brutus Cicerone rievoca gli inizi della propria carriera oratoria, che lo avrebbe portato a contendere con Ortensio e ben presto a strappargli il primato.
Cicerone presenta se stesso come il punto d’arrivo di un lento processo di affinamento e perfezionamento dell’eloquenza romana, e lo fa in un momento in cui non solo non è più il principe del Foro, ma si sta anche affermando il neoatticismo, cioè la preferenza per un modo di esprimersi diverso dal suo.
Anche l’Orator è dedicato a Bruto. Quest’opera è un’esposizione continuata fatta in prima persona da Cicerone in un unico libro. Vi è ripresa la teoria dello stile oratorio già illustrato nel III libro del De oratore. Le parti più nuove ed interessanti sono l’illustrazione delle differenze fra lo stile oratorio e lo stile dei filosofi, degli storici, dei poeti; la distinzione di tre stili, (umile, medio, sublime) collegati rispettivamente con i tre compiti dell’oratore (docere, delectare, movere); l’ampia trattazione della numerosa et apta oratio (la prosa ritmica) che è consigliabile adottare nella chiusura dei periodi e delle frasi.
Opere minori d’argomento retorico sono:
il Partitiones oratorie, del 46 a.C., breve riassunto della dottrina retorica greca redatto sotto forma di domande e risposte ad uso del figlio Marco
il Topica, una sorta di promemoria relativo ai luoghi, cioè agli argomenti e agli schemi ricorrenti del genere giudiziario scritto nel 44 a.C.
il De optimo genere oratorio, del 46 a.C., che è la prefazione a una traduzione di due orazioni di Demostene e di Eschine; Cicerone afferma di non aver riprodotto i testi parola per parola, ma di aver cercato di renderne i valori stilistici tenendo conto delle differenze fra il greco e il latino.
guarda pure qui
LE OPERE RETORICHE
Cicerone trattò di retorica in varie opere. Negli anni giovanili compose in due libri il De invenzione, un’operetta scolastica in cui venivano riprese ed elaborate fonti manualistiche greche.
Tutt’altro carattere e ben diversa importanza ha il De oratore, scritto nel 55 a.C., dopo il ritorno dall’esilio. Siamo in un periodo in cui il rallentamento dell’attività pubblica consente a Cicerone d’intensificare lo studio e la lettura e di svolgere un’imponente attività letteraria.
Il De oratore, in tre libri, è un dialogo di tipo platonico-aristotelico. Si tratta di un’opera in cui l’autore affida il compito di trattare l’argomento a vari interlocutori, inseriti in una cornice "drammatica". Questa impostazione gli permette di sostituire ad un’esposizione continuata un dibattito vario e animato. I protagonisti sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, che Cicerone considerava i più eminenti oratori della generazione precedente la sua e che erano stati la sua guida quando aveva incominciato a frequentare il foro. Egli immagina che il dialogo abbia avuto luogo nella villa di Crasso a Muscolo nel 91 a.C. e che vi abbiano partecipato altri cinque personaggi minori, fra cui Quinto Mucio Scevola l’Augure.
Nel primo libro Crasso espone e sviluppa ampiamente la tesi di fondo dell’opera: nessuno potrà essere riconosciuto un oratore perfetto se non avrà acquisito una conoscenza approfondita di tutti gli argomenti più importanti e di tute le discipline. Cicerone prende posizione contro la concezione tecnicistica di quei retori greci che pretendono di formare il perfetto oratore solo per mezzo di regole e di esercizi, ma anche contro quella di chi ritiene che siano sufficienti le doti naturali e l’esperienza. Egli afferma per bocca di Crasso l’ideale di un oratore impegnato a fondo nella vita pubblica e al tempo stesso fornito di una profonda cultura. Il bagaglio culturale del perfetto oratore deve comprendere il diritto civile, la filosofia, la storia, le scienze antiquarie, la geografia, le scienze naturali. Tale complesso di nozioni deve essere armoniosamente strutturato grazie ad una personalità intellettualmente e moralmente superiore. Cicerone riprende qui e rielabora in senso romano l’ideale isocrateo dell’oratoria come scienza che rivendica a se stessa l’universalità del sapere. Egli si inserisce nel dibattito che in Grecia aveva contrapposto retori e filosofi, cioè nell’educazione dei giovani alla politica e alla formazione dei ceti dirigenti. Cicerone tende ad assumere una posizione equilibrata e conciliatrice; tuttavia, mentre afferma e ribadisce la necessità e l’importanza per l’oratore di una buona preparazione filosofica, subordina anche la filosofia all’eloquenza.
Nel secondo libro si passa alla trattazione delle parti della retorica. Antonio tratta dell’inventio, della dispositivo e della memoria. La parte relativa all’inventio contiene un excursus detto de ridiculis, sul comico e sui suoi meccanismi. I capitoli dedicati alla dispositivo illustrano le specifiche tecniche adatte alle varie parti dell’orazione: esordio, narrazione dei fatti, argomentazioni a favore della causa e a confutazione dell’avversario, epilogo e perorazione.
Nel terzo libro la trattazione è affidata a Crasso, che svolge i precetti relativi all’elocutio. Egli tratta specialmente dell’ornatus, ossia l’elaborazione artistica del materiale linguistico, da attuare con l’uso di figure retoriche. I capitoli finali sono dedicati all’actio, cioè il modo con cui un oratore deve porgere il discorso.
Il De oratore è forse, fra tutti i dialoghi di Cicerone, quello scritto con maggior cura formale.
Cicerone riprese gli argomenti del De oratore in altre due opere, il Brutus e l’Orator, scritte nel 46 a.C.
Il Brutus, in forma di dialogo, ha come interlocutori Cicerone e gli amici Attico e Marco Giunio Bruto, cui l’opera è dedicata. Dopo un excursus sulla storia dell’oratoria greca, Cicerone sviluppa una grandiosa storia dell’oratoria romana, presentando e illustrando le caratteristiche di circa duecento oratori che vengono passati in rassegna in ordine cronologico. Secondo Cicerone l’arte della parola a Roma si è evoluta progressivamente nel corso dei secoli fino a raggiungere l’eccellenza con Quinto Ortensio Ortalo. Egli viene considerato il massimo rappresentante dello stile asiano in entrambe le sue tendenze: quella che imposta il discorso su frasi brevi e quella che ricorre a un’elocuzione fluente. Nell’ultima parte del Brutus Cicerone rievoca gli inizi della propria carriera oratoria, che lo avrebbe portato a contendere con Ortensio e ben presto a strappargli il primato.
Cicerone presenta se stesso come il punto d’arrivo di un lento processo di affinamento e perfezionamento dell’eloquenza romana, e lo fa in un momento in cui non solo non è più il principe del Foro, ma si sta anche affermando il neoatticismo, cioè la preferenza per un modo di esprimersi diverso dal suo.
Anche l’Orator è dedicato a Bruto. Quest’opera è un’esposizione continuata fatta in prima persona da Cicerone in un unico libro. Vi è ripresa la teoria dello stile oratorio già illustrato nel III libro del De oratore. Le parti più nuove ed interessanti sono l’illustrazione delle differenze fra lo stile oratorio e lo stile dei filosofi, degli storici, dei poeti; la distinzione di tre stili, (umile, medio, sublime) collegati rispettivamente con i tre compiti dell’oratore (docere, delectare, movere); l’ampia trattazione della numerosa et apta oratio (la prosa ritmica) che è consigliabile adottare nella chiusura dei periodi e delle frasi.
Opere minori d’argomento retorico sono:
il Partitiones oratorie, del 46 a.C., breve riassunto della dottrina retorica greca redatto sotto forma di domande e risposte ad uso del figlio Marco
il Topica, una sorta di promemoria relativo ai luoghi, cioè agli argomenti e agli schemi ricorrenti del genere giudiziario scritto nel 44 a.C.
il De optimo genere oratorio, del 46 a.C., che è la prefazione a una traduzione di due orazioni di Demostene e di Eschine; Cicerone afferma di non aver riprodotto i testi parola per parola, ma di aver cercato di renderne i valori stilistici tenendo conto delle differenze fra il greco e il latino.
guarda pure qui