Scheda libro

alkalewi
scheda del libro "DENTI" di Domenico starnone

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alkalewi
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direi che si può chiudere







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Francy1982
In breve
Un uomo ossessionato dai denti: quelli che la sua compagna gli rompe durante una discussione, costringendolo a rapporti imbarazzanti con l'ex moglie, i figli e gli studenti; quelli, forti e splendenti, che immagina nel suo rivale; quelli da latte che i parenti gli estraevano con sofisticate torture; quelli adulti che i dentisti scalpellano e cavano.

Il libro
Domenico Starnone questa volta parla di denti. Di denti, sì. Che diventano la chiave nevrotica per interpretare se stesso e gli altri, la follia dei sentimenti e l'ingiustizia del dolore, la mania di esistere e la tentazione di farne a meno. Complici ironia e paradosso, la realtà passa attraverso un irresistibile filtro ortodontico. Èallora precaria e dolce come i denti da latte dell'infanzia, è cruda e invasiva come i denti non più sostituibili della maturità, è patetica e imbarazzante come i denti rotti dal lancio di un portacenere durante un litigio amoroso, è forte e splendente come la chiostra di denti del rivale, è umiliante e umiliata, come i denti esaminati, scalpellati e cavati da quella obliqua e infelice manifestazione degli "altri da noi" che sono i dentisti. Nessuno la racconta com'è, come dev'essere. Tanto meno i dentisti che - diceva Flaubert - sono tutti bugiardi. Ma - replica Starnone - non possiamo farne a meno; e forse sull'avventurosa strada delle nostre quotidiane esistenze se ne trova infine uno più gentile, più a modo, più consapevole. Chissà. (dal sito della Feltrinelli)



Queste sono le recensioni:

