Riassunto la solita polpetta di Bill Pronzini
Quando Mitchell entrò al Vienne Delicatessen,
alle due di giovedì pomeriggio, non c’erano
clienti. Ma non era una cosa insolita, perché
da quando aveva scoperto quel posto, circa
due mesi prima, e lo aveva frequentato
regolarmente due volte a settimana, non aveva
mai visto più di una decina di altri clienti.
Non che fosse un gran posto. Era una
delle tante piccole tavole calde in fondo a un
vicolo, in un quartiere che piano piano stava
scivolando verso la zona popolare della città,
cioè l’esatto contrario di quanto faceva lui,
pensò Mitchell. Lui cercava di salire verso
i quartieri alti
, di uscire da quel ghetto
in cui era nato. Aspirava a trasferirsi in città,
dove si viveva bene e si pranzava nei ristoranti
di lusso invece che in quelle tavole calde piene
di polvere e di cattivo odore.
Però doveva ammettere che scoprire quel posto
era stato un vero e proprio affare; prima
di tutto, si mangiava bene e si spendeva poco
e poi, il proprietario, Giftholz, lo divertiva.
Giftholz era un ometto fragile che parlava
con un forte accento tedesco e diceva un sacco
di cose buffe, più che altro perché non capiva
bene quello che gli veniva detto.
In quel momento, Giftholz era dietro
il bancone. Non aveva sentito Mitchell che
entrava, ma appena sentì il campanello
collegato alla porta che suonava quando questa
si richiudeva, si tirò su e sorrise.
«Buon giorno, signor Mitchell.»
Mitchell chiuse la porta e si avvicinò al bancone.
«Come va, Giftholz?»
«Va» rispose Giftholz. «Ma mica tanto bene.»
«La solita polpetta?»
«Polpetta?»
«Sì, insomma, un giorno dopo l’altro... Sempre
la stessa polpetta, la stessa zuppa...»
«Zuppa» disse Giftholz, sbattendo le palpebre
come se fosse confuso e lisciandosi le mani
sul grembiulone bianco. «Che cosa le servo,
oggi, signor Mitchell?»
«Il solito. Un sandwich con il würstel e
una porzione di insalata di verza.»
Giftholz si dette da fare a preparare tutto.
Non che si muovesse in fretta (che diamine,
era un ometto così fragile che non poteva
certo permettersi di muoversi in fretta),
ma a Mitchell non importava un granché.
L’importante era che sapesse il fatto suo
e su quello non ci pioveva: i suoi panini erano
sempre ben imbottiti e il piatto dell’insalata
sempre abbondante. Quello bisognava
ammetterlo.
Mitchell lo guardò per un po’, poi disse: «Dimmi
una cosa, Giftholz. Come fai a tirare avanti
la baracca?».
«Prego?»
«A tirare avanti la baracca» ripeté Mitchell.
«A rimanere a galla, insomma. Non è che tu
abbia tanti clienti e fai prezzi stracciatissimi.»
«Io faccio i prezzi giusti.»
«Sì, ma non credo che tu faccia molti quattrini
in questo modo...»
«Ah, be’, a volte è molto difficile» rispose
Giftholz.
«E come fai a pagare i conti? Hai qualche giro,
qualche affare tra le mani?»
«No, no, niente.»
Mitchell scosse la testa: sì, forse era vero,
Giftholz non aveva proprio nessun giro, anche
se sembrava impossibile: era uno di quei vecchi
negozianti onesti fino in fondo. Però, visto
come andava il mondo, era davvero strano
che riuscisse a stare a galla. Anche se faceva
prezzi bassi, non poteva certo competere con
le grandi catene di tavole calde che avevano
aperto nei dintorni e che garantivano offerte
speciali, regali, raccolte di punti e bollini...
Intanto Giftholz aveva finito di preparare il
sandwich: glielo mise su un piattino di carta,
gli preparò l’insalata di verza e mise tutto
sul banco.
«Sono due dollari in tutto, signor Mitchell.»
Due dollari. Roba da chiodi. Lo stesso tipo
di pranzo gli sarebbe costato quattro o cinque
dollari in una delle tavole calde in città: Mitchell
scosse nuovamente la testa, si frugò in tasca
e tirò fuori il portafoglio.
Quando l’ebbe aperto, vide che Giftholz
sbarrava gli occhi di fronte al mazzo
di banconote che c’era dentro. Probabilmente
non aveva mai visto più di cinquanta dollari
tutti insieme in vita sua. Diavolo, pensò
Mitchell, facciamolo divertire un po’. Aprì
ancor di più il portafoglio e lo mise sotto
il naso di Giftholz. «Ecco, guarda, questi sì
che sono soldi...» disse. «E sono in arrivo altri
bigliettoni...»
«Come ha fatto a guadagnare tanti soldi, signor
Mitchell?»
Mitchell si mise a ridere. «Be’, ho un paio
di conoscenze, ecco tutto. Ho fatto dei lavoretti
per loro e mi hanno ricompensato bene.»
«Ah» disse Giftholz e annuì4
con aria stanca.
«Sì, certo, ho capito.»
Mitchell si mise a ridere e attaccò il sandwich.
Molto buono. Giftholz faceva i sandwich
migliori della città, quello era poco ma sicuro.
Quando ebbe finito di mangiare, si pulì le mani
con un tovagliolino. Giftholz venne a prendere
il piatto, poi frugò sotto il banco e tirò fuori
un piattino di caramelle alla menta e
un vassoietto di stuzzicadenti.
«Prego, si serva.»
«Caramelle? Gratis? E da quando?»
«Be’, lei è un ottimo cliente...»
Mitchell gli sorrise, prese una manciata
di mentine e se le mise in tasca. Poi prese
uno stuzzicadenti e se lo infilò tra i denti.
«Mi farebbe un piccolo favore, signor Mitchell?»
«Un favore? Be’, dipende...»
4. annuì: fece cenno di sì con il capo.
«Potrebbe venire con me in cucina? Vorrei farle
vedere una cosa che sicuramente le interesserà.
Venga, non ci vorrà molto.»
«Va bene» disse. «Non vedo perché no.»
Giftholz gli fece cenno di girare intorno
al banco e poi lo precedette in cucina. Quando
Mitchell lo raggiunse non vide nulla
di particolarmente interessante. Era una cucina
come tante altre, con tutti gli arnesi,
un tagliere da macellaio, un paio di casse
di birra e un grosso apparecchio nell’angolo
in fondo.
«Allora, cos’è che dovevi farmi vedere?» chiese.
«Niente» rispose Giftholz. «Volevo farle
una domanda. Lei per caso parla tedesco?»
«Tedesco? Perché vuoi sapere una cosa
del genere?»
«Per via del mio nome. Se lei parlasse un po’
di tedesco saprebbe che cosa significa.»
Mitchell cominciava ad avere il fiatone
e gli girava la testa. Sbatté le palpebre un paio
di volte e si passò una mano sul volto. «Chi se
ne frega di cosa significa il tuo nome.»
«Invece le dovrebbe importare, signor Mitchell»
disse Giftholz «perché il mio nome significa
“pianta del veleno”.»
«Pianta del...» Mitchell spalancò la bocca,
lo stuzzicadenti gli cadde e rotolò sul
pavimento. Lo fissò per qualche secondo
con aria stupita.
Pianta del veleno.
Poi non si sentì più il fiato corto e le vertigini...
Non sentì più nulla. Non sentì neppure
il pavimento quando cadde battendo il viso.
Giftholz rimase a guardare quel corpo: peccato,
pensò triste. Comunque, il signor Mitchell
era un malvivente, e uomini del genere
non erano certo da compiangere. E poi tutto
costava sempre di più, ed era sempre più
difficile la vita per un uomo onesto. Davvero
bisognava arrangiarsi come si poteva.
Si chinò e gli provò il polso, ma naturalmente
non lo sentì. Il veleno paralizzava i muscoli
del cuore e portava a morte certa nello spazio
di pochi minuti. Comunque, come Giftholz
sapeva bene, scompariva dopo un certo
periodo di tempo, senza lasciare tracce.
Giftholz raccolse lo stuzzicadenti speciale
e lo gettò nella pattumiera; poi prese
il portafoglio del signor Mitchell e lo nascose
sotto il grembiule.
Bisognava arrangiarsi, in tutti i modi possibili.
Sì, era proprio vero. Ma c’era un’altra frase
di Mitchell che lo rendeva perplesso: «la stessa
polpetta». Non era la stessa polpetta; non era
la stessa già da un bel po’ di tempo.
Giftholz decise che forse il signor Mitchell
voleva dire qualche altra cosa. Poi,
faticosamente, cominciò a trascinare il corpo
verso il tritacarne.
alle due di giovedì pomeriggio, non c’erano
clienti. Ma non era una cosa insolita, perché
da quando aveva scoperto quel posto, circa
due mesi prima, e lo aveva frequentato
regolarmente due volte a settimana, non aveva
mai visto più di una decina di altri clienti.
Non che fosse un gran posto. Era una
delle tante piccole tavole calde in fondo a un
vicolo, in un quartiere che piano piano stava
scivolando verso la zona popolare della città,
cioè l’esatto contrario di quanto faceva lui,
pensò Mitchell. Lui cercava di salire verso
i quartieri alti
, di uscire da quel ghetto
in cui era nato. Aspirava a trasferirsi in città,
dove si viveva bene e si pranzava nei ristoranti
di lusso invece che in quelle tavole calde piene
di polvere e di cattivo odore.
Però doveva ammettere che scoprire quel posto
era stato un vero e proprio affare; prima
di tutto, si mangiava bene e si spendeva poco
e poi, il proprietario, Giftholz, lo divertiva.
Giftholz era un ometto fragile che parlava
con un forte accento tedesco e diceva un sacco
di cose buffe, più che altro perché non capiva
bene quello che gli veniva detto.
In quel momento, Giftholz era dietro
il bancone. Non aveva sentito Mitchell che
entrava, ma appena sentì il campanello
collegato alla porta che suonava quando questa
si richiudeva, si tirò su e sorrise.
«Buon giorno, signor Mitchell.»
Mitchell chiuse la porta e si avvicinò al bancone.
«Come va, Giftholz?»
«Va» rispose Giftholz. «Ma mica tanto bene.»
«La solita polpetta?»
«Polpetta?»
«Sì, insomma, un giorno dopo l’altro... Sempre
la stessa polpetta, la stessa zuppa...»
«Zuppa» disse Giftholz, sbattendo le palpebre
come se fosse confuso e lisciandosi le mani
sul grembiulone bianco. «Che cosa le servo,
oggi, signor Mitchell?»
«Il solito. Un sandwich con il würstel e
una porzione di insalata di verza.»
Giftholz si dette da fare a preparare tutto.
Non che si muovesse in fretta (che diamine,
era un ometto così fragile che non poteva
certo permettersi di muoversi in fretta),
ma a Mitchell non importava un granché.
L’importante era che sapesse il fatto suo
e su quello non ci pioveva: i suoi panini erano
sempre ben imbottiti e il piatto dell’insalata
sempre abbondante. Quello bisognava
ammetterlo.
Mitchell lo guardò per un po’, poi disse: «Dimmi
una cosa, Giftholz. Come fai a tirare avanti
la baracca?».
«Prego?»
«A tirare avanti la baracca» ripeté Mitchell.
«A rimanere a galla, insomma. Non è che tu
abbia tanti clienti e fai prezzi stracciatissimi.»
«Io faccio i prezzi giusti.»
«Sì, ma non credo che tu faccia molti quattrini
in questo modo...»
«Ah, be’, a volte è molto difficile» rispose
Giftholz.
«E come fai a pagare i conti? Hai qualche giro,
qualche affare tra le mani?»
«No, no, niente.»
Mitchell scosse la testa: sì, forse era vero,
Giftholz non aveva proprio nessun giro, anche
se sembrava impossibile: era uno di quei vecchi
negozianti onesti fino in fondo. Però, visto
come andava il mondo, era davvero strano
che riuscisse a stare a galla. Anche se faceva
prezzi bassi, non poteva certo competere con
le grandi catene di tavole calde che avevano
aperto nei dintorni e che garantivano offerte
speciali, regali, raccolte di punti e bollini...
Intanto Giftholz aveva finito di preparare il
sandwich: glielo mise su un piattino di carta,
gli preparò l’insalata di verza e mise tutto
sul banco.
«Sono due dollari in tutto, signor Mitchell.»
Due dollari. Roba da chiodi. Lo stesso tipo
di pranzo gli sarebbe costato quattro o cinque
dollari in una delle tavole calde in città: Mitchell
scosse nuovamente la testa, si frugò in tasca
e tirò fuori il portafoglio.
Quando l’ebbe aperto, vide che Giftholz
sbarrava gli occhi di fronte al mazzo
di banconote che c’era dentro. Probabilmente
non aveva mai visto più di cinquanta dollari
tutti insieme in vita sua. Diavolo, pensò
Mitchell, facciamolo divertire un po’. Aprì
ancor di più il portafoglio e lo mise sotto
il naso di Giftholz. «Ecco, guarda, questi sì
che sono soldi...» disse. «E sono in arrivo altri
bigliettoni...»
«Come ha fatto a guadagnare tanti soldi, signor
Mitchell?»
Mitchell si mise a ridere. «Be’, ho un paio
di conoscenze, ecco tutto. Ho fatto dei lavoretti
per loro e mi hanno ricompensato bene.»
«Ah» disse Giftholz e annuì4
con aria stanca.
«Sì, certo, ho capito.»
Mitchell si mise a ridere e attaccò il sandwich.
Molto buono. Giftholz faceva i sandwich
migliori della città, quello era poco ma sicuro.
Quando ebbe finito di mangiare, si pulì le mani
con un tovagliolino. Giftholz venne a prendere
il piatto, poi frugò sotto il banco e tirò fuori
un piattino di caramelle alla menta e
un vassoietto di stuzzicadenti.
«Prego, si serva.»
«Caramelle? Gratis? E da quando?»
«Be’, lei è un ottimo cliente...»
Mitchell gli sorrise, prese una manciata
di mentine e se le mise in tasca. Poi prese
uno stuzzicadenti e se lo infilò tra i denti.
«Mi farebbe un piccolo favore, signor Mitchell?»
«Un favore? Be’, dipende...»
4. annuì: fece cenno di sì con il capo.
«Potrebbe venire con me in cucina? Vorrei farle
vedere una cosa che sicuramente le interesserà.
Venga, non ci vorrà molto.»
«Va bene» disse. «Non vedo perché no.»
Giftholz gli fece cenno di girare intorno
al banco e poi lo precedette in cucina. Quando
Mitchell lo raggiunse non vide nulla
di particolarmente interessante. Era una cucina
come tante altre, con tutti gli arnesi,
un tagliere da macellaio, un paio di casse
di birra e un grosso apparecchio nell’angolo
in fondo.
«Allora, cos’è che dovevi farmi vedere?» chiese.
«Niente» rispose Giftholz. «Volevo farle
una domanda. Lei per caso parla tedesco?»
«Tedesco? Perché vuoi sapere una cosa
del genere?»
«Per via del mio nome. Se lei parlasse un po’
di tedesco saprebbe che cosa significa.»
Mitchell cominciava ad avere il fiatone
e gli girava la testa. Sbatté le palpebre un paio
di volte e si passò una mano sul volto. «Chi se
ne frega di cosa significa il tuo nome.»
«Invece le dovrebbe importare, signor Mitchell»
disse Giftholz «perché il mio nome significa
“pianta del veleno”.»
«Pianta del...» Mitchell spalancò la bocca,
lo stuzzicadenti gli cadde e rotolò sul
pavimento. Lo fissò per qualche secondo
con aria stupita.
Pianta del veleno.
Poi non si sentì più il fiato corto e le vertigini...
Non sentì più nulla. Non sentì neppure
il pavimento quando cadde battendo il viso.
Giftholz rimase a guardare quel corpo: peccato,
pensò triste. Comunque, il signor Mitchell
era un malvivente, e uomini del genere
non erano certo da compiangere. E poi tutto
costava sempre di più, ed era sempre più
difficile la vita per un uomo onesto. Davvero
bisognava arrangiarsi come si poteva.
Si chinò e gli provò il polso, ma naturalmente
non lo sentì. Il veleno paralizzava i muscoli
del cuore e portava a morte certa nello spazio
di pochi minuti. Comunque, come Giftholz
sapeva bene, scompariva dopo un certo
periodo di tempo, senza lasciare tracce.
Giftholz raccolse lo stuzzicadenti speciale
e lo gettò nella pattumiera; poi prese
il portafoglio del signor Mitchell e lo nascose
sotto il grembiule.
Bisognava arrangiarsi, in tutti i modi possibili.
Sì, era proprio vero. Ma c’era un’altra frase
di Mitchell che lo rendeva perplesso: «la stessa
polpetta». Non era la stessa polpetta; non era
la stessa già da un bel po’ di tempo.
Giftholz decise che forse il signor Mitchell
voleva dire qualche altra cosa. Poi,
faticosamente, cominciò a trascinare il corpo
verso il tritacarne.