Discreto e continuo
Ciao a tutti,
vorrei condividere con chi fosse interessato un pensiero. Personalmente studio matematica in solitaria da tantissimo tempo, soprattutto allo scopo di capire, a livello fondazionale, tutte le tecniche che mi hanno fatto vedere all'universita o che mi servono oggi sul lavoro. Tuttavia, mi accorgo che per giustificare dei passaggi che ingegneristicamente si ritengono sufficientemente 'ovvi', bisogna fare un lavoro di costruzione concettuale molto grande, che (per come la vedo io) spesso allontana anche da quella che era l'idea semplice e genuina iniziale.
Ho inoltre riflettuto sul fatto che queste ultime (le idee semplici e genuine) vengono da immagini mentali che lavorano sostanzialmente sempre (almeno per me) con un numero finito di oggetti che immagino di poter 'aggrappare'. Eppure, volendole poi trasporre nei casi generali, spesso nel continuo, ci si scontra con una complessità disarmante.
La domanda che ho posto a me stesso, e che riporto ora anche a voi, è diventata dunque: c'è un reale motivo per cui non sia possibile produrre una strumentazione teorica, che fornisca una descrizione dei problemi soddisfacente/sufficientemente accurata, semplice da manipolare (attuale e provinciale scopo, egoistico, della matematica per quanto riguarda il suo utlizzo come strumento descrittivo dei fenomeni di natura) e aderente strettamente alle idee genuine che abbiamo nella testa?
Questa riflessione mi è venuta come analogia di un fatto che ho osservato e coltivato poi personalmente. Pensiamo alla teoria delle distribuzioni, in particolare a quanto sia semplice ('genuina') l'idea della delta di Dirac. Come immagine mentale, è facilissima da immaginare, basta pensare alla densità di una carica che si stringe. Eppure, la formalizzazione matematica di Schwartz della stessa idea è tutt'altro che semplice. Usando un diverso approccio però (a parità di idea di fondo), ovvero quello delle famiglie di funzioni buone approssimanti, la teoria matematica si semplifica di diversi ordini di grandezza e la vastità di applicazione non cambia.
Per analogia, mi domandavo: è troppo assurdo pensare l'analisi stessa attraverso oggetti e concetti di natura discreta, e vedere il continuo e tutto ciò che opera su di esso solo attraverso 'famiglie approssimanti' di impostazioni discrete al problema? Tradotto: non manipolo direttamente oggetti infiniti, ma faccio tutto con insiemi discreti semplici e solo alla fine vado al limite.
Ad esempio, quanto sarebbe grave pensare a quella che per noi oggi è una [tex]f:\mathbb{R}\to \mathbb{R}[/tex] come:
[tex]f := \{f_n:D_n\subset\mathbb{Q} \to \mathbb{Q}\}_{n\in\mathbb{N}}[/tex]
dove il dominio [tex]D_n[/tex] dell'n-esima funzione della famiglia consta di un numero finito di punti e magari [tex]D_{n+1} \supset D_n[/tex], con [tex]\{D_n\}_{n\in\mathbb{N}}[/tex] che invade [tex]\mathbb{Q}[/tex].
In questo modo ogni problema viene trattato nel discreto, un discreto sempre più denso, e la famiglia dei risultati (eventualmente) viene mandata al limite. Il fatto che i reali non sono numerabili, è il motivo per cui i punti di definizione sono sempre di natura razionale. Ciò però non mi ha spaventato concettualmente, perché per me gli stessi reali sono famiglie di razionali approssimanti, per cui non mi suona male pensare che:
[tex]f(\underbrace{x}_{\in\mathbb{R}}):= \lim_{m\to\infty} f(r_m) := \lim_{m\to\infty} \lim_{n\to\infty} f_n(r_m)[/tex]
Certo, verrebbe meno la possibilità a priori di poter definire casi quali ad esempio la funzione di Dirichlet, ma (forse per mio limite) non ne ho mai sentito veramente l'utilità applicativa.
La derivata diverrebbe per definizione la famiglia dei rapporti incrementali discreti tra i punti di ogni [tex]D_n[/tex], l'integrale diverrebbe la famiglia delle somme pesata con le distanze che separano i punti dentro [tex]D_n[/tex], e così via... Ogni volta che poi c'è bisogno di passare al limite, ci si passa, ma non si manipolano mai oggetti direttamente nel continuo o direttamente infiniti. Credo che sia da qui che, magari, potrebbe scaturire la semplificazione delle eventuali dimostrazioni inquadrate in quest'ottica, nonché la stretta aderenza delle nostre intuizioni con la loro formalizzazione.
Quanto è semplice la dimostrazione della legge dello statisco incosciente nel discreto finito, e quanto è difficile nel continuo utilizzando l'integrale di Riemann (*)? C'è una differenza di farraginosità veramente grossa (sempre, almeno nella mia ottica probabilmente limitata).
Che voi sappiate, esiste già qualcosa del genere che potrei andare a leggere? Magari (sicuramente) è un buco nell'acqua e qualcuno lo ha già notato.
(*) la dimostrazione che usa l'integrazione secondo Lebesgue torna ad essere immediata, ma non è però altrettanto semplice tutto il substrato teorico della teoria della misura e dell'integrale di Lebesgue, che non vede più l'integrazione come la immaginiamo genuinamente nell'immagine mentale di 'sommare pezzettini'. Bisogna infatti ricorrere al concetto di 'misurare' sottinsiemi di [tex]\mathbb{R}[/tex] che, nell'intuizione genuina, hanno veramente poco a che fare col 'prendere una misura' (penso ad esempio agli insiemi grassi di Cantor).
vorrei condividere con chi fosse interessato un pensiero. Personalmente studio matematica in solitaria da tantissimo tempo, soprattutto allo scopo di capire, a livello fondazionale, tutte le tecniche che mi hanno fatto vedere all'universita o che mi servono oggi sul lavoro. Tuttavia, mi accorgo che per giustificare dei passaggi che ingegneristicamente si ritengono sufficientemente 'ovvi', bisogna fare un lavoro di costruzione concettuale molto grande, che (per come la vedo io) spesso allontana anche da quella che era l'idea semplice e genuina iniziale.
Ho inoltre riflettuto sul fatto che queste ultime (le idee semplici e genuine) vengono da immagini mentali che lavorano sostanzialmente sempre (almeno per me) con un numero finito di oggetti che immagino di poter 'aggrappare'. Eppure, volendole poi trasporre nei casi generali, spesso nel continuo, ci si scontra con una complessità disarmante.
La domanda che ho posto a me stesso, e che riporto ora anche a voi, è diventata dunque: c'è un reale motivo per cui non sia possibile produrre una strumentazione teorica, che fornisca una descrizione dei problemi soddisfacente/sufficientemente accurata, semplice da manipolare (attuale e provinciale scopo, egoistico, della matematica per quanto riguarda il suo utlizzo come strumento descrittivo dei fenomeni di natura) e aderente strettamente alle idee genuine che abbiamo nella testa?
Questa riflessione mi è venuta come analogia di un fatto che ho osservato e coltivato poi personalmente. Pensiamo alla teoria delle distribuzioni, in particolare a quanto sia semplice ('genuina') l'idea della delta di Dirac. Come immagine mentale, è facilissima da immaginare, basta pensare alla densità di una carica che si stringe. Eppure, la formalizzazione matematica di Schwartz della stessa idea è tutt'altro che semplice. Usando un diverso approccio però (a parità di idea di fondo), ovvero quello delle famiglie di funzioni buone approssimanti, la teoria matematica si semplifica di diversi ordini di grandezza e la vastità di applicazione non cambia.
Per analogia, mi domandavo: è troppo assurdo pensare l'analisi stessa attraverso oggetti e concetti di natura discreta, e vedere il continuo e tutto ciò che opera su di esso solo attraverso 'famiglie approssimanti' di impostazioni discrete al problema? Tradotto: non manipolo direttamente oggetti infiniti, ma faccio tutto con insiemi discreti semplici e solo alla fine vado al limite.
Ad esempio, quanto sarebbe grave pensare a quella che per noi oggi è una [tex]f:\mathbb{R}\to \mathbb{R}[/tex] come:
[tex]f := \{f_n:D_n\subset\mathbb{Q} \to \mathbb{Q}\}_{n\in\mathbb{N}}[/tex]
dove il dominio [tex]D_n[/tex] dell'n-esima funzione della famiglia consta di un numero finito di punti e magari [tex]D_{n+1} \supset D_n[/tex], con [tex]\{D_n\}_{n\in\mathbb{N}}[/tex] che invade [tex]\mathbb{Q}[/tex].
In questo modo ogni problema viene trattato nel discreto, un discreto sempre più denso, e la famiglia dei risultati (eventualmente) viene mandata al limite. Il fatto che i reali non sono numerabili, è il motivo per cui i punti di definizione sono sempre di natura razionale. Ciò però non mi ha spaventato concettualmente, perché per me gli stessi reali sono famiglie di razionali approssimanti, per cui non mi suona male pensare che:
[tex]f(\underbrace{x}_{\in\mathbb{R}}):= \lim_{m\to\infty} f(r_m) := \lim_{m\to\infty} \lim_{n\to\infty} f_n(r_m)[/tex]
Certo, verrebbe meno la possibilità a priori di poter definire casi quali ad esempio la funzione di Dirichlet, ma (forse per mio limite) non ne ho mai sentito veramente l'utilità applicativa.
La derivata diverrebbe per definizione la famiglia dei rapporti incrementali discreti tra i punti di ogni [tex]D_n[/tex], l'integrale diverrebbe la famiglia delle somme pesata con le distanze che separano i punti dentro [tex]D_n[/tex], e così via... Ogni volta che poi c'è bisogno di passare al limite, ci si passa, ma non si manipolano mai oggetti direttamente nel continuo o direttamente infiniti. Credo che sia da qui che, magari, potrebbe scaturire la semplificazione delle eventuali dimostrazioni inquadrate in quest'ottica, nonché la stretta aderenza delle nostre intuizioni con la loro formalizzazione.
Quanto è semplice la dimostrazione della legge dello statisco incosciente nel discreto finito, e quanto è difficile nel continuo utilizzando l'integrale di Riemann (*)? C'è una differenza di farraginosità veramente grossa (sempre, almeno nella mia ottica probabilmente limitata).
Che voi sappiate, esiste già qualcosa del genere che potrei andare a leggere? Magari (sicuramente) è un buco nell'acqua e qualcuno lo ha già notato.
(*) la dimostrazione che usa l'integrazione secondo Lebesgue torna ad essere immediata, ma non è però altrettanto semplice tutto il substrato teorico della teoria della misura e dell'integrale di Lebesgue, che non vede più l'integrazione come la immaginiamo genuinamente nell'immagine mentale di 'sommare pezzettini'. Bisogna infatti ricorrere al concetto di 'misurare' sottinsiemi di [tex]\mathbb{R}[/tex] che, nell'intuizione genuina, hanno veramente poco a che fare col 'prendere una misura' (penso ad esempio agli insiemi grassi di Cantor).
Risposte
Molti, se non tutti, teoremi elementari di analisi si possono dimostrare solo grazie al fatto che R è completo. Anche, la teoria dell'integrazione risulta difficile avendo solo approssimanti razionali (molte meno funzioni saranno misurabili per praticamente qualsiasi sigma algebra sensata...). Poi sicuramente non vuoi le tue funzioni da Q a valori in Q, perché altrimenti esse sono solo parzialmente definite (esponenziale e la sua inversa manco esistono... Per non parlare del fatto che il minimo zero strettamente positivo della funzione seno è... Che numero? Come l'hai chiamato?)
Le tue obiezioni sono chiare, non so se si riesce a trovare una risposta seria, probabilmente no e la questione è chiusa.
Quello che non riesce ad andarmi giù è il dover accettare che dobbiamo sostanzialmente diffidare dalle nostre idee semplici e genuine. In fin dei conti, è da lì che parte tutto, eppure poi percorriamo talmente tanta strada per "far sì che le cose siano dimostrate formalmente" che alla fine, guardando indietro, quell'intuizione quasi non si vede più.
Vabè, ci dovrò fare l'abitudine, c'è poco da fare. A quanto pare è una difficoltà intrinseca, non una difficoltà indotta dalla nostra impostazione ai problemi.
Grazie per la risposta.
Quello che non riesce ad andarmi giù è il dover accettare che dobbiamo sostanzialmente diffidare dalle nostre idee semplici e genuine. In fin dei conti, è da lì che parte tutto, eppure poi percorriamo talmente tanta strada per "far sì che le cose siano dimostrate formalmente" che alla fine, guardando indietro, quell'intuizione quasi non si vede più.
Vabè, ci dovrò fare l'abitudine, c'è poco da fare. A quanto pare è una difficoltà intrinseca, non una difficoltà indotta dalla nostra impostazione ai problemi.
Grazie per la risposta.
Qualche parvenza di equivalente dell'analisi nel discreto c'è, funzioni $->$ successioni, derivate $->$ differenze, integrali $->$ somme, equazioni differenziali $->$ equazioni alle differenze e ci sono molte analogie ma anche molte differenze.
"Silent":
Le tue obiezioni sono chiare, non so se si riesce a trovare una risposta seria, probabilmente no e la questione è chiusa.
Quello che non riesce ad andarmi giù è il dover accettare che dobbiamo sostanzialmente diffidare dalle nostre idee semplici e genuine. In fin dei conti, è da lì che parte tutto, eppure poi percorriamo talmente tanta strada per "far sì che le cose siano dimostrate formalmente" che alla fine, guardando indietro, quell'intuizione quasi non si vede più.
Vabè, ci dovrò fare l'abitudine, c'è poco da fare. A quanto pare è una difficoltà intrinseca, non una difficoltà indotta dalla nostra impostazione ai problemi.
Grazie per la risposta.
In realtà questa discretizzazione di cui tu parli è esattamente quello che viene fatto comunemente sia a livello numerico, per ovvi motivi, sia a livello teorico. Tutte le definizioni dell'analisi vengono date partendo da un oggetto discreto da mandare poi al limite. Un integrale è un "limite" di somme, una derivata un "limite" di differenze, e sto usando le virgolette perché questo concetto di limite va specificato. E non sempre è ovvio. A seconda della maniera con cui prendi il limite potresti avere risultati diversi.
Per dare un primo esempio, più classico, ricordo che sui libri di Serge Lang si costruiscono l'integrale di Riemann e quello di Lebesgue seguendo esattamente lo stesso procedimento di discretizzazione ma inserendo una diversa nozione di limite. L'integrale di Riemann usa una nozione più naif, basata sulla convergenza uniforme. Quello di Lebesgue usa una nozione di convergenza che a posteriori chiamiamo "convergenza in \(L^1\)".
