Fare luce sul duale

Sk_Anonymous
Lo spazio duale è un argomento che ho sempre fatto fatica a digerire, ma ora è il momento di capire a fondo la questione. Comincio con una domanda che credo sia banale: se ho una base \(\displaystyle \mathcal{V}= \{ v_{1} , v_{2} , v_{3} \} \) di uno spazio vettoriale \(\displaystyle V \) di dimensione \(\displaystyle 3 \), come ricavo la base duale \(\displaystyle \mathcal{V}^{*} \)? E qual è il suo "significato"?

Risposte
Sk_Anonymous
Una base $[hat(T_1),hat(T_2).hat(T_3)]$ del duale può essere questa:

$\{(hat(T_1)(vec(v_1))=1),(hat(T_1)(vec(v_2))=0),(hat(T_1)(vec(v_3))=0):} ^^ \{(hat(T_2)(vec(v_1))=0),(hat(T_2)(vec(v_2))=1),(hat(T_2)(vec(v_3))=0):} ^^ \{(hat(T_3)(vec(v_1))=0),(hat(T_3)(vec(v_2))=0),(hat(T_3)(vec(v_3))=1):}$

In questo modo, un qualsiasi funzionale lineare $[T]$ può essere espresso come combinazione lineare:

$[hat(T)=c_1hat(T_1)+c_2hat(T_2)+c_3hat(T_3)]$

Infatti, essendo $[vecv=lambda_1vec(v_1)+lambda_2vec(v_2)+lambda_3vec(v_3)]$, si ha:

$hat(T)(vec(v))=(c_1hat(T_1)+c_2hat(T_2)+c_3hat(T_3))(lambda_1vec(v_1)+lambda_2vec(v_2)+lambda_3vec(v_3))=$

$=c_1lambda_1hat(T_1)(vec(v_1))+c_1lambda_2hat(T_1)(vec(v_2))+c_1lambda_3hat(T_1)(vec(v_3))+$

$+c_2lambda_1hat(T_2)(vec(v_1))+c_2lambda_2hat(T_2)(vec(v_2))+c_2lambda_3hat(T_2)(vec(v_3))+$

$+c_3lambda_1hat(T_3)(vec(v_1))+c_3lambda_2hat(T_3)(vec(v_2))+c_3lambda_3hat(T_3)(vec(v_3))=$

$=c_1lambda_1+c_2lambda_2+c_3lambda_3$

Sk_Anonymous
Grazie speculor. Quindi, diciamo operativamente e ai fini pratici, la base duale non è formata che dai trasposti dei vettori dello spazio \(\displaystyle V \), dico bene? Quando poi si parla dell'applicazione trasposta \(\displaystyle \phi^{*} \) elemento di \(\displaystyle V^{*} \) si sta parlando, in termini di matrici, della matrice trasposta di \(\displaystyle \phi \)?

Inoltre qual è il senso di introdurre il concetto di spazio duale ( - per quanto riguarda lo spazio ortogonale, sottospazio del duale, mi sono reso conto che la nozione più astratta è di discreta utilità nella comprensione della teoria dello spazio euclideo)?

Sk_Anonymous
"Delirium":

Quindi, diciamo operativamente e ai fini pratici, la base duale non è formata che dai trasposti dei vettori dello spazio \(\displaystyle V \), dico bene?

Se intendi solo questo:

$hatT(vecv)=((c_1,c_2,c_3))((lambda_1),(lambda_2),(lambda_3))$

direi di sì. Anche se, dal mio punto di vista, sarebbe meglio parlare di spazi isomorfi. Voglio dire, gli elementi dello spazio vettoriale di partenza e del suo duale sono concettualmente differenti. Viceversa, quando esprimi gli elementi dei due spazi rispetto alle rispettive basi, le loro componenti sono elementi di $RR^3$.

"Delirium":

Quando poi si parla dell'applicazione trasposta \(\displaystyle \phi^{*} \) elemento di \(\displaystyle V^{*} \) si sta parlando, in termini di matrici, della matrice trasposta di \(\displaystyle \phi \)?

Ricordo la definizione di trasposto nel caso in cui si abbiano operatori lineari, non funzionali lineari. Onestamente, in quest'ultimo caso, faccio fatica ad attribuirgli un senso.

dissonance
Confermo l'interpretazione delle forme lineari come vettori riga. Il duale di \(\mathbb{K}^n\) si può interpretare proprio così, e ad esso si possono ricondurre tutti gli spazi duali di spazi vettoriali di dimensione finita. Può essere una interpretazione utile, specie agli inizi:

post353181.html#p353181

Riguardo la domanda centrale del topic, è la classica domanda da un milione di dollari. Suggerisco la lettura dell'introduzione a questa lezione di Terence Tao:

http://terrytao.wordpress.com/2010/06/2 ... principle/

(fino al punto 5).

killing_buddha
Facciamo un po' d'ordine.
1. Sia $V$ uno spazio vettoriale di dimensione finita sul campo $k$. Definiamo lo spazio vettoriale duale di $V$ come $V^\star = \Hom_k(V,k)$. Esso ha una naturale struttura di $k$-spazio vettoriale data da
\[
(\xi+\eta)(v)=\xi(v)+\eta(v)\]
\[
(\alpha\xi)(v)=\alpha(\xi(v))
\]
per ogni $\xi,\eta\in V^\star$, $\alpha\in k$.

Gli elementi di $V^\star$ sono detto covettori.

2. Data una base $\mathcal V=\{v_1, ... ,v_n\}$ di $V$ definiamo gli elementi $\xi_1, ... , \xi_n\in V^\star$ mediante la condizione
\[
\xi_i(v_j)=\delta_{ij}
\]
estesa poi per linearita' a tutto $V$. $\mathcal V^\star=\{\xi_1, ... , \xi_n\}$ e' una base di $V^\star$ chiamata base duale di $\mathcal V$.
Dimostrazione. $\mathcal V^\star$ e' un insieme di vettori linearmente indipendenti: supponiamo che $\sum a_i \xi_i$ sia la forma lineare nulla; in particolare essa dara' zero valutata su tutti i vettori della base $\mathcal V$: dunque
\[
0=\sum a_i\xi_i(v_j)=\sum a_i \delta_{ij}=a_j
\]
dal che si conclude che $a_j=0$ per ogni $j=1, ... ,n$.

Mostriamo ora che $[ \{\xi_1, ... , \xi_n\}]=V^\star$. Se $\varphi\in V^\star$, consideriamo $f_i=\varphi(v_i)\in k$; allora $\varphi=\sum f_i \xi_i$, come e' facile vedere valutando entrambe sulla base $\mathcal V$ (due applicazioni lineari che coincidono su una base sono la stessa). []

3. Se $\varphi: V\to W$ e' una applicazione lineare, definiamo $\varphi^\star: W^\star\to V^\star$ tramite la composizione di applicazioni lineari $\varphi^\star(\xi)=\xi\circ \varphi$, ossia per ogni $v\in V$ poniamo $\varphi^\star(\xi).v = \xi(\varphi(v))$.
Si verifica facilmente che $\id_V^\star=\id_{V^\star}$ e che $(\varphi\circ\psi)^\star = \psi^\star\circ \varphi^\star$.
Dimostrazione. La definizione data per $\varphi^\star$ e' visibilmente un omomorfismo di spazi vettoriali. Direttamente dalla definizione segue che
\[
(\varphi\circ\psi)^\star(\eta) = \eta\circ(\varphi\circ\psi) = (\eta\circ\varphi)\circ\psi=\psi^\star(\eta\circ\varphi)=\psi^\star\circ\varphi^\star(\eta)
\]
Il resto e' facile allo stesso modo. []

4. La matrice di $\varphi^\star$ nelle basi duali delle basi $\mathcal V$, $\mathcal W$ di $V$ e $W$ e' data dalla trasposta della matrice di $\varphi$ in quelle basi.
Dimostrazione. Indichiamo con $a_{ij}$ le entrate della matrice di $\varphi$ nelle basi scelte, e con $a_{ij}^\star$ le entrate di $\phi^\star$ nelle rispettive basi duali $\{\xi_i\}$ per $V^\star$ ed $\{\eta_j\}$ per $W^\star$. Si ha $\varphi^\star(\eta_i) = \sum a^\star_{ki}\xi_k$; calcolando questo in $v_j\in \mathcal V$ otteniamo per il primo termine
\[
\varphi^\star(\eta_i).v_j = \eta_i(\varphi(v_j)) =
\eta_i\big(\sum_{k} a_{kj}w_k\big)=a_{ij}
\]
mentre il secondo termine da'
\[
\big(\sum_k a^\star_{ki}\xi_k\big)v_j = a^\star_{ji}
\]
da cui si conclude. []

Il teorema centrale in ogni esposizione onesta della dualita' di spazi vettoriali e' il seguente (si puo' dire che finora si sono solo preparati nomenclatura e corollari adatti a esprimerlo):
5. [Bidualita' di spazi vettoriali] L'applicazione lineare canonica $V\to V^{\star\star}$ che manda $v\in V$ in $\text{ev}_v: V^\star\to k$, $\text{ev}_v(\xi)=\xi(v)$ e' un isomorfismo di spazi vettoriali, che non dipende dalla scelta di una base di $V$. Sotto questa identificazione, per un omomorfismo $\phi: V\to W$ risulta $\phi^{\star\star}=\phi$.
Dimostrazione. Si dimostra facilmente che la corrispondenza e' lineare e biiettiva, ma si puo' derivare lo stesso risultato per altra via.

e' risaputo che il dato di una applicazione $k$-bilineare $V\times V\to k$ non degenere si traduce nel dato di un isomorfismo tra $V$ e il suo duale $V^\star$ (in effetti questo e' il senso dell'isomorfismo $\Hom(V,V^\star)\cong \Hom(V\otimes V,k)\cong \text{bil}(V\times V,k)$). L'applicazione canonica
\[
V\times V^\star\to k : (v,\xi)\mapsto v\circ \xi = \xi(v)
\]
e' non degenere, e dunque sia la mappa $V^\star\to \Hom(V,k)$ che la mappa $V\to \Hom(V^\star,k)=V^{\star\star}$ sono isomorfismi (la prima per definizione, ma dipende da una scelta della base; la seconda invece ha la stessa forma in ogni base di $V$).