Roberto Escobar Il Sole-24 Ore

Voce fuori campo filosofeggiante, lungo corridoio oscuro pervicacemente percorso (forse) dalla memoria, vasca da bagno con cadavere muliebre fatto a pezzi (dalla mannaia sgocciola sangue denso), mamma-amante e amante-mamma, loft in accurato stile trasandato, pietre tombali definitive e definitivi effetti speciali digitali, arnesi da dentista messi a bollire in una casseruola lurida su un fornello lurido di una lurida cucina, bambini che non sanno recitare (e nessuno glielo fa notare, men che meno il regista), ciuffi di peli pubici femminili catalogati con un rigore archivistico inferiore solo all’entusiasmo feticistico... Qualunque "cosa" sia Denti, è prima di tutto questo insieme molteplice, vario e variopinto che minaccia di piombarci addosso, a noi che siamo in platea, con la forza devastante del posacenere che Mara (Anita Caprioli) sbatte contro i lunghi, larghi, paradossali incisivi di Antonio (Sergio Rubini). [+]
Voce fuori campo filosofeggiante, lungo corridoio oscuro pervicacemente percorso (forse) dalla memoria, vasca da bagno con cadavere muliebre fatto a pezzi (dalla mannaia sgocciola sangue denso), mamma-amante e amante-mamma, loft in accurato stile trasandato, pietre tombali definitive e definitivi effetti speciali digitali, arnesi da dentista messi a bollire in una casseruola lurida su un fornello lurido di una lurida cucina, bambini che non sanno recitare (e nessuno glielo fa notare, men che meno il regista), ciuffi di peli pubici femminili catalogati con un rigore archivistico inferiore solo all’entusiasmo feticistico... Qualunque "cosa" sia Denti, è prima di tutto questo insieme molteplice, vario e variopinto che minaccia di piombarci addosso, a noi che siamo in platea, con la forza devastante del posacenere che Mara (Anita Caprioli) sbatte contro i lunghi, larghi, paradossali incisivi di Antonio (Sergio Rubini). Quel che ne viene - non solo e non tanto a noi, sprofondati in poltrona, intristiti dal disgusto visivo è tuttavia relativamente al sicuro, ma proprio a lui, al povero Antonio - è uno sfracello di tessuti gengivali, papille, alveoli e mucose, per non dire della catastrofe di smalto, avorio e polpa-dentaria. Per fortuna, a questo punto del film di Gabriele Salvatores ci è chiaro quel che ci dobbiamo aspettare (diremmo che ci abbiamo fatto la bocca, se non rischiasse d'apparire una battuta). Dunque, siamo pronti a parare il colpo e a serrare gli occhi. L'avessimo immaginato prima, avremmo evitato di strabuzzarli quando, all'inizio del film è in quel di Pompei, un Antonio ancora bambino ma già eccessivo se li sfracella da sé, i suoi incisivi, picchiando gran mazzate d'arcata dentaria superiore sulla millenaria indifferenza marmorea degli scavi. Veniamo più tardi a conoscere il motivo di tanta furia autolesionistica. Non si tratta solo d'una questione estetica (per quanto, come direbbe Totò, ne abbia ben d'onde). Neppure si tratta solo d'un espediente d'autore, finalizzato per così dire all’ebbrezza dello spettacolo. Si tratta soprattutto d'una questione di sentimenti, d'un complesso emotivo che Antonio stesso, nella seconda metà di Denti, si decide a svelarci, nel caso fossimo così tonti da non averlo capito da noi.
È l'abbandono, dice, quello che gli pesa sul cuore e ancora più sulle papille. L'abbandono da parte di chi? È ovvio: da parte della sua mamma. Non sarà originale, la prospettiva, ma come negare che sia verosimile? D'altra parte, basta dare un’occhiata a quel giuggiolone del suo papa, per comprendere le ragioni del nostro Edipo odontoiatrico. L'uomo passa fra le inquadrature senza lasciar traccia, in ciò adeguatamente assistito dalla sua propria consistenza antropologica, oltre che da una sceneggiatura distratta. Ed è ancora l'abbandono, la mancanza d'amore - così par di capire - che fa degli uomini altrettante belve. Prendiamo il caso d'un dentista di famiglia, costretto da un amore non adeguatamente corrisposto a trastullarsi nella vasca da bagno con quella tale mannaia insanguinata. Il pover'uomo lo fa solo per accorciare le distanze fra lui e la moglie. Salvo poi accorgersi che, a furia d'accorciare, la moglie non c’è più. Salvatores non esita a mostrarcelo, il disilluso, mentre argomenta la lancinante verità. Ma ce n’è un altro più saggio, di dentista di famiglia: il dottor Cagnano (Paolo Villaggio, bravo e all'altezza di se stesso). È lui che intuisce la verità profonda della "terza dentizione" d'Antonio. Basta levarli alla radice (appunto) quei due dentoni, per lasciare che ne crescano altri di proporzioni educate. Capita la metafora? Se non l'avete capita, non c’è motivo che vi preoccupiate: Antonio - lui direttamente o con il tramite della sua voce fuori campo - vi spiegherà ogni cosa, e persino un po' di più. E siamo così al terzo dentista di famiglia, questa volta non più coinvolto emotivamente con la madre-amante di Antonio, ma con la sua amante-madre. Per quanto sembri ancor più giuggiolone del suo papa - quando si dice il destino -, ha comunque l'accortezza d'infilargli due dita in bocca, tirandogli fuori un bel paio di centini nuovi. L'effetto non è più quello dirompente dei marmi pompeiani, ma il ribrezzo è assicurato. Che cosa tocca concluderne? Rannicchiati in platea, impegnati a schivare la raffica di posacenere che Salvatores tenta di picchiarci sui denti, siamo sempre più convinti che un film non si riduca agli effetti speciali, al sangue sgocciolante, ai lunghi corridoi percorsi (forse) dalla memoria. Ha bisogno anche di un'anima, come un incisivo d'una radice.
Da Il Sole 24-Ore, 22 ottobre 2000



Luigi Paini Il Sole-24 Ore

Acci...Denti. Se, come ogni comune mortale, provate un leggero brivido ogni volta che vi sedete sulla poltrona del dentista, tee', siete avvertiti: il film di Gabriele Salvatores vi caccia le mani in bocca senza anestesia. Fuor di metafora: proprio di denti si tratta, due enormi incisivi da castoro che, fin dalla più tenera età, condizionano la vita del protagonista Antonio (interpretato, da grande, da Sergio Rubini). Due "palettone" da detestare, due zanne che rovinano i rapporti con gli altri e, ancor prima, con se stesso. Da ragazzino, Antonio arriva a sbattersele contro le pietre di Pompei, nel vano tentativo di spezzarle, sotto gli occhi inorriditi della giovane e dolcissima madre. Già, la madre: ecco l'altro problema, oltre ai denti. [+]
Acci...Denti. Se, come ogni comune mortale, provate un leggero brivido ogni volta che vi sedete sulla poltrona del dentista, tee', siete avvertiti: il film di Gabriele Salvatores vi caccia le mani in bocca senza anestesia. Fuor di metafora: proprio di denti si tratta, due enormi incisivi da castoro che, fin dalla più tenera età, condizionano la vita del protagonista Antonio (interpretato, da grande, da Sergio Rubini). Due "palettone" da detestare, due zanne che rovinano i rapporti con gli altri e, ancor prima, con se stesso. Da ragazzino, Antonio arriva a sbattersele contro le pietre di Pompei, nel vano tentativo di spezzarle, sotto gli occhi inorriditi della giovane e dolcissima madre. Già, la madre: ecco l'altro problema, oltre ai denti. Anzi, è questo il vero problema, perché la donna è morta quando lui aveva solo tredici anni, e da allora è un fantasma che non lo lascia mai. Nemmeno ora che, quarantenne, vive con la giovane Mara (Anita Caprioli), dopo aver lasciato moglie e due figli. È nei guai, Antonio. Durante una lite furibonda, Mara gli spacca proprio quegli orrendi dentoni, costringendolo a una laica via crucis costellata da stazioni dentistiche.
Discesa agli inferi, con vista sul ventre di Napoli (dove è ambientata la storia, tra miasmi sotterranei e bagliori di azzurro infinito): odontoiatri macellai, sadici incuranti del dolore del paziente, fino al peggiore di tutti, un sozzo praticone che opera mentre prepara il ragù (una breve, inquietante apparizione di un ottimo Paolo Villaggio). Ci angoscia, Salvatores. Liberarsi dal passato, uscire dal dolore, abbandonare i fantasmi per gettarsi nelle braccia dei vivi: il cammino del protagonista vorrebbe essere quello di ciascuno di noi. Ma il simbolo è greve, scostante e riservato a palati forti.
Da Il Sole 24-Ore, 22 ottobre 2000



Stefano Della Casa

Come è noto, i dentisti sono secondi per impopolarità solo agli agenti delle tasse. ll coraggio di fare un film incentrato su deformazioni dentarie e su continui interventi nell'area gengivale è certamente notevole. Se poi si aggiunge che Gabriele Salvatores ha concepito Denti (sceneggiato dallo stesso Salvatores dal libro omonimo di Domenico Starnone) come un film sperimentale, coadiuvato in questo dall'ottimo lavoro di Italo Petriccione (fotografia) e di Massimo Fiocchi (montaggio), possiamo dire che Salvatores è oggi uno dei registi italiani con maggior coraggio di osare, anche paragonato a quelli che, insieme a lui, hanno affrontato il Concorso all'ultima Mostra del cinema di Venezia. [+]
Come è noto, i dentisti sono secondi per impopolarità solo agli agenti delle tasse. ll coraggio di fare un film incentrato su deformazioni dentarie e su continui interventi nell'area gengivale è certamente notevole. Se poi si aggiunge che Gabriele Salvatores ha concepito Denti (sceneggiato dallo stesso Salvatores dal libro omonimo di Domenico Starnone) come un film sperimentale, coadiuvato in questo dall'ottimo lavoro di Italo Petriccione (fotografia) e di Massimo Fiocchi (montaggio), possiamo dire che Salvatores è oggi uno dei registi italiani con maggior coraggio di osare, anche paragonato a quelli che, insieme a lui, hanno affrontato il Concorso all'ultima Mostra del cinema di Venezia. In Denti Sergio Rubini è un insegnante afflitto fin dall'infanzia da una dentatura abnorme e da un fantasma materno (Anouk Grinberg) che continua a complicare i suoi rapporti con l'altro sesso, in particolare con Mara di cui è gelosissimo. Risolvendo i problemi dentari risolverà una volta per tutte anche quelli personali; anche se per fare questo dovrà passare dalle mani di Paolo Villaggio più simile a un orco che a un odontoiatra, potendo poi festeggiare la liberazione con i Procol Harum.
Da Film TV, 17 ottobre 2000



Massimo Lusardi Ciak

Salvatores ha ragione a considerarlo il suo "titolo più indifeso". Ma deve anche andare orgoglioso di questa "fragilità": Denti è territorio libero, fuori dai confini consunti del cinema (non solo italiano). Vale, prima di tutto, per il coraggio creativo e come atto di fede nei confronti della potere dell'immagine. Immaginario onirico, il suo, che non teme né lo sgradevole né il disturbante, e che sceglie lo strumento dell'effetto speciale non per sterili "tempeste perfette", ma come contrappunto ironico e surreale (il simpatico Bentivoglio, zio-nel-bicchiere). E se, curiosamente, i limiti del film (qualche eccesso di enfasi e di filosofia) sono legati alla sceneggiatura, la metafora della dolorosa rinascita mantiene ugualmente la sua efficacia. [+]
Salvatores ha ragione a considerarlo il suo "titolo più indifeso". Ma deve anche andare orgoglioso di questa "fragilità": Denti è territorio libero, fuori dai confini consunti del cinema (non solo italiano). Vale, prima di tutto, per il coraggio creativo e come atto di fede nei confronti della potere dell'immagine. Immaginario onirico, il suo, che non teme né lo sgradevole né il disturbante, e che sceglie lo strumento dell'effetto speciale non per sterili "tempeste perfette", ma come contrappunto ironico e surreale (il simpatico Bentivoglio, zio-nel-bicchiere). E se, curiosamente, i limiti del film (qualche eccesso di enfasi e di filosofia) sono legati alla sceneggiatura, la metafora della dolorosa rinascita mantiene ugualmente la sua efficacia. Anche grazie all'impegno degli attori, da un nero Paolo Villaggio a Sergio Rubini, come sempre molto bravo.
Da Ciak, 1 novembre 2000



Silvio Danese Quotidiano.net

Storia d'amore, saggio di educazione sentimentale, incubo neo-espressionista sull'identità, prova generale per il prossimo colossal fantascientifico in India. Gabriele Salvatores sta cambiando, cercando (e non sempre trovando) una integrazione tra idea e stile, affabulazione e sintesi. Con un buco tra gli incisivi, captando una sorta di "memoria stomatologica", Antonio (Sergio Rubini, mattatore) affronta per amore un viaggio onirico, doloroso, verso un nuovo sé, o meglio verso il sé compiuto che non era ancora riuscito a raggiungere. Lo sollecitano, con gioco simmetrico felliniano l'amante, la moglie e la madre, tra odontoiatri sciamani (Paolo Villaggio) e simbologie antropologiche. Con la cinepresa installata idealmente tra l'anima sofferente e la psiche distorta di Antonio, Denti rivisita un cinema del soggetto che ha, in un secolo di storia, pionieri come Murnau e Lang, virtuosi geni come Welles, epigoni digitali come Scorsese e Coppola. [+]
Storia d'amore, saggio di educazione sentimentale, incubo neo-espressionista sull'identità, prova generale per il prossimo colossal fantascientifico in India. Gabriele Salvatores sta cambiando, cercando (e non sempre trovando) una integrazione tra idea e stile, affabulazione e sintesi. Con un buco tra gli incisivi, captando una sorta di "memoria stomatologica", Antonio (Sergio Rubini, mattatore) affronta per amore un viaggio onirico, doloroso, verso un nuovo sé, o meglio verso il sé compiuto che non era ancora riuscito a raggiungere. Lo sollecitano, con gioco simmetrico felliniano l'amante, la moglie e la madre, tra odontoiatri sciamani (Paolo Villaggio) e simbologie antropologiche. Con la cinepresa installata idealmente tra l'anima sofferente e la psiche distorta di Antonio, Denti rivisita un cinema del soggetto che ha, in un secolo di storia, pionieri come Murnau e Lang, virtuosi geni come Welles, epigoni digitali come Scorsese e Coppola. Un film sull'invisibile sensoriale tattile suscitato dall'audio-visibile. Prova difficile, quasi riuscita.
Da Il Giorno, 14 ottobre 2000



Irene Bignardi La Repubblica

Antonio, il protagonista di Denti, è un bambino infelice. Con la faccia di bambino per poche sequenze. Con quella dell'adulto Sergio Rubini per il resto del film. Ma un bambino lo stesso, perché si porta dietro una profonda infelicità che lo spinge a non accettarsi. Ufficialmente per i suoi orrendi incisivi, che lo vedremo combattere e minacciare per tutto il film, nel tentativo di modificarne il protuberante aspetto, tra il pesce predatore e il conigliaccio. Nel profondo perché Antonio trova nei suoi dentacci il pretesto per rinviare il distacco dai giacimenti sentimentali dell'infanzia, tra cui campeggia in tutta la sua dolcissima nostalgia la bella mamma Anouk Grinberg, che se n'è andata troppo presto lasciando Antonio un essere monco. [+]
Antonio, il protagonista di Denti, è un bambino infelice. Con la faccia di bambino per poche sequenze. Con quella dell'adulto Sergio Rubini per il resto del film. Ma un bambino lo stesso, perché si porta dietro una profonda infelicità che lo spinge a non accettarsi. Ufficialmente per i suoi orrendi incisivi, che lo vedremo combattere e minacciare per tutto il film, nel tentativo di modificarne il protuberante aspetto, tra il pesce predatore e il conigliaccio. Nel profondo perché Antonio trova nei suoi dentacci il pretesto per rinviare il distacco dai giacimenti sentimentali dell'infanzia, tra cui campeggia in tutta la sua dolcissima nostalgia la bella mamma Anouk Grinberg, che se n'è andata troppo presto lasciando Antonio un essere monco. Non facile fare da questa storia - che deriva dal libro di Domenico Starnone - un film. E Gabriele Salvatores, a metà strada tra l'esperienza "digitale" di Nirvana e l'annunciato horrormystery dal romanzo di Amitav Gosh, Il cromosoma Calcutta, corre un rischio calcolato. Perché Denti non è certo un film "per tutti". Non per quelli che hanno paura dei dentisti, di cui Denti ci propone un campionario che culmina nel "Mangiafoco" interpretato grandiosamente da Paolo Villaggio, così bravo e terrificante (ma alla fine benefico) da battere perfino i suoi colleghi di La piccola bottega degli orrori. Non per quelli che hanno paura di una storia che esce dai consueti limiti beneducati del cinema italiano. In questo singolare e grottesco Bildungsroman, sotto l'odissea odontoiatrica che inizia quando Anita Caprioli, la morosa di Antonio, gli tira sui dentoni un portacenere, costringendolo a iniziare le sue peregrinazioni da uno studio all'altro, Salvatores costruisce una favola nera sulla difficoltà di crescere che a poco a poco assume intonazioni cronenberghiane. Ma, riscoperta la vecchia tecnica infantile di spiare le immagini che fanno paura tra le dita, superata la paura, si constata che i limiti del film non stanno tanto nelle immagini cruente che possono dare fastidio, quanto in una certa indeterminatezza del ritratto di Antonio - a cui pure Rubini si presta con un raro coraggio e con una nevrosi eccellente - e in una matrice letteraria, voce off compresa, che stride con l'atmosfera cruenta. In questo audace pastiche umanisticodigitale, che Salvatores ambienta in una Napoli onirica ibridata con Roma, si ritagliano uno spazio a parte la dolcissima mamma Anouk Grinberg (responsabile per troppa dolcezza del blocco emotivo del figlio?) e l'adorabile zio Fabrizio Bentivoglio, che dà la più bella lezione di tango della storia del cinema. E, per quanto nero e cupo, sanguinoso e corporale, Denti ci dà comunque una bella notizia: la palingenesi (e la ritrovata normalità) di Antonio comincia con la scoperta che esiste - pare che sia vero - una terza dentizione. Non è mai troppo tardi.
Da La Repubblica, 14 ottobre 2000