L'esempio precedente potrebbe non essere illuminante, visto che in fondo della differenza tra le nozioni di integrale non è che ce ne importi più di tanto, è solo un vezzo storico. Ma consideriamo allora quest'altro esempio:
\[
\sum_{n=1}^\infty n = +\infty,\quad
\sum_{n=1}^\infty n = -\frac 1 {12}.\]
Quale dei due risultati è corretto? Risposta: dipende dalla nozione di limite. E qui non posso resistere alla tentazione di linkare il blog di Terry Tao:
https://terrytao.wordpress.com/2010/04/ ... tinuation/
"Silent":
Quello che non riesce ad andarmi giù è il dover accettare che dobbiamo sostanzialmente diffidare dalle nostre idee semplici e genuine. In fin dei conti, è da lì che parte tutto, eppure poi percorriamo talmente tanta strada per "far sì che le cose siano dimostrate formalmente" che alla fine, guardando indietro, quell'intuizione quasi non si vede più.
Capisco che tu ti riferisci a una situazione di ricerca scientifica, e della matematica "come strumento descrittivo dei fenomeni naturali", e che lì venga probabilmente in mente più naturalmente il discreto.
Ma in generale, che alla mente umana sia più vicina l'idea di discreto che di continuo, mi sembra dubbio.
La nostra percezione del mondo fisico è da un lato discreta, vediamo oggetti staccati gli uni dagli altri, e li si può anche contare (nelle civiltà che sanno contare).
Però la percezione dello spazio e degli oggetti nello spazio e del mondo è anche spontaneamente continua, noi immaginiamo un blocco di materia come qualcosa di continuo, l'idea dell'atomo non ci si impone spontaneamente.
E istintivamente pensiamo a qualcosa di infinitamente divisible, la cui natura, boh, non è che ci capiamo molto, da cui tutto l'amabaradan degli infinitesimi.
C'è una percezione del mondo e dello spazio come un unicum, qualcosa continuo, e insieme discreto: c'è la sedia, poi c'è l'aria, poi un'altra cosa, ma tutto attaccato: l'idea di vuoto non è spontanea, e ha sempre fatto vacillare la mente.
La stessa idea di retta continua è istintiva.
Poi, quando è stato necessario definirne concettualmente l'essenza, della retta e del continuo, là sono comiciato i dolori.
Insomma, non sono affatto sicura che la nostra mente privilegi il discreto al continuo, ma credo che sia costretta a passare dal continuo al discreto e viceversa, perché entrambi le si impongono naturalmente.
C'è una domanda filosofica, di Leonardo Da Vinci, che a me fa impazzire:
"Che è che adunque divide l'aria dall'acqua? È necessario che sia un termine comune che non è d'aria né d'acqua, ma incorporeo, perché un corpo interposto infra due corpi proibisce il loro contatto, il che non accade nell'acqua coll'aria... Adunque una superfizie è un termine comune di due corpi che sien continui, né participa né dell'uno né dell'altro, perché, se la superfizie fussi parte, ella avrebbe grossezza divisibile, il che non essendo divisibile, el nulla divide tali corpi l'un dall'altro."
Sembra avere una idea di una superficie come una astrazione, senza massa fisica divisibile.
Ma è difficile arrabbattarsi, in una situazione effettivamente poco comprensibile, perché rifiuta il discontinuo tra i due corpi, i corpi sono in contatto, ma sono allo stesso tempo separati.
Cioè, noi vediamo il mondo come un continuum, ma in cui gli oggetti sono distinti e separati, ma come e da che?
Cos'è una superficie? Si diventa scemi.
Come si risponde e come si riponderebbe con le conoscenze matematiche attuali? Forse due insiemi aperti (senza bordo), tra cui però non c'è un buco, tipo un piano a cui togli una retta.
Mi fermo con il pippone filosofico.
Volevo ricordarti che c'è un libro di Paolo Zellini proprio dedicato la tema del discreto e continuo in matematica, si chiama appunto, Discreto e continuo. Storia di un errore, del 2022, Adelphi.
Paolo Zellini, credo che lo conosci, è di una cultura pazzesca, perché è un matematico che insegna analisi numerica, quindi il dicreto lo conosce bene, ma spazia da Aristotele agli altari vedici, a Rabelais, alla filosofia antica in genere, e poi ovviamente tutta la storia della matematica.
L'errore di cui parla è l'idea che siamo abituati, nella storia del pensiero e nella tradizione filosofica, "a pensare il continuo come un primum, un insieme ideale e autosufficiente, da cui ogni cosa ha origine". Eppure "ciò che conosciamo effettivamente è il discreto, e tutto il calcolo moderno si basa sull'informazione insita nella serie di numeri che approssimano elementi di un continuo".
Ricorda un po' quello che diceva dissonance nel suo post sopra.
In particolare c'è, ad esempio, il capitolo su 'Limiti e continutà: origine algoritmica', in cui dice, tra le altre cose, che le definizioni con $\epsilon -\delta$ lasciano vedere l'origine algoritmica, quindi discreta, dei concetti.
Insomma, è un libro sulla matematica piuttosto denso.
Ora me lo hai ricordato, e devo ricordarmi di leggerlo, non l'ho letto.
Cos'è una superficie? Si diventa scemi.Questa domanda (difficile) non ha assolutamente niente a che vedere con la dualità tra discreto e continuo.
Ora me lo hai ricordato, e devo ricordarmi di leggerlo, non l'ho letto.Buona idea: potrebbe aiutarti a non dimenticare che gli sviluppi di Mac Laurin si fanno attorno a zero, e non hanno senso altrove; cosa che ricorda chiunque abbia sostenuto con profitto un primo esame di analisi.
Scusa, che c'entrano gli sviluppi di Mac Laurin? Che ci azzecca tirarli fuori in questo thread? E per favore non offendere e modera i toni.
È da grandi maleducati tirare fuori una cosa che non c'entra con il thread tanto per criticare, pure a vanvera.
In quel thread avevo solo pensato che l'OP aveva sbagliato a scrivere lo sviluppo, è chiaro che lo so che è intorno a $0$. Non hai nemmeno letto il post dopo in cui dicevo proprio questo, e ti permetti di parlare.
Credi non lo so cosa sono gli sviluppi di mac Laurin, o sono un imbecille che confonde le superfici in matematica con altre cose?
Non sei l'unico intelligente al mondo, e io sono troppo signorile per mettermi a vantarmi qui, e raccontare miei trascorsi, e anche di quello che dicevano di me professori del dipartimento di matematica della Sapienza, mi è stato anche proposto parecchi anni fa di lasciare l'economia e fare ricerca in matematica, con uno di loro.
Mo' piantala davvero, eh? Non posso sempre stare a sorridere al tuo modo di fare, ora mi hai seccato.
Le superfici hanno a che vedere con discreto e continuo, leggi la citazione di Leonardo, e quello che ho detto prima e dopo. Hanno a che vedere con la connessione-separazione delle cose, scordati per un momento il linguaggio matematico, non pensare alle superfiici in matematica che ora non c'entrano niente, c'è letteratura filosofica sull'argomento che non c'entra con la matematica.
Sei tu che non lo sai.
È da grandi maleducati tirare fuori una cosa che non c'entra con il thread tanto per criticare, pure a vanvera.
In quel thread avevo solo pensato che l'OP aveva sbagliato a scrivere lo sviluppo, è chiaro che lo so che è intorno a $0$. Non hai nemmeno letto il post dopo in cui dicevo proprio questo, e ti permetti di parlare.
Credi non lo so cosa sono gli sviluppi di mac Laurin, o sono un imbecille che confonde le superfici in matematica con altre cose?
Non sei l'unico intelligente al mondo, e io sono troppo signorile per mettermi a vantarmi qui, e raccontare miei trascorsi, e anche di quello che dicevano di me professori del dipartimento di matematica della Sapienza, mi è stato anche proposto parecchi anni fa di lasciare l'economia e fare ricerca in matematica, con uno di loro.
Mo' piantala davvero, eh? Non posso sempre stare a sorridere al tuo modo di fare, ora mi hai seccato.
Le superfici hanno a che vedere con discreto e continuo, leggi la citazione di Leonardo, e quello che ho detto prima e dopo. Hanno a che vedere con la connessione-separazione delle cose, scordati per un momento il linguaggio matematico, non pensare alle superfiici in matematica che ora non c'entrano niente, c'è letteratura filosofica sull'argomento che non c'entra con la matematica.
Sei tu che non lo sai.
Sì, hai ragione, è stata una uscita un po' troppo cattiva. Scusa.
Ti ho anche scritto in privato.
Ti ho anche scritto in privato.
Cos'è una superficie? Si diventa scemi.
Come si risponde e come si riponderebbe con le conoscenze matematiche attuali?
Quello che posso dire sulle superfici è proprio che la risposta che si dà in matematica alla domanda "cosa siano" non ha nulla a che spartire con la dualità tra discreto e continuo. Per esempio, il piano di Fano possiede 7 punti (qualsiasi sia il significato della parola "continuo", finito non è continuo, oppure anche questo è dibattibile?), ed è "una superficie" (anche di un tipo completamente elementare, nel senso che è un piano) quando viene immerso nello spazio di "dimensione" 3. Definire le parti virgolettate è difficile, non me lo aspetto da Leonardo o da Euclide perché sarebbe anacronistico, ma nel 2024 penso che possedere proprio questi esempi limite sia necessario a parlare del problema con cognizione di causa. Fanno apprezzare quanto sia elusivo il problema del definire cosa diavolo sia la geometria.
C'è poi l'altro problema, cioè determinare quale sia precisamente la struttura dello spazio fisico, se discreta o continua. Non credo di sapere abbastanza per non far apparire ridicolmente disinformata la mia risposta, nel senso che finché uno usa la fisica classica nessun problema. A piccole scale, inizia il caos.
Ma infatti, quello che sottolineavo nel post precedente è che è un discorso che non c'entra con la matematica, ma è un discorso filosofico (che non ho inventato io).
Per chiarire: in realtà la parola usata dai filosofi non è in genere superficie, anche se si ritrova spesso anche questa, ma boundary.
E, appunto, non ha a che vedere con superficie in matematica.
Qui sotto la voce boundary nella Stanford Enc. of Philosophy , di Achille Varzi, filosofo italiano che insegna logica e metafisica alla Columbia University (da un libro del quale ho preso la citazione di Leonardo sopra).
La voce illustra appunto il problema filosofico del confine, e anche le sue connessioni con il problema del continuo.
È collegato a una branca della filosofia che si chiama mereologia, cioè lo studio del rapporto tra tutto e parti, di cui Varzi è un noto studioso.
https://plato.stanford.edu/entries/boundary/
Chiedevo se la matematica potesse dare un contributo, uno sguardo diverso, ma appunto la riposta è 'no', da quello che dici.
Comunque io non parlavo di come è lo spazio fisico per la fisica, ma di come l'idea di continuo e discreto si impone istintivamente alla mente umana, al'uomo comune.
Di cui mi ero scordata una cosa molto importante: noi percepiamo anche il tempo come continuo.
Naturalmente, come sia lo spazio fisico per la fisica, è una questione, mi sembra, enorme, di cui non so dire veramente nulla.
Per chiarire: in realtà la parola usata dai filosofi non è in genere superficie, anche se si ritrova spesso anche questa, ma boundary.
E, appunto, non ha a che vedere con superficie in matematica.
Qui sotto la voce boundary nella Stanford Enc. of Philosophy , di Achille Varzi, filosofo italiano che insegna logica e metafisica alla Columbia University (da un libro del quale ho preso la citazione di Leonardo sopra).
La voce illustra appunto il problema filosofico del confine, e anche le sue connessioni con il problema del continuo.
È collegato a una branca della filosofia che si chiama mereologia, cioè lo studio del rapporto tra tutto e parti, di cui Varzi è un noto studioso.
https://plato.stanford.edu/entries/boundary/
Chiedevo se la matematica potesse dare un contributo, uno sguardo diverso, ma appunto la riposta è 'no', da quello che dici.
Comunque io non parlavo di come è lo spazio fisico per la fisica, ma di come l'idea di continuo e discreto si impone istintivamente alla mente umana, al'uomo comune.
Di cui mi ero scordata una cosa molto importante: noi percepiamo anche il tempo come continuo.
Naturalmente, come sia lo spazio fisico per la fisica, è una questione, mi sembra, enorme, di cui non so dire veramente nulla.
Altre cose che mi vengono in mente:
- in questo paper http://www.tac.mta.ca/tac/volumes/20/10/20-10.pdf Freyd caratterizza una proprietà universale per l'intervallo unitario chiuso \([0,1]\), come coalgebra terminale; qui viene tutto spiegato bene https://ncatlab.org/nlab/show/coalgebra ... l+interval
- questa faccenda è in realtà generale: nella rappresentazione come frazioni continue, i numeri reali sono cartterizzabili come coalgebre terminali (click) e anche il loro tipo d'ordine (click). Altrettanto succede ai numeri $p$-adici: https://arxiv.org/abs/1504.01408
Potrei parlare a lungo del motivo secondo cui per me succede, ma ora non ho tempo e hanc marginis eccetera. Mi limito a screenshottare l'introduzione dell'articolo di Vaughan e Dusko (che, per inciso, è mooolto piu stronzo di me
)
Quindi, detta pane al pane: le strutture continue sono esattamente quelle definibili coinduttivamente. (Anche qui potrei parlare molto del motivo: ma bisogna masticare un po' di logica, oltreché di CT, oltreché di topologia generale, oltreché...; mi limito a notare che questa maniera di vedere la situazione è (a) dirompente -ha generato una letteratura sterminata che ora non ho tempo di rintracciare su connectedpapers.com- e affascinante e (b) possibile solo in seno alla matematica strutturale: cioè, questi teoremi, senza le categorie, non esistono, né questo punto di vista è esprimibile.)
Come è comprensibile, questa maniera di vedere i numeri reali, cioè strutture prettamente continue, come limiti di strutture discrete, ha catturato l'attenzione di un sacco di theoretical computer scientist. L'idea non è diversa da quella degli analisti numerici.
Secondo me questo tipo di applicazione della teoria delle categorie è la più "onesta", dato che ha delle ricadute immediate ed è matematica comunque estremamente raffinata. Tanto piu che quello che reputo uno dei migliori articoli mai scritti https://arxiv.org/abs/1010.4474 congettura che a essere coalgebre terminali siano una vasta classe di insiemi di Julia (!), tra cui praticamente tutti quelli noti al grande pubblico.
Ho altre cose da dire: per esempio la dualità discreto continuo si apprezza in un tema che mi è molto caro, la teoria delle specie combinatorie e funzioni generatrici (altro posto dove è di effetto dirompente usare idee categoriali). Per esempio, esiste una teoria immensa, quella degli operatori di Rota-Baxter https://en.wikipedia.org/wiki/Rota-Baxter_algebra che esprime algebricamente (in complemento alla teoria dell algebre differenziali) gli operatori integrali. Su questa cosa si fa ricerca oggi, nel senso che questo preprint https://arxiv.org/abs/2401.08223 è uscito quarantott'ore fa.
Nel contesto delle specie, quello che si fa è attaccare a un oggetto definito in maniera combinatoria (per esempio la successione dei numeri di Bernoulli, la successione doppia dei binomiali, dei multinomiali, la statistica di Schubert (il matematico Hermann, non il musicista Franz) una serie formale. Le proprietà analitiche (il raggio di convergenza, la particolare funzione analitica a cui la serie converge, se lo fa, la sua derivata formale,...) vengono tutte collegate a proprietà combinatorie della successione dei numeri di cui prima. Tecnica nota da secoli, che però ha trovato linfa enorme nell'essere vista come una procedura categoriale.
Poi: Bill Lawvere, nell'ultima parte della sua carriera, ha cercato per molto tempo una assiomatizzazione degli spazi "coesivi", cioè quelli che, oltre a essere degli spazi, sono degli spazi "le cui parti cooperano a una struttura globale coerente" simile alla definizione di varietà data da Riemann (il tedesco di Riemann mi pare di ricordare si traduca come "molteplicità", il russo è многообразие, una cosa tipo "multiforme"). Ci sono diversi fatti sorprendenti, ossia che certe strutture "discrete" (per esempio classi di grafi) andrebbero considerate come capaci di formare "agglomerati coesivi", ma solo se sono grafi riflessivi (!?).
Lawvere voleva usare questo linguaggio come fondamento per la geometria differenziale, ma non è stato ascoltato e il progetto era troppo ambizioso. Ho studiato con una certa attenzione -per il poco che ne ho tratto- quelle idee, perché recentemente Urs Schreiber, un fisico (che detto per inciso, è altrettanto stronzo che me
) ha scritto un gigantesco libro cercando di usare la teoria della coesione assiomatica per fare teoria delle stringhe https://arxiv.org/abs/1310.7930 (come vedete, è poco meno di 800 pagine. Un agile libello!).
Lawvere, comunque, iniziò la sua carriera proprio cercando una assiomatizzazione della meccanica dei continui: ora devo andare, ma alcuni riferimenti bibliografici sono
- Lawvere, F. William, and Stephen H. Schanuel, eds. Categories in continuum physics: Lectures given at a workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Vol. 1174. Springer, 2006.
- Lawvere, F. William. "Categorical algebra for continuum micro physics." Journal of Pure and Applied Algebra 175.1-3 (2002): 267-287.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Walter Noll. "Continuum mechanics and geometric integration theory." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and William O. Williams. "Structure of continuum physics." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Alfred Frölicher. "Cartesian closed categories and analysis of smooth maps." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William. "Toposes of laws of motion." (non riesco a trovarne una versione online, ma esiste)
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Anders Kock. "Introduction to synthetic differential geometry, and a synthetic theory of dislocations." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
Anche senza entrare nello specifico, è evidente il tema comune che anima tutti questi lavori, così come il fatto che è squisitamente difficile fare un'affermazione non banale sul tema.
La rivoluzione concettuale piu profonda del ventesimo secolo è stata proprio quella che ha portato alla ri-definizione del concetto di spazio. Un concetto troppo generale quando lasciato in mano ai matematici puri, che allo stesso tempo però hanno portato diverse idee le quali sono state ogni tanto prese sul serio dagli altri (matemaici meno puri, e fisici).
- in questo paper http://www.tac.mta.ca/tac/volumes/20/10/20-10.pdf Freyd caratterizza una proprietà universale per l'intervallo unitario chiuso \([0,1]\), come coalgebra terminale; qui viene tutto spiegato bene https://ncatlab.org/nlab/show/coalgebra ... l+interval
- questa faccenda è in realtà generale: nella rappresentazione come frazioni continue, i numeri reali sono cartterizzabili come coalgebre terminali (click) e anche il loro tipo d'ordine (click). Altrettanto succede ai numeri $p$-adici: https://arxiv.org/abs/1504.01408
Potrei parlare a lungo del motivo secondo cui per me succede, ma ora non ho tempo e hanc marginis eccetera. Mi limito a screenshottare l'introduzione dell'articolo di Vaughan e Dusko (che, per inciso, è mooolto piu stronzo di me


Quindi, detta pane al pane: le strutture continue sono esattamente quelle definibili coinduttivamente. (Anche qui potrei parlare molto del motivo: ma bisogna masticare un po' di logica, oltreché di CT, oltreché di topologia generale, oltreché...; mi limito a notare che questa maniera di vedere la situazione è (a) dirompente -ha generato una letteratura sterminata che ora non ho tempo di rintracciare su connectedpapers.com- e affascinante e (b) possibile solo in seno alla matematica strutturale: cioè, questi teoremi, senza le categorie, non esistono, né questo punto di vista è esprimibile.)
Come è comprensibile, questa maniera di vedere i numeri reali, cioè strutture prettamente continue, come limiti di strutture discrete, ha catturato l'attenzione di un sacco di theoretical computer scientist. L'idea non è diversa da quella degli analisti numerici.
Secondo me questo tipo di applicazione della teoria delle categorie è la più "onesta", dato che ha delle ricadute immediate ed è matematica comunque estremamente raffinata. Tanto piu che quello che reputo uno dei migliori articoli mai scritti https://arxiv.org/abs/1010.4474 congettura che a essere coalgebre terminali siano una vasta classe di insiemi di Julia (!), tra cui praticamente tutti quelli noti al grande pubblico.
Ho altre cose da dire: per esempio la dualità discreto continuo si apprezza in un tema che mi è molto caro, la teoria delle specie combinatorie e funzioni generatrici (altro posto dove è di effetto dirompente usare idee categoriali). Per esempio, esiste una teoria immensa, quella degli operatori di Rota-Baxter https://en.wikipedia.org/wiki/Rota-Baxter_algebra che esprime algebricamente (in complemento alla teoria dell algebre differenziali) gli operatori integrali. Su questa cosa si fa ricerca oggi, nel senso che questo preprint https://arxiv.org/abs/2401.08223 è uscito quarantott'ore fa.
Nel contesto delle specie, quello che si fa è attaccare a un oggetto definito in maniera combinatoria (per esempio la successione dei numeri di Bernoulli, la successione doppia dei binomiali, dei multinomiali, la statistica di Schubert (il matematico Hermann, non il musicista Franz) una serie formale. Le proprietà analitiche (il raggio di convergenza, la particolare funzione analitica a cui la serie converge, se lo fa, la sua derivata formale,...) vengono tutte collegate a proprietà combinatorie della successione dei numeri di cui prima. Tecnica nota da secoli, che però ha trovato linfa enorme nell'essere vista come una procedura categoriale.
Poi: Bill Lawvere, nell'ultima parte della sua carriera, ha cercato per molto tempo una assiomatizzazione degli spazi "coesivi", cioè quelli che, oltre a essere degli spazi, sono degli spazi "le cui parti cooperano a una struttura globale coerente" simile alla definizione di varietà data da Riemann (il tedesco di Riemann mi pare di ricordare si traduca come "molteplicità", il russo è многообразие, una cosa tipo "multiforme"). Ci sono diversi fatti sorprendenti, ossia che certe strutture "discrete" (per esempio classi di grafi) andrebbero considerate come capaci di formare "agglomerati coesivi", ma solo se sono grafi riflessivi (!?).
Lawvere voleva usare questo linguaggio come fondamento per la geometria differenziale, ma non è stato ascoltato e il progetto era troppo ambizioso. Ho studiato con una certa attenzione -per il poco che ne ho tratto- quelle idee, perché recentemente Urs Schreiber, un fisico (che detto per inciso, è altrettanto stronzo che me

Lawvere, comunque, iniziò la sua carriera proprio cercando una assiomatizzazione della meccanica dei continui: ora devo andare, ma alcuni riferimenti bibliografici sono
- Lawvere, F. William, and Stephen H. Schanuel, eds. Categories in continuum physics: Lectures given at a workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Vol. 1174. Springer, 2006.
- Lawvere, F. William. "Categorical algebra for continuum micro physics." Journal of Pure and Applied Algebra 175.1-3 (2002): 267-287.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Walter Noll. "Continuum mechanics and geometric integration theory." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and William O. Williams. "Structure of continuum physics." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Alfred Frölicher. "Cartesian closed categories and analysis of smooth maps." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
- Lawvere, F. William. "Toposes of laws of motion." (non riesco a trovarne una versione online, ma esiste)
- Lawvere, F. William, Stephen H. Schanuel, and Anders Kock. "Introduction to synthetic differential geometry, and a synthetic theory of dislocations." Categories in Continuum Physics: Lectures given at a Workshop held at SUNY, Buffalo 1982. Springer Berlin Heidelberg, 1986.
Anche senza entrare nello specifico, è evidente il tema comune che anima tutti questi lavori, così come il fatto che è squisitamente difficile fare un'affermazione non banale sul tema.
La rivoluzione concettuale piu profonda del ventesimo secolo è stata proprio quella che ha portato alla ri-definizione del concetto di spazio. Un concetto troppo generale quando lasciato in mano ai matematici puri, che allo stesso tempo però hanno portato diverse idee le quali sono state ogni tanto prese sul serio dagli altri (matemaici meno puri, e fisici).
"megas_archon":
Sì, hai ragione, è stata una uscita un po' troppo cattiva. Scusa.
Ti ho anche scritto in privato.
Grazie mille, megas_archon, ho apprezzato molto e sei stato molto gentile, non è da tutti, davvero.
L'episodio è chiuso

"dissonance":
Tutte le definizioni dell'analisi vengono date partendo da un oggetto discreto da mandare poi al limite
E' vero, ma l'operazione discreta (la somma, il rapporto incrementale, ...) sta già operando sui numeri reali (limiti di oggetti discreti) in maniera diretta. Il mio stupido azzardo era 'potrebbe venire tutto più semplice se operassi solo con oggetti discreti anziché i reali'?
Quello che voglio dire è che nell'analisi classica mandiamo al limite valori di funzioni che manipolano in maniera diretta delle quantità che sono già il limite di qualcos'altro, mentre mi chiedevo se si potessero semplificare le cose facendo il limite una volta sola.
@gabriella127, mi è piaciuto molto ciò che hai scritto nel tuo primo intervento, ti ringrazio. Il libro di Paolo Zellini l'ho comprato e letto un mesetto fa, proprio perché stavo cercando qualcuno che avesse già trattato la questione. Non ho trovato ciò che cercavo, ma è stata comunque una bella lettura.
Purtroppo la mia ignoranza mi impedisce di capire l'ultimo intervento di @megas_archon.
Sopperisco alla mia immensa cultura essendo una persona sgradevole.