Una delle applicazioni elementari principali e' esattamente la dualita' di sottospazi e le relazioni con l'ortogonale; dopo provo a discuterne pu' diffusamente.

Per ogni $S\subset V$ definiamo $S^\top=\{\xi\in V^\star\| \xi(v)=0, \; \forall v\in S\}$, e analogamente per ogni $S\subset V^\star$ definiamo $S^\top=\{v\in V\| \xi(v)=0, \; \forall \xi\in S\}$. Si puo' facilmente provare che


    [*:3iziuy1j] Se $S\subseteq T$, allora $T^\top\subseteq S^\top$;[/*:m:3iziuy1j]
    [*:3iziuy1j] $S^{\top\top}=[ S]$ (sottospazio generato: in generale $S^{\top\top}$ contiene strettamente $S$ e l'uguaglianza vale se $S$ era un sottospazio lineare), e $S^{\top\top\top}=S^\top$;[/*:m:3iziuy1j]
    [*:3iziuy1j] $(W\cap W')^\top = W^\top \oplus W'^\top$;[/*:m:3iziuy1j]
    [*:3iziuy1j] $(W\oplus W')^\top = W^\top \cap W'^\top$;[/*:m:3iziuy1j]
    [*:3iziuy1j] Il passaggio all'ortogonale induce un antisomorfismo tra i reticoli dei sottospazi di $V$ e $V^\star$, $\sigma V$ e $\sigma V^\star$ (vuol dire: $(-)^\top: \sigma V \to \sigma V^\star: W\le V\mapsto W^\top\le V^\star$ e' biiettiva e rovescia tutte le inclusioni).[/*:m:3iziuy1j][/list:u:3iziuy1j]
    6. Data una applicazione lineare $\phi: V\to W$, si ha $\ker \phi^\star = (\im \phi)^\top$, $\im \phi^\star = (\ker \phi)^\top$.
    Dimostrazione. Le due cose si implicano a vicenda, e la prima asserzione e' facile da verificare con la definizione.

maurer
"killing_buddha":
Per ogni $S\subset V$ definiamo $S^\top=\{\xi\in V^\star\| \xi(v)=0, \; \forall v\in S\}$, e analogamente per ogni $S\subset V^\star$ definiamo $S^\top=\{v\in V\| \xi(v)=0, \; \forall \xi\in S\}$. Si puo' facilmente provare che


    [*:1khyj3dy] Se $S\subseteq T$, allora $T^\top\subseteq S^\top$;[/*:m:1khyj3dy]
    [*:1khyj3dy] $S^{\top\top}=[ S]$ (sottospazio generato: in generale $S^{\top\top}$ contiene \emph{strettamente} $S$ e l'uguaglianza vale se $S$ era un sottospazio lineare), e $S^{\top\top\top}=S^\top$;[/*:m:1khyj3dy]
    [*:1khyj3dy] $(W\cap W')^\top = W^\top \oplus W'^\top$;[/*:m:1khyj3dy]
    [*:1khyj3dy] $(W\oplus W')^\top = W^\top \cap W'^\top$;[/*:m:1khyj3dy]
    [*:1khyj3dy] Il passaggio all'ortogonale induce un antisomorfismo tra i reticoli dei sottospazi di $V$ e $V^\star$, $\sigma V$ e $\sigma V^\star$ (vuol dire: $(-)^\top: \sigma V \to \sigma V^\star: W\le V\mapsto W^\top\le V^\star$ e' biiettiva e rovescia tutte le inclusioni).[/*:m:1khyj3dy][/list:u:1khyj3dy]

[tex]S^\top[/tex] viene talvolta detto l'annullatore di [tex]S[/tex].
Questa lista di proprietà, non può forse essere efficacemente riassunta dicendo che è definita una connessione di Galois tra i reticoli delle parti (ossia un'aggiunzione tra i due poset :-D)?

Un buon riferimento è il testo di Nacinovich (capitolo 5, se ricordo bene). Altrimenti le dispense di Cailotto, sicuramente, ma non so la referenza e poi abbiamo qui un profondo conoscitore delle stesse.

Infine, segnalo che quando lavoriamo con [tex]\mathbb K^n[/tex] abbiamo un accoppiamento di dualità standard, [tex]\mathbb K^n \times \mathbb K^n \to \mathbb K[/tex] che è dato, per l'appunto da
[tex](\mathbf v, \mathbf w) = {}^t \mathbf v \cdot \mathbf w = \begin{pmatrix} v_1 & \ldots & v_n \end{pmatrix} \begin{pmatrix} w_1 \\ \vdots \\ w_n \end{pmatrix} = \sum_{i = 1}^n v_i w_i[/tex]
Questo induce un'identificazione non canonica di [tex]\mathbb K^n[/tex] con il proprio duale. Nel caso in cui [tex]\mathbb K = \mathbb R[/tex] l'identificazione ottenuta manda precisamente [tex]S^\top[/tex] nello spazio ortogonale (rispetto al prodotto scalare euclideo standard) a [tex][/tex].

killing_buddha
"dissonance":
Riguardo la domanda centrale del topic, è la classica domanda da un milione di dollari.

Se la domanda in oggetto e' "a cosa serve lo spazio duale" il milione di dollari credo se lo meriti Tao e pochi altri :D
Proviamo comunque la nostra scalata al montepremi: uno degli eventi mondani dove vedo la dualita' di spazi vettoriali esprimersi al suo massimo e' la geometria proiettiva; non e' infatti un mistero che BIrkhoff e Glivenko, verso la fine degli anni '20 del '900, svilupparono la teoria dei reticoli proprio per parlare di geometria proiettiva. Probabilmente questo e' stato necessario sull'onda del grande potere assiomatizzatore che ebbe l'opera a quattro mani di Veblen e Young sui fondamenti di questo ramo della geometria, fino a prima latitanti (la teoria aveva raggiunto lo stato dell'arte computazionalmente parlando, quando ci si rese conto che il procedimento di jordanizzazione della matrice associata a un operatore lineare era niente piu' che un metodo per partizionare lo spazio in un certo numero di sottospazi che l'operatore lasciava fissi -globalmente o puntualmente-).

Osservazione 2.1. E' possibile trattare più "algebricamente" (in modo meno standard) le stesse strutture note a chiunque abbia un minimo di know how di geometria proiettiva definendo le famiglie di sottoinsiemi di [tex]V[/tex]
[tex]\mathcal S(V) := \{W \subseteq V \mid W \le V\}[/tex]
[tex]\mathcal P(V) :=\{W\le V\mid \dim W = 1\}[/tex]
[tex]\mathcal I(V) :=\{W\le V\mid \text{codim}\,W=1\}[/tex]
rispettivamente lo spazio completo, rigato e iperrigato associati a [tex]V[/tex]. [tex]\mathcal S(V)[/tex] ha naturale struttura di reticolo data dalla relazione di inclusione (o di algebra di Boole, data dalle operazioni di inf e sup date dall'intersezione e dall'unione).
Lo spazio proiettivo su [tex]V[/tex] si definisce allora come una coppia [tex]\mathbb P(V)=(S,\sigma_S)[/tex] tale che [tex]S[/tex] è un insieme e [tex]\sigma_S\colon \mathcal S(V) \to S[/tex] sia biiettiva. La struttura di reticolo dello spazio completo passa allora su [tex]S[/tex], che si dice spazio proiettivo completo su [tex]V[/tex] (lo stesso procedimento applicato a [tex]\mathcal I(V)[/tex] o [tex]\mathcal P(V)[/tex] avrebbero creato lo spazio proiettivo iperrigato e puntato).

Definizione (Dimensione proiettiva). Se [tex]W\in\mathcal S(V)[/tex] poniamo [tex]\dim \sigma W = \dim W-1[/tex], ove [tex]\dim W[/tex] è l'usuale dimensione vettoriale (cardinalità di un qualunque insieme di generatori indipendenti). Questa definizione "recupera" la formula di Grassmann per sottospazi vettoriali
[tex]\dim \sigma V + \dim \sigma W = \dim \sigma(V\vee W) + \dim (V\wedge W)[/tex]
In tal modo si ottiene un analogo proiettivo per [tex]\langle 0\rangle[/tex] (si noti che ora non lo si è escluso da [tex]\mathcal S(V)[/tex]): [tex]\dim\sigma\langle 0 \rangle= -1[/tex] e [tex]\sigma \langle 0\rangle[/tex] si definisce vuoto proiettivo (p. es., due rette sghembe in uno spazio vettoriale [tex]V[/tex] di dimensione [tex]n\ge 3[/tex] si intersecano nel vuoto proiettivo di [tex]\mathbb P(V)[/tex]).

Definizione 3.1 (Dualità Proiettiva). La dualità canonica tra [tex]V[/tex] e il suo duale [tex]V^* :=\text{Hom}\,(V,\mathbb{K})[/tex] induce un antisomorfismo di reticoli tra lo spazio completo di [tex]V[/tex] e quello di [tex]V^*[/tex], che composta con la [tex]\sigma[/tex] associata a [tex]S[/tex] si trasporta allo spazio proiettivo completo sul duale di [tex]V[/tex], di modo che commuti il diagramma
         d
S(V) ----------> S(V^*)
 |                 |
 |                 |
 |                 |
 | s_S             | s_S^*
 |                 |
 |                 |
 V                 V
 S -------------> S^*

In tal modo si definisce lo spazio proiettivo duale [tex]\mathbb P(V^*)[/tex]. Si ha ovviamente, grazie ad una analoga relazione tra sottospazi vettoriali, che la dimensione di [tex]\sigma W[/tex] visto come sottospazio di [tex]\mathbb P(V^*)[/tex] è [tex]\text{codim}\,W[/tex] in [tex]\mathbb P(V)[/tex].

Osservazione Quanto appena affermato è una sistematizzazione di un principio classico noto fin dagli albori della geometria proiettiva (la prima formulazione è dovuta a Girard Desargues, n.1591-m.1661): si ha

Proposizione (Principio di dualità proiettiva). Ogni asserzione scritta in termini di elementi di uno spazio proiettivo che coinvolga solo la struttura di reticolo è vera se e solo se risulta vera la sua asserzione duale, che si ottiene sostituendo l'operazione di inf con l'operazione di sup e viceversa, twistando la relazione di inclusione e ogni occorrenza di [tex]\dim[/tex] con [tex]n-1-\dim[/tex].
Osserviamo collateralmente che il principio di dualità proiettiva discende gratuitamente dalla dualità di de Morgan per algebre di Boole. Osserviamo altresì quanto questa relazione metta in luce una simmetria (algebrica e geometrica) molto profonda, non posseduta da strutture meno raffinate come, per esempio, lo spazio affine (che è una opportuna "sezione" dello spazio proiettivo).

killing_buddha
non può forse essere efficacemente riassunta dicendo che è definita una connessione di Galois tra i reticoli delle parti (ossia un'aggiunzione tra i due poset)

ὕβρις!

maurer
"killing_buddha":

ὕβρις!

:-D
Comunque segnalo che della dualità reticolare si è già discusso qui.

"killing_buddha":

Osservazione 2.1. E' possibile trattare più "algebricamente" (in modo meno standard) le stesse strutture note a chiunque abbia un minimo di know how di geometria proiettiva definendo le famiglie di sottoinsiemi di [tex]V[/tex]
[tex]\mathcal S(V) := \{W \subseteq V \mid W \le V\}[/tex]
[tex]\mathcal P(V) :=\{W\le V\mid \dim W = 1\}[/tex]
[tex]\mathcal I(V) :=\{W\le V\mid \text{codim}\,W=1\}[/tex]
rispettivamente lo spazio completo, rigato e iperrigato associati a [tex]V[/tex]. [tex]\mathcal S(V)[/tex] ha naturale struttura di reticolo data dalla relazione di inclusione (o di algebra di Boole, data dalle operazioni di inf e sup date dall'intersezione e dall'unione).
Lo spazio proiettivo su [tex]V[/tex] si definisce allora come una coppia [tex]\mathbb P(V)=(S,\sigma_S)[/tex] tale che [tex]S[/tex] è un insieme e [tex]\sigma_S\colon \mathcal S(V) \to S[/tex] sia biiettiva. La struttura di reticolo dello spazio completo passa allora su [tex]S[/tex], che si dice spazio proiettivo completo su [tex]V[/tex] (lo stesso procedimento applicato a [tex]\mathcal I(V)[/tex] o [tex]\mathcal P(V)[/tex] avrebbero creato lo spazio proiettivo iperrigato e puntato).

In modo meno standard ma più proficuo. Da qui, arrivare all'introduzione delle grassmanniane è un passo molto piccolo. E le grassmanniane sono decisamente importanti!

Sk_Anonymous
@dissonance: in effetti la mia perplessità è un po' quella dell'utente dell'altro topic. Il problema è che la premessa che mi è stata fatta allo spazio duale è stata di tipo fisico, e pertanto ho cercato ahimé vanamente un approccio di tipo intuitivo. Mi rendo ora conto che c'è dietro ben altro, quindi cercherò di sforzarmi. Grazie per il contributo, leggerò anche Tao.

@killing_buddha: quanto riporti, a livello teorico, mi è circa noto, in quanto proprio in tal modo mi è stato presentato (e chissà perché :D ). Ti ringrazio enormemente per il lavoro compiuto ed il tempo speso per questa "review teorica" con commenti a latere.

Ringrazio anche maurer per il contributo dato.


Mi riservo di postare qualche esercizio, in seguito.

maurer
A me sembra che l'intuizione geometrica sia riassunta in questi due passaggi:

"maurer":


Infine, segnalo che quando lavoriamo con [tex]\mathbb K^n[/tex] abbiamo un accoppiamento di dualità standard, [tex]\mathbb K^n \times \mathbb K^n \to \mathbb K[/tex] che è dato, per l'appunto da
[tex](\mathbf v, \mathbf w) = {}^t \mathbf v \cdot \mathbf w = \begin{pmatrix} v_1 & \ldots & v_n \end{pmatrix} \begin{pmatrix} w_1 \\ \vdots \\ w_n \end{pmatrix} = \sum_{i = 1}^n v_i w_i[/tex]
Questo induce un'identificazione non canonica di [tex]\mathbb K^n[/tex] con il proprio duale. Nel caso in cui [tex]\mathbb K = \mathbb R[/tex] l'identificazione ottenuta manda precisamente [tex]S^\top[/tex] nello spazio ortogonale (rispetto al prodotto scalare euclideo standard) a [tex][/tex].


"killing_buddha":

Osservazione 2.1. E' possibile trattare più "algebricamente" (in modo meno standard) le stesse strutture note a chiunque abbia un minimo di know how di geometria proiettiva definendo le famiglie di sottoinsiemi di [tex]V[/tex]
[tex]\mathcal S(V) := \{W \subseteq V \mid W \le V\}[/tex]
[tex]\mathcal P(V) :=\{W\le V\mid \dim W = 1\}[/tex]
[tex]\mathcal I(V) :=\{W\le V\mid \text{codim}\,W=1\}[/tex]
rispettivamente lo spazio completo, rigato e iperrigato associati a [tex]V[/tex]. [tex]\mathcal S(V)[/tex] ha naturale struttura di reticolo data dalla relazione di inclusione (o di algebra di Boole, data dalle operazioni di inf e sup date dall'intersezione e dall'unione).
Lo spazio proiettivo su [tex]V[/tex] si definisce allora come una coppia [tex]\mathbb P(V)=(S,\sigma_S)[/tex] tale che [tex]S[/tex] è un insieme e [tex]\sigma_S\colon \mathcal S(V) \to S[/tex] sia biiettiva. La struttura di reticolo dello spazio completo passa allora su [tex]S[/tex], che si dice spazio proiettivo completo su [tex]V[/tex] (lo stesso procedimento applicato a [tex]\mathcal I(V)[/tex] o [tex]\mathcal P(V)[/tex] avrebbero creato lo spazio proiettivo iperrigato e puntato).


Ma magari sono io che ho perso il contatto con la realtà e mi sembra davvero di disegnare rette quando leggo queste parole.

killing_buddha
:D @Maurer: e' proprio con l'intenzione di introdurre le grassmanniane che Cailotto ce l'ha insegnato cosi'; da qui ad una caratterizzazione suggestiva come $G(n,k)\cong \mathbb{P}(\bigwedge^k \mathbb{R}^n)$ il passo e' veramente breve!

maurer
"killing_buddha":
:D @Maurer: e' proprio con l'intenzione di introdurre le grassmanniane che Cailotto ce l'ha insegnato cosi'; da qui ad una caratterizzazione suggestiva come $G(n,k)\cong \mathbb{P}(\bigwedge^k \mathbb{R}^n)$ il passo e' veramente breve!

Yes, quello che dicevo prima... E' una figata vedere le cose così!

killing_buddha
Damme nu vas', fratello mio!

maurer
:heart:

dissonance
EDIT: Rimuovo questo commento scherzoso su richiesta di alcuni utenti del forum. La discussione non ne risente minimamente.

gugo82
Ad ogni modo, la teoria della dualità (esposta finora nel solo caso finito-dimensionale) si generalizza per analogia, ma con le dovute cautele, al caso infinito-dimensionale: in proposito, si può vedere Brezis, Functional Analysis, Sobolev Spaces and PDEs, Springer, §§ 1.3, 2.4-2.5 e 6.2.

Essa storicamente nasce dalle ricerche di Hilbert e dei suoi studenti (insomma, degli Analisti Funzionali tedeschi) ed uno dei suoi risultati più importanti è la teoria di Fredholm-Riesz degli operatori compatti.
Ricordato che tutta l'Analisi Funzionale trae origine dal problema di risolvere le equazioni differenziali (nel senso matematico del termine, i.e. dal problema di provare l'esistenza di soluzioni per le EDO), non stupisce che i teoremi più importanti che hanno a che fare con la dualità infinito-dimensionale riguardino le condizioni necessarie e sufficienti affinché un'equazione operatoriale abbia qualche soluzione: un tipico teorema di tal fatta è certamente la classica alternativa di Fredholm, che costituisce un analogo infinito-dimensionale dei teoremi sulla compatibilità dei sistemi lineari.

Sk_Anonymous
Vabhé ragazzi, andateci piano eh... Della maggior parte di queste cose non ci capisco un tubo :lol:
Con tutta la buona volontà non posso saltare in avanti così tanto... Ma spero del resto di poterci ritornare a pensare tra qualche semestre

dissonance
"Delirium":
Vabhé ragazzi, andateci piano eh... Della maggior parte di queste cose non ci capisco un tubo :lol:

Manco io. Ma è nella natura delle cose che sia così vista l'ubiquità del concetto di "dualità" in matematica.

killing_buddha
A me sembra molto chiaro; l'ubiquita' della nozione di dualita' si puo' apprezzare solo mediante un gran numero di esempi.
Apprezzo soprattutto questo passo (ma lascio a voi capire perche'):
[...] a mathematical object X can either be described internally (or in physical space, or locally), by describing what X physically consists of (or what kind of maps exist into X), or externally (or in frequency space, or globally), by describing what X globally interacts or resonates with (or what kind of maps exist out of X).


Ci sono pero' degli esempi che Tao non fa, tanto per dire non nomina mai la dualita' tra omologia e coomologia, la simmetria a specchio e molte altre... (click). A voler generalizzare ulteriormente (pur restando a un livello elementare) credo che la situazione si sussuma in queste parole:

Questo ha l'utile pregio di dimezzare il lavoro quando ci si renda conto che due asserzioni sono mutualmente duali: cosi' l'esistenza di un oggetto iniziale in $\mathbf C$ equivale all'esistenza di un oggetto terminale in $\mathbf{C}^{op}$, l'esistenza dei pullback equivale a quella dei pushout, l'esistenza dei prodotti equivale a quella delle somme disgiunte, e cosi' via; parimenti interessante e' cercare di stabilire quando questa simmetria e' interna all'ambiente di riferimento.

C'e' stato per esempio il tentativo (piuttosto antico) da parte di Johnstone, di catturare l'idea di un oggetto in una categoria che "possiede ad un tempo due strutture opposte, tra loro interagenti", che sono stati pttorescamente chiamati oggetti gianiformi (il dio Giano, ricordiamo, era il custode dei ponti e delle porte, e ne salvaguardava allo stesso tempo l'entrata e l'uscita grazie alle sue due facce); supponiamo di avere due categorie concrete $\mathbf{C},\mathbf{D}$ (vuol dire che ognuna di loro e' dotata di un funtore fedele verso la categoria degli insiemi), e un isomorfismo $\mathbf{C}\cong \mathbf{D}^{op}$ che identifica l'una al duale dell'altra. Nella stragrande maggioranza dei casi le categorie si possono pensare algebriche, ossia si puo' pensare che esse siano effettivamente delle categorie di insiemi dotati di struttura (monoidi, gruppi, spazi vettoriali, ...) che viene "dimenticata" dal funtore fedele. A queste ipotesi e' praticamente sempre vero che il funtore $G_\mathbf{C} : \mathbf C\to \mathbf{Sets}$ ammette un aggiunto sinistro $F_\mathbf{C} : \mathbf{Sets}\to \mathbf{C}$, che da' ad un insieme il tipo di struttura degli oggetti di $\mathbf{C}$ (per esempio "crea" il gruppo libero su un dato insieme, oppure il poset con l'ordine banale, oppure lo spazio vettoriale con tanti generatori quanti elementi dell'insieme: il metaprincipio e' che l'oggetto che "va bene" -ossia quello universale- e' quello che "contiene il minor numero di relazioni possibili"). Si ottiene quindi una biiezione $\hom(FX,C)\cong \hom(X,GC)$ per ogni insieme $X$ e ogni oggetto $C\in \text{Ob}(\mathbf{C})$. In particolare la cosa divertente e' che $G$ e' rappresentato da $F(\{*\})$, dove $\{*\}$ indica l'insieme con un solo elemento, e modulo l'isomorfismo $\mathbf{C}\cong \mathbf{D}^{op}$ queste relazioni si trasportano specularmente in $\mathbf{D}$. Ora la parte interessante: per puro adjoint-nonsense si dimostra che
\[
G_\mathbf{C}(F_\mathbf{C}(\{*\}))\cong G_\mathbf{D}(F_\mathbf{D}(\{*\}))=A
\]
e quindi, ricordando che $G$ non fa altro che restituire l'insieme "sottostante" ad un oggetto strutturato, si deduce che l'insieme $A$ presenta una doppia natura, di oggetto $\mathbf{C}$-strutturato e di oggetto $\mathbf{D}$-strutturato, e le due strutture sono "compatibili" o "commutative" (in un senso tecnico che sarebbe lungo precisare, e che lascio chi abbia voglia di leggere (!) la referenza standard di Johnstone, Stone Spaces, Ch. VII, Profiniteness and Duality).

Se poi e' vero, come dice Tao, che il teorema di Cayley e' una incarnazione del principio di dualita' che esiste in seno alla teoria dei gruppi, tra presentazione e rappresentazione di $G$, allora e' parimenti vero che il Lemma di Yoneda (che di Cayley e' una vertiginosa generalizzazione) incarna la corrispondenza che esiste tra una categoria $\mathbf{C}$ e la categoria di tutte le sue "rappresentazioni verso $\mathbf{Sets}$", ovvero $Funct(\mathbf{C},\mathbf{Sets})$; in tal senso si deriva un risultato formalmente analogo a Cayley e parimenti suggestivo: se un gruppo altro non e' che un gruppo di permutazioni, ossia ogni suo elemento $g$ e' una trasformazione invertibile che agisce sul gruppo stesso (per azione tautologica di moltiplicazione $x\mapsto gx$, o coniugazione $x\mapsto x^g$), ogni oggetto $G$ di una categoria altro non e' che un opportuno funtore che agisce sulla categoria stessa, per "concretizzazione" di un oggetto $X$ nell'insieme di tutti i morfismi $\hom_\mathbf{C}(X,G)$. Questo ha conseguenze altrettanto profonde che il teorema di Cayley, che lascio pero' ai temerari il compito di enucleare (magari con l'aiuto di un buon testo di teoria delle categorie).

Altri esempi che possono venirmi in mente sono piuttosto tecnici: avverto il lettore incauto o impreparato di aerare il locale prima di soggiornarvi. Quando uno fa geometria algebrica, e studia una varieta' (per esempio complessa) $X$ liscia e di dimensione $n$, e' interessato a studiare il suo fascio canonico $\omega$, ossia la potenza esterna massima del fascio dei differenziali: $\omega_X:=\bigwedge^n\Omega_X$; esso e' per costruzione un fascio invertibile (ovvero e' un fascio localmente libero di rango 1). Se $X$ e' proiettiva e non singolare, al fascio canonico e' possibile associare un certo numero di invarianti, come il genere geometrico $p_g:=\dim_\mathbb C H^0(X,\omega_X)$, o l'anello pluricanonico $\text{R}(X) := \oplus_{r\ge 1} H^0(X,\omega_X^{\mathcal Otimes r})$.

E' ora un fatto davvero inaspettato che il fascio canonico di $X$ abbia un ruolo nell'enunciato della cosiddetta dualita' di Serre per $X$: se $\mathcal F$ e' un fascio coerente su una varieta' liscia e proiettiva $X$ si ha
\[
H^k(X,\mathcal F)^\star \cong \text{Ext}^{n-k}_X(\mathcal F,\omega_X)
\]
Ancora piu' stupefacente pero' e' che il fascio canonico e il suo legame con la dualita' di Serre siano intimamente legati alla struttura dell'intera categoria dei fasci (coerenti) su $X$; storicamente, una delle motivazioni per introdurre le categorie derivate di categorie di fasci da parte di Verdier fu proprio la possibilita' di generalizzare la dualita' di Serre ad un ambiente piu' astratto.

Il punto di vista di Grothendieck nel generalizzare la dualita' di Serre fu volto a trovare un aggiunto destro al funtore $f_*: Sh(X)\to Sh(Y)$ per un morfismo $f: X\to Y$; e' noto che a priori $f_*$ ammette solo un aggiunto a sinistra, l'immagine inversa $f^{-1}$ (o in categorie di $\mathcal O_X$-moduli, $f^*$). In generale, anche un funtore esatto ad ambo i lati non e' obbligato ad avere due aggiunti (ma questa condizione e' necessaria), e ancor piu' in generale esistono dei criteri che danno condizioni sufficienti affinche' un funtore lo ammetta, ma sono tutti in pratica piuttosto difficili da controllare.

Il problema sembra quindi insolubile, almeno finche' non notiamo che uno dei vantaggi dell'essere migrati all'ambiente delle categorie derivate e' aver rimpiazzato tutti i funtori, e in particolare $f_*$, con la loro controparte esatta, in particolare $\mathfrak R f_*$: almeno in linea di principio quindi puo' esistere un aggiunto destro per $f_*$. Se ora andiamo a controllare come questo ipotetico aggiunto, chiamiamolo $f^!$, dovrebbe essere fatto in un caso semplice come quello del morfismo $f: X\to \{pt\}$, otteniamo
\[
\hom_{pt}(\mathfrak R f_*\mathcal F,\mathcal G)\cong \hom_X(\mathcal F,f^!\mathcal G)
\]
per ogni $\mathcal F\in D^b_\text{coh}(X), \mathcal G\in D^b_\text{coh}(pt)$. Ora, gli oggetti di $D^b_\text{coh}(pt)$ sono tutti estremamente semplici, dato che si spezzano come somme dirette finite di shift del fascio costante $\underline{\mathbb C}$. Prendiamo allora come prototipo di $\mathcal G$ il fascio costante $\underline{\mathbb C}$, e per semplificare ancora di piu' la discussione supponiamo che il fascio $\mathcal F$ corrisponda a un complesso concentrato al grado $k$; sappiamo ora che
\[
\hom_{pt}(\mathfrak R f_*\mathcal F[k],\mathbb C)\cong H^k(X,\mathcal F)^\star;
\]
a questo punto entra in gioco la dualita' di Serre, che porge l'isomorfismo
\[
H^k(X,\mathcal F)^\star \cong {Ext}_X^{n-k}(\mathcal F,\omega_X) = \hom_{D^b_\text{coh}(X)}(\mathcal F[k], \omega_X[n]).
\]
Se ora imponiamo che $\omega_X[n]$ sia l'immagine di $\mathbb C$ mediante il funtore $f^!$, $f^!\mathbb C = \omega_X[\dim X]$, data la semplice struttura di $D^b_\text{coh}(pt)$, abbiamo definito (quantomeno sugli oggetti) l'intero funtore $f^!$: si ha infatti
\begin{align*}
\hom_\text{pt}(\mathfrak R f_*\mathcal F[k],\mathcal G) &\textstyle \cong \hom_\text{pt}\left(\mathfrak R f_*\mathcal F[k],\oplus \mathbb C[i_r]\right)\\
&\cong\textstyle \oplus \hom_\text{pt}(\mathfrak R f_*\mathcal F[k],\mathbb C[i_r])\\
&\cong \textstyle\oplus \hom_X\!\big(\mathcal F[k],f^!\mathbb C[i_r]\big)\\
&\cong\textstyle\oplus \hom_X\!\big(\mathcal F[k],\omega_X[n+i_r]\big)\\
&\cong\textstyle \hom_X\!\big(\mathcal F[k],\oplus \omega_X[n+i_r]\big)\\
&=\hom_X\!\big(\mathcal F[k],f^!\mathcal G\big),
\end{align*}
e dunque se poniamo $f^!: \mathcal G\mapsto \oplus \omega_X[\dim X+i_r]$ otteniamo per costruzione un aggiunto destro di $f_*$.

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