Lietta Tornabuoni La Stampa

Il bisogno di essere amati fa diventare fragili e violenti", dice il protagonista. Lasciata la famiglia, Sergio Rubini è andato a vivere con una ragazza amatissima della quale è molto geloso: non tanto per amore, sospetto o senso di possesso, quanto per timore della propria inadeguatezza nel confronto con altri uomini o con quella parte della vita di lei che non lo coinvolge. Questa inadeguatezza nasce da due principali ragioni: da bambino ha amato molto la bella madre, ne è stato amato ma anche frustrato; è nato con due forti, grossi, incomodi denti incisivi che lo imbruttiscono sin dall'infanzia. Durante una delle continue liti, la ragazza grida: "La tua bocca fa schifo!" e a colpi di pesante portacenere gli spacca i due incisivi. [+]
Il bisogno di essere amati fa diventare fragili e violenti", dice il protagonista. Lasciata la famiglia, Sergio Rubini è andato a vivere con una ragazza amatissima della quale è molto geloso: non tanto per amore, sospetto o senso di possesso, quanto per timore della propria inadeguatezza nel confronto con altri uomini o con quella parte della vita di lei che non lo coinvolge. Questa inadeguatezza nasce da due principali ragioni: da bambino ha amato molto la bella madre, ne è stato amato ma anche frustrato; è nato con due forti, grossi, incomodi denti incisivi che lo imbruttiscono sin dall'infanzia. Durante una delle continue liti, la ragazza grida: "La tua bocca fa schifo!" e a colpi di pesante portacenere gli spacca i due incisivi. Pellegrinando da un dentista all'altro, da quello supermoderno (è un amico della ragazza, lui sospetta un amante) a quello superantiquato (è Paolo Villaggio), nella nebbia generata dagli analgesici che confonde passato e presente, alla fine scopre che sotto i maledetti incisivi, sotto le gengive gonfie e sporgenti, c'è un'altra dentatura del tutto normale, ben fatta, da uomo come tanti. La malattia infantile è guarita. Tratta dal libro di Domenico Starnone, la storia è una metafora del distacco dall'infanzia e dall'adolescenza, del doloroso passaggio all'età adulta, matura; e magari è pure una metafora del distacco necessario di Gabriele Salvatores dalla ironica divertita commedia generazionale d'amicizie e di amori ( Kamikazen, Marrakech Express, Tournée), un distacco già tentato attraverso il realismo di Sud e l'avvenirismo di Nirvana per andare oltre nella forma espressiva, per conquistare una maturità. Nella trascrizione dalla scrittura allo schermo, però, la metafora acquista una grevità materiale, una pesantezza inadeguata che rendono il film poco riuscito, lambiccato e faticoso: e infatti gli interpreti, specialmente il protagonista Sergio Rubini, appaiono insicuri, smarriti.
Da La Stampa, 13 ottobre 2000

Purtropo si trova molto più sul film che sul libro

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