Parafrasi canto IX de la "Gerusalemme liberata" di Torquato Tasso
Salve ragazzi mi servirebbe la parafrasi di queste ottave il più presto possibile,è per domani.
orre inanzi il Soldano, e giunge a quella
confusa ancora e inordinata guarda
rapido sí che torbida procella
da’ cavernosi monti esce piú tarda.
Fiume ch’arbori insieme e case svella,
folgore che le torri abbatta ed arda,
terremoto che ’l mondo empia d’orrore,
son picciole sembianze al suo furore.
Non cala il ferro mai ch’a pien non colga,
né coglie a pien che piaga anco non faccia,
né piaga fa che l’alma altrui non tolga;
e piú direi, ma il ver di falso ha faccia.
E par ch’egli o s’infinga o non se ’n dolga
o non senta il ferir de l’altrui braccia,
se ben l’elmo percosso in suon di squilla
rimbomba e orribilmente arde e sfavilla.
Or quando ei solo ha quasi in fuga vòlto
quel primo stuol de le francesche genti,
giungono in guisa d’un diluvio accolto
di mille rivi gli Arabi correnti.
Fuggono i Franchi allora a freno sciolto,
e misto il vincitor va tra’ fuggenti,
e con lor entra ne’ ripari, e ’l tutto
di ruine e d’orror s’empie e di lutto.
Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande
serpe che si dilunga e il collo snoda,
su le zampe s’inalza e l’ali spande
e piega in arco la forcuta coda.
Par che tre lingue vibri e che fuor mande
livida spuma, e che ’l suo fischio s’oda.
Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma
nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
E si mostra in quel lume a i riguardanti
formidabil cosí l’empio Soldano,
come veggion ne l’ombra i naviganti
fra mille lampi il torbido oceano.
Altri danno a la fuga i piè tremanti,
danno altri al ferro intrepida la mano;
e la notte i tumulti ognor piú mesce,
ed occultando i rischi, i rischi accresce.
Un paggio del Soldan misto era in quella
turba di sagittari e lanciatori,
a cui non anco la stagion novella
il bel mento spargea de’ primi fiori.
Paion perle e rugiade in su la bella
guancia irrigando i tepidi sudori,
giunge grazia la polve al crine incolto
e sdegnoso rigor dolce è in quel volto.
Sotto ha un destrier che di candore agguaglia
pur or ne l’Apennin caduta neve;
turbo o fiamma non è che roti o saglia
rapido sí come è quel pronto e leve.
Vibra ei, presa nel mezzo, una zagaglia,
la spada al fianco tien ritorta e breve,
e con barbara pompa in un lavoro
di porpora risplende intesta e d’oro.
Mentre il fanciullo, a cui novel piacere
di gloria il petto giovenil lusinga,
di qua turba e di là tutte le schiere,
e lui non è chi tanto o quanto stringa,
cauto osserva Argillan tra le leggiere
sue rote il tempo in che l’asta sospinga;
e, colto il punto, il suo destrier di furto
gli uccide e sovra gli è, ch’a pena è surto,
ed al supplice volto, il qual in vano
con l’arme di pietà fea sue difese,
drizzò, crudel!, l’inessorabil mano,
e di natura il piú bel pregio offese.
Senso aver parve e fu de l’uom piú umano
il ferro, che si volse e piatto scese.
Ma che pro, se doppiando il colpo fero
di punta colse ove egli errò primiero?
Soliman, che di là non molto lunge
da Goffredo in battaglia è trattenuto,
lascia la zuffa, e ’l destrier volve e punge
tosto che ’l rischio ha del garzon veduto;
e i chiusi passi apre co ’l ferro, e giunge
a la vendetta sí, non a l’aiuto,
perché vede, ahi dolor!, giacerne ucciso
il suo Lesbin, quasi bel fior succiso.
E in atto sí gentil languir tremanti
gli occhi e cader su ’l tergo il collo mira;
cosí vago è il pallore, e da’ sembianti
di morte una pietà sí dolce spira,
ch’ammollí il cor che fu dur marmo inanti,
e il pianto scaturí di mezzo a l’ira.
Tu piangi, Soliman? tu, che destrutto
mirasti il regno tuo co ’l ciglio asciutto?
Ma come vede il ferro ostil che molle
fuma del sangue ancor del giovenetto,
la pietà cede, e l’ira avampa e bolle,
e le lagrime sue stagna nel petto.
Corre sovra Argillano e ’l ferro estolle,
parte lo scudo opposto, indi l’elmetto,
indi il capo e la gola; e de lo sdegno
di Soliman ben quel gran colpo è degno.
Né di ciò ben contento, al corpo morto
smontato del destriero anco fa guerra,
quasi mastin che ’l sasso, ond’a lui porto
fu duro colpo, infellonito afferra.
Oh d’immenso dolor vano conforto
incrudelir ne l’insensibil terra!
orre inanzi il Soldano, e giunge a quella
confusa ancora e inordinata guarda
rapido sí che torbida procella
da’ cavernosi monti esce piú tarda.
Fiume ch’arbori insieme e case svella,
folgore che le torri abbatta ed arda,
terremoto che ’l mondo empia d’orrore,
son picciole sembianze al suo furore.
Non cala il ferro mai ch’a pien non colga,
né coglie a pien che piaga anco non faccia,
né piaga fa che l’alma altrui non tolga;
e piú direi, ma il ver di falso ha faccia.
E par ch’egli o s’infinga o non se ’n dolga
o non senta il ferir de l’altrui braccia,
se ben l’elmo percosso in suon di squilla
rimbomba e orribilmente arde e sfavilla.
Or quando ei solo ha quasi in fuga vòlto
quel primo stuol de le francesche genti,
giungono in guisa d’un diluvio accolto
di mille rivi gli Arabi correnti.
Fuggono i Franchi allora a freno sciolto,
e misto il vincitor va tra’ fuggenti,
e con lor entra ne’ ripari, e ’l tutto
di ruine e d’orror s’empie e di lutto.
Porta il Soldan su l’elmo orrido e grande
serpe che si dilunga e il collo snoda,
su le zampe s’inalza e l’ali spande
e piega in arco la forcuta coda.
Par che tre lingue vibri e che fuor mande
livida spuma, e che ’l suo fischio s’oda.
Ed or ch’arde la pugna, anch’ei s’infiamma
nel moto, e fumo versa insieme e fiamma.
E si mostra in quel lume a i riguardanti
formidabil cosí l’empio Soldano,
come veggion ne l’ombra i naviganti
fra mille lampi il torbido oceano.
Altri danno a la fuga i piè tremanti,
danno altri al ferro intrepida la mano;
e la notte i tumulti ognor piú mesce,
ed occultando i rischi, i rischi accresce.
Un paggio del Soldan misto era in quella
turba di sagittari e lanciatori,
a cui non anco la stagion novella
il bel mento spargea de’ primi fiori.
Paion perle e rugiade in su la bella
guancia irrigando i tepidi sudori,
giunge grazia la polve al crine incolto
e sdegnoso rigor dolce è in quel volto.
Sotto ha un destrier che di candore agguaglia
pur or ne l’Apennin caduta neve;
turbo o fiamma non è che roti o saglia
rapido sí come è quel pronto e leve.
Vibra ei, presa nel mezzo, una zagaglia,
la spada al fianco tien ritorta e breve,
e con barbara pompa in un lavoro
di porpora risplende intesta e d’oro.
Mentre il fanciullo, a cui novel piacere
di gloria il petto giovenil lusinga,
di qua turba e di là tutte le schiere,
e lui non è chi tanto o quanto stringa,
cauto osserva Argillan tra le leggiere
sue rote il tempo in che l’asta sospinga;
e, colto il punto, il suo destrier di furto
gli uccide e sovra gli è, ch’a pena è surto,
ed al supplice volto, il qual in vano
con l’arme di pietà fea sue difese,
drizzò, crudel!, l’inessorabil mano,
e di natura il piú bel pregio offese.
Senso aver parve e fu de l’uom piú umano
il ferro, che si volse e piatto scese.
Ma che pro, se doppiando il colpo fero
di punta colse ove egli errò primiero?
Soliman, che di là non molto lunge
da Goffredo in battaglia è trattenuto,
lascia la zuffa, e ’l destrier volve e punge
tosto che ’l rischio ha del garzon veduto;
e i chiusi passi apre co ’l ferro, e giunge
a la vendetta sí, non a l’aiuto,
perché vede, ahi dolor!, giacerne ucciso
il suo Lesbin, quasi bel fior succiso.
E in atto sí gentil languir tremanti
gli occhi e cader su ’l tergo il collo mira;
cosí vago è il pallore, e da’ sembianti
di morte una pietà sí dolce spira,
ch’ammollí il cor che fu dur marmo inanti,
e il pianto scaturí di mezzo a l’ira.
Tu piangi, Soliman? tu, che destrutto
mirasti il regno tuo co ’l ciglio asciutto?
Ma come vede il ferro ostil che molle
fuma del sangue ancor del giovenetto,
la pietà cede, e l’ira avampa e bolle,
e le lagrime sue stagna nel petto.
Corre sovra Argillano e ’l ferro estolle,
parte lo scudo opposto, indi l’elmetto,
indi il capo e la gola; e de lo sdegno
di Soliman ben quel gran colpo è degno.
Né di ciò ben contento, al corpo morto
smontato del destriero anco fa guerra,
quasi mastin che ’l sasso, ond’a lui porto
fu duro colpo, infellonito afferra.
Oh d’immenso dolor vano conforto
incrudelir ne l’insensibil terra!