Tesina
ciao raga ho urgenza nel trovare collegamenti per la mia tesina che è sul "il male di vivere " ho problemi con le seguenti materie :ristorazione ,diritto,alimentazione
Risposte
Fatto vedere alla prof...ma dice che HCCP non collega bene...non so!
ok
Sposto nella sezione maturità.
Ciao Laura!
Ciao Laura!
HACCP e MAL DI VIVERE: L' HACCP nasce dall'esigenza di garantire la salubrità delle preparazioni alimentari cambiando approccio, cioè passando da un controllo a valle del processo produttivo, sul prodotto finito, a un controllo invece del processo produttivo in ogni sua fase, individuando i rischi che possono influire sulla sicurezza degli alimenti e attuando misure preventive per tenerli sotto controllo. L'azienda valuta i pericoli, stima i rischi e stabilisce le misure di controllo per prevenire l'insorgere di problemi igienico-sanitari.
Nel concetto dell'HACCP, pericolo è qualcosa che è inaccettabile perché può rendere un alimento non sicuro per l'alimentazione umana e causare un danno al consumatore: può essere un agente biologico (microrganismi o le loro tossine), chimico (sostanze carcinogene, pesticidi, ormoni, antibiotici, metalli pesanti, qualora presenti in quantità inaccettabili) o fisico (corpi estranei quali pietre, ossa, vetro) nell'alimento, ma anche essere una sua caratteristica o condizione. Per esempio anche una scorretta temperatura di conservazione di un alimento può essere un pericolo.
Il rischio invece è inteso come la probabilità che il pericolo si verifichi; è quindi un dato statistico che deve essere applicato a ogni pericolo.
Aggiunto 1 minuto più tardi:
Quindi collega il mal di vivere al cibo spazzatura, e poi all HACCP (sicurezza alimentare) :)
Nel concetto dell'HACCP, pericolo è qualcosa che è inaccettabile perché può rendere un alimento non sicuro per l'alimentazione umana e causare un danno al consumatore: può essere un agente biologico (microrganismi o le loro tossine), chimico (sostanze carcinogene, pesticidi, ormoni, antibiotici, metalli pesanti, qualora presenti in quantità inaccettabili) o fisico (corpi estranei quali pietre, ossa, vetro) nell'alimento, ma anche essere una sua caratteristica o condizione. Per esempio anche una scorretta temperatura di conservazione di un alimento può essere un pericolo.
Il rischio invece è inteso come la probabilità che il pericolo si verifichi; è quindi un dato statistico che deve essere applicato a ogni pericolo.
Aggiunto 1 minuto più tardi:
Quindi collega il mal di vivere al cibo spazzatura, e poi all HACCP (sicurezza alimentare) :)
Il contratto(in generale tutti) ,le obbligazione,HCCP basta!
Aggiunto 12 secondi più tardi:
Il contratto(in generale tutti) ,le obbligazione,HCCP basta!
Aggiunto 6 minuti più tardi:
Allora scusa posso portare il cibo spazzatura in cucina??perché è tema attuale? Grazie tanto tanto tanto di cuore!a stasera se riesci a trovarmi qualcosa grazie mille davvero!
Aggiunto 12 secondi più tardi:
Il contratto(in generale tutti) ,le obbligazione,HCCP basta!
Aggiunto 6 minuti più tardi:
Allora scusa posso portare il cibo spazzatura in cucina??perché è tema attuale? Grazie tanto tanto tanto di cuore!a stasera se riesci a trovarmi qualcosa grazie mille davvero!
beh di cucina, il cibo spazzatura è attuale, non c'è bisogno di programma fatto
Aggiunto 6 secondi più tardi:
beh di cucina, il cibo spazzatura è attuale, non c'è bisogno di programma fatto
Aggiunto 6 secondi più tardi:
beh di cucina, il cibo spazzatura è attuale, non c'è bisogno di programma fatto
Cucina al massimo del catering ma non centra niente
dimmi cosa hai fatto e stasera ti rispondo meglio
Scusa ma non abbiamo fatto nulla di questo a scuola ...al massimo hccp
per diritto segui: “La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre.”
Così il grande scrittore giapponese Yukio Mishima, nell’ imminenza di uccidersi. Un desiderio di eternità, prima di terminare in fretta quel che già fugge veloce.
Marguerite Yourcenar, nel saggio Mishima o la visione del vuoto, scriverà che infondo sono solo due i modi di sopportare la tensione inconciliabile fra il vuoto e libertà: sentirsi liberi nella vita ignorando la morte, o liberarsi trovando nel buio l’assurdo coraggio del vivere.
La nostra società probabilmente ha scelto la prima strada, ma nascondendo la morte ha nascosto un po’ anche la vita.
In questo silenzio, il suicida, come Mario Monicelli o Lucio Magri, è destinato a dettare scandalo.
Trovo volgare ogni commento sul perché del gesto.
Lontano da ogni verità che non sia strettamente la vita stessa, mi chiedo unicamente se abbia senso e come sia configurabile un diritto alla morte, in un’ ottica sociale e giuridica.
Sgombrando il campo dagli equivoci, si tratta di interrogarsi su un’ ipotesi ben distinta dai casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Il malato, cosciente e informato, può rifiutare le cure e rinunciare alle terapie. Il problema in quei casi si poneva di fronte alla tecnocrazia della macchina sul corpo e al problema del consenso del paziente.
Il suicidio assistito e la figura di confine dell’ eutanasia attiva, invece, configurano la prospettiva di poter scegliere di uccidersi nella disperazione estrema, da una malattia terminale fino ai casi dei c.d. “tired of living” ovvero di coloro che decidono di morire perché, a farla breve, il tempo strappa, la solitudine consuma, la vita stanca.
*L’esempio più famoso a riguardo è probabilmente quello dell’ex deputato olandese Edward Brongersma, assistito nel suicidio dal suo medico pur in assenza di malattie psichiche o fisiche, sulla base di un incurabile male di vivere. Il medico prese atto del sussistere di due elementi: una profonda insostenibile sofferenza del paziente e il suo consenso.
Il caso in Olanda aprì un triplice dibattito: legislativo, giudiziario e d’ opinione.
In ultima istanza, il dottore fu considerato colpevole, sulla scorta di un argomento che pare rilevante: se non c’è una malattia, ma solo un male, il medico non ha competenza per decidere.
In Svizzera, dove si è recato Lucio Magri, l’assistenza al suicidio non è considerata attività medica. Vi sono centri, come quelli legati alle associazioni Exit e Dignitas, dove si forniscono le sostanze letali al paziente. Nella stanza della clinica si resta soli e da soli si decide se assumere o meno la pillola, esercitando il proprio diritto alla morte.
Nel suo commento, Marco Travaglio ha ricordato che in Italia l’articolo 575 del Codice penale, punendo con la reclusione chiunque cagiona la morte di un uomo, si pone come ostacolo insormontabile al suicidio assistito. La vita è d’altronde il bene umano e giuridico più prezioso e protetto.
Ma la legge, si potrebbe obiettare, fissa ed esprime una scelta, non la produce.
Nemmeno sembra davvero risolutivo, a riguardo, parlare di deontologia medica.Vi sono attività che investono il corpo, eppure non sono cure, come le chirurgie con finalità schiettamente estetiche.
Un esperto di diritto e bioetica come il Prof. Stefano Canestrari, ricorda spesso nei suoi interventi come tecniche di suicidio assistito potrebbero produrre un’ inaccettabile meccanismo d’ induzione alla morte nella fasce deboli della popolazione come gli anziani.
Fra i tanti argomenti contrari all’ idea che una collettività possa autorizzare l’assistenza al suicidio, ve ne è uno poco considerato, che però mi appare davvero essenziale: l’irriconducibilità della vita alla “bios”, cioè alla vita stessa.
Non è un gioco di parole. La vita semplicemente, supera ogni descrizione di se stessa, sia essa medica, fisiologica o psichica; ergo la vita, presa nel suo essere, si sottrae a un qualsivoglia giudizio.
Possiamo decidere sul nostro corpo, curare o non curare la malattia, ma siamo nudi di fronte la questione essenziale: la vita fa male.
Alla luce di questo, Albert Camus alla soglia dei trent’ anni, si domandava se l’ avventura vada compiuta lo stesso e gridava sul finire un profondo Si, eroico e disperato.
Insistere a vivere, altri hanno scelto e sceglieranno la strada diversa.Il risultato è in ogni caso privo di spiegazione. L’assurdità rimane.
Proprio sull’ assurdo della vita si gioca l’ assurdo del suicidio e la sua rilevanza sociale.
Nessuna regola scientifica o religiosa, giuridica o etica, potrà mai dire sulla volontà profonda del vivere e credo che il massimo rispetto della libertà sia nel silenzio di affrontarla con la propria storia, sopportando l’ impossibilità di una pacificazione.
Essere o non essere. La scelta del suicidio è un peso di cui soltanto l’ individuo e non la società può farsi carico, nemmeno a mio avviso, assistendo e aiutando chi manifesti la decisione di terminare l’avventura.
Questa opzione, implicherebbe una valutazione, ma questa valutazione non ha parametro e dunque è totalmente sottratta al giudizio. Sarebbe crudele per alcuni, tragica per altri, perfino dolce per altri ancora. Mancando la possibile verifica a posteriori – nel silenzio della morte – non sapremo mai se e per chi è stata giustizia, se abbiamo contribuito a uccidere, o a sollevare.
In definitiva, noi non possiamo dire nulla e morire è una condanna o una libertà che non ha bilancia e non ha pesi, non un diritto, cioè un valore implicito di misurazione.
Una regolamentazione del suicidio assistito, fuori dai casi di rifiuto delle cure e diassistenza palliativa al dolore, mi sembra sconfini i limiti del sociale, affrontando il tema del male di vivere e commettendo l’errore più ottuso della nostra intelligenza: razionalizzare l’assurdo, rimuovere ancora la vita.
Sulla scelta del morire gravano la solitudine e l’ estremo, ma pur in una logica di comprensione e dignità, il riconoscimento di un diritto in tal senso si presterebbe a una tolleranza sociale drammaticamente fallibile, di cui continuo a preferire l’assenza.
Aggiunto 2 minuti più tardi:
per cucina puoi trattare i cibi spazzatura:
Una recentissima ricerca inglese afferma che il “cibo spazzatura” accelera lo stato di depressione nel consumatore. I test sono stati svolti su 3486 uomini e donne la cui età media si aggirava sui 55 anni. I partecipanti hanno completato un questionario sulle loro abitudini alimentari e 5 anni dopo sono stati sottoposti a test psicologici per stabilire la predisposizione alla depressione e la soddisfazione personale. Emergerebbe che coloro i quali prediligono il cibo spazzatura sono più inclini alla depressione. Lo studio afferma che le diete varie, a base di cibi ricchi di antiossidanti come broccoli, cavoli, lenticchie e spinaci siano un toccasana per non essere travolti dal male di vivere (qualcuno avrebbe dovuto dirlo a Montale!).
Ulteriore monito, quello di questa ricerca, per eliminare i cibi ultimamente sempre più incriminati come gli untissimi fritti, i dolci preconfezionati, le carni, i condimenti. Non bisogna eccedere con gli zuccheri nel sangue, “non bisogna creare sbalzi nei valori del sangue, altrimenti si potrebbero verificare conseguenti sbalzi a livello cerebrale e sul sistema endocrino con effetto yo yo sull'umore”, afferma Eric Brunner, uno dei ricercatori.
Subito mi viene in mente il titolo della celebre opera di Feuerbach “Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia”. Avrà avuto ragione?
Ovviamente l'obiettivo del filosofo era sostenere un rigoroso materialismo contrapponendosi all'idealismo. Leggendo con attenzione fin dall'inizio della storia del pensiero il cibo è stato al centro di effettive considerazioni collegate allo stile di vita. Già Aristotele e Platone riconoscono al cibo qualità essenziali e distintive per il pensiero.
Ciascuno in base al tempo e alla cultura, alle esigenze stesse della società richiamava l'attenzione su un certo tipo di disciplina alimentare: alcuni teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali, sosteneva Pitagora. Porfirio pure si avvicinava alla disciplina vegetariana, promuovendola non solo come migliore per la salute del corpo ma anche migliore per una vita ascetica. Il cibo povero e frugale dei vegetali avvicinerebbe l'anima al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo.
Vi furono poi filosofi ben più lussuriosi e dediti ai piaceri del cibo. Primo fra tutti, La Mettrie, il più materialista dei materialisti, che addirittura morì per indigestione di paté di fagiano. Perfino Kant si dice essere stato amante del buon cibo. Non era avvezzo a cibi molto elaborati, piuttosto prediligeva quelli poveri ma sostanziosi e amava dedicare tempo al piacere del cibo. Nietzsche pare seguisse una dieta assolutamente eccessiva e squilibrata, accostando salsicce a uova, noci e formaggi, prediligendo evidentemente cibi “poco puri”. “La cucina piemontese è la mia preferita” afferma in Ecce Homo. Altri, come Hegel e Marx, erano molto attenti al bere più che al cibo. Amanti l'uno più del vino l'altro della birra, arrivando a sfruttare questo vezzo per esplicare meglio le loro teorie (per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, Hegel spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino… ).
Appare evidente quanto sia forte il nesso tra i precetti dati da determinate scuole di pensiero o religioni per salvaguardare la salute dei discepoli in base al tempo in cui vivono e la realtà delle cose. Onestamente non credo che Nietzsche mangiando salsicce in una Torino di fine Ottocento, o Hegel degustando un buon vino, fossero più infelici di sciami di parchi e morigerati vegetariani contemporanei che inseguono nelle diete oscuri precetti per salvare non solo il pianeta ma spesso anche il Sé.
Anzi, mi verrebbe da dire che se l'essenza delle cose si trova tra travagli e difficoltà in un mondo refrattario e bulimico, almeno il cibo con il suo piacere, finché si ha la possibilità di goderne, solleva e aiuta a sorridere. Il cibo e la dieta restano una scelta soggettiva, oggi troppo spesso indotte dalla società, dal mercato che richiede, più che dal corpo che esige. Con ciò non sostengo in prima persona né l'abuso né l'utilizzo insulso del cibo e del vizio. Credo debba essere piuttosto la risposta ad un corpo, ad un essere che richiede, pertanto difficilmente teorizzabile e ancor più difficile da comprendere.
Così il grande scrittore giapponese Yukio Mishima, nell’ imminenza di uccidersi. Un desiderio di eternità, prima di terminare in fretta quel che già fugge veloce.
Marguerite Yourcenar, nel saggio Mishima o la visione del vuoto, scriverà che infondo sono solo due i modi di sopportare la tensione inconciliabile fra il vuoto e libertà: sentirsi liberi nella vita ignorando la morte, o liberarsi trovando nel buio l’assurdo coraggio del vivere.
La nostra società probabilmente ha scelto la prima strada, ma nascondendo la morte ha nascosto un po’ anche la vita.
In questo silenzio, il suicida, come Mario Monicelli o Lucio Magri, è destinato a dettare scandalo.
Trovo volgare ogni commento sul perché del gesto.
Lontano da ogni verità che non sia strettamente la vita stessa, mi chiedo unicamente se abbia senso e come sia configurabile un diritto alla morte, in un’ ottica sociale e giuridica.
Sgombrando il campo dagli equivoci, si tratta di interrogarsi su un’ ipotesi ben distinta dai casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Il malato, cosciente e informato, può rifiutare le cure e rinunciare alle terapie. Il problema in quei casi si poneva di fronte alla tecnocrazia della macchina sul corpo e al problema del consenso del paziente.
Il suicidio assistito e la figura di confine dell’ eutanasia attiva, invece, configurano la prospettiva di poter scegliere di uccidersi nella disperazione estrema, da una malattia terminale fino ai casi dei c.d. “tired of living” ovvero di coloro che decidono di morire perché, a farla breve, il tempo strappa, la solitudine consuma, la vita stanca.
*L’esempio più famoso a riguardo è probabilmente quello dell’ex deputato olandese Edward Brongersma, assistito nel suicidio dal suo medico pur in assenza di malattie psichiche o fisiche, sulla base di un incurabile male di vivere. Il medico prese atto del sussistere di due elementi: una profonda insostenibile sofferenza del paziente e il suo consenso.
Il caso in Olanda aprì un triplice dibattito: legislativo, giudiziario e d’ opinione.
In ultima istanza, il dottore fu considerato colpevole, sulla scorta di un argomento che pare rilevante: se non c’è una malattia, ma solo un male, il medico non ha competenza per decidere.
In Svizzera, dove si è recato Lucio Magri, l’assistenza al suicidio non è considerata attività medica. Vi sono centri, come quelli legati alle associazioni Exit e Dignitas, dove si forniscono le sostanze letali al paziente. Nella stanza della clinica si resta soli e da soli si decide se assumere o meno la pillola, esercitando il proprio diritto alla morte.
Nel suo commento, Marco Travaglio ha ricordato che in Italia l’articolo 575 del Codice penale, punendo con la reclusione chiunque cagiona la morte di un uomo, si pone come ostacolo insormontabile al suicidio assistito. La vita è d’altronde il bene umano e giuridico più prezioso e protetto.
Ma la legge, si potrebbe obiettare, fissa ed esprime una scelta, non la produce.
Nemmeno sembra davvero risolutivo, a riguardo, parlare di deontologia medica.Vi sono attività che investono il corpo, eppure non sono cure, come le chirurgie con finalità schiettamente estetiche.
Un esperto di diritto e bioetica come il Prof. Stefano Canestrari, ricorda spesso nei suoi interventi come tecniche di suicidio assistito potrebbero produrre un’ inaccettabile meccanismo d’ induzione alla morte nella fasce deboli della popolazione come gli anziani.
Fra i tanti argomenti contrari all’ idea che una collettività possa autorizzare l’assistenza al suicidio, ve ne è uno poco considerato, che però mi appare davvero essenziale: l’irriconducibilità della vita alla “bios”, cioè alla vita stessa.
Non è un gioco di parole. La vita semplicemente, supera ogni descrizione di se stessa, sia essa medica, fisiologica o psichica; ergo la vita, presa nel suo essere, si sottrae a un qualsivoglia giudizio.
Possiamo decidere sul nostro corpo, curare o non curare la malattia, ma siamo nudi di fronte la questione essenziale: la vita fa male.
Alla luce di questo, Albert Camus alla soglia dei trent’ anni, si domandava se l’ avventura vada compiuta lo stesso e gridava sul finire un profondo Si, eroico e disperato.
Insistere a vivere, altri hanno scelto e sceglieranno la strada diversa.Il risultato è in ogni caso privo di spiegazione. L’assurdità rimane.
Proprio sull’ assurdo della vita si gioca l’ assurdo del suicidio e la sua rilevanza sociale.
Nessuna regola scientifica o religiosa, giuridica o etica, potrà mai dire sulla volontà profonda del vivere e credo che il massimo rispetto della libertà sia nel silenzio di affrontarla con la propria storia, sopportando l’ impossibilità di una pacificazione.
Essere o non essere. La scelta del suicidio è un peso di cui soltanto l’ individuo e non la società può farsi carico, nemmeno a mio avviso, assistendo e aiutando chi manifesti la decisione di terminare l’avventura.
Questa opzione, implicherebbe una valutazione, ma questa valutazione non ha parametro e dunque è totalmente sottratta al giudizio. Sarebbe crudele per alcuni, tragica per altri, perfino dolce per altri ancora. Mancando la possibile verifica a posteriori – nel silenzio della morte – non sapremo mai se e per chi è stata giustizia, se abbiamo contribuito a uccidere, o a sollevare.
In definitiva, noi non possiamo dire nulla e morire è una condanna o una libertà che non ha bilancia e non ha pesi, non un diritto, cioè un valore implicito di misurazione.
Una regolamentazione del suicidio assistito, fuori dai casi di rifiuto delle cure e diassistenza palliativa al dolore, mi sembra sconfini i limiti del sociale, affrontando il tema del male di vivere e commettendo l’errore più ottuso della nostra intelligenza: razionalizzare l’assurdo, rimuovere ancora la vita.
Sulla scelta del morire gravano la solitudine e l’ estremo, ma pur in una logica di comprensione e dignità, il riconoscimento di un diritto in tal senso si presterebbe a una tolleranza sociale drammaticamente fallibile, di cui continuo a preferire l’assenza.
Aggiunto 2 minuti più tardi:
per cucina puoi trattare i cibi spazzatura:
Una recentissima ricerca inglese afferma che il “cibo spazzatura” accelera lo stato di depressione nel consumatore. I test sono stati svolti su 3486 uomini e donne la cui età media si aggirava sui 55 anni. I partecipanti hanno completato un questionario sulle loro abitudini alimentari e 5 anni dopo sono stati sottoposti a test psicologici per stabilire la predisposizione alla depressione e la soddisfazione personale. Emergerebbe che coloro i quali prediligono il cibo spazzatura sono più inclini alla depressione. Lo studio afferma che le diete varie, a base di cibi ricchi di antiossidanti come broccoli, cavoli, lenticchie e spinaci siano un toccasana per non essere travolti dal male di vivere (qualcuno avrebbe dovuto dirlo a Montale!).
Ulteriore monito, quello di questa ricerca, per eliminare i cibi ultimamente sempre più incriminati come gli untissimi fritti, i dolci preconfezionati, le carni, i condimenti. Non bisogna eccedere con gli zuccheri nel sangue, “non bisogna creare sbalzi nei valori del sangue, altrimenti si potrebbero verificare conseguenti sbalzi a livello cerebrale e sul sistema endocrino con effetto yo yo sull'umore”, afferma Eric Brunner, uno dei ricercatori.
Subito mi viene in mente il titolo della celebre opera di Feuerbach “Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia”. Avrà avuto ragione?
Ovviamente l'obiettivo del filosofo era sostenere un rigoroso materialismo contrapponendosi all'idealismo. Leggendo con attenzione fin dall'inizio della storia del pensiero il cibo è stato al centro di effettive considerazioni collegate allo stile di vita. Già Aristotele e Platone riconoscono al cibo qualità essenziali e distintive per il pensiero.
Ciascuno in base al tempo e alla cultura, alle esigenze stesse della società richiamava l'attenzione su un certo tipo di disciplina alimentare: alcuni teorizzarono il vegetarianesimo come prassi di vita, nella convinzione che l’uomo non dovesse cibarsi di carni perché, nella misura in cui le anime possono reincarnarsi anche negli animali, ciò equivarrebbe a essere cannibali, sosteneva Pitagora. Porfirio pure si avvicinava alla disciplina vegetariana, promuovendola non solo come migliore per la salute del corpo ma anche migliore per una vita ascetica. Il cibo povero e frugale dei vegetali avvicinerebbe l'anima al divino nel distacco da tutte le passioni e da tutti i piaceri del corpo.
Vi furono poi filosofi ben più lussuriosi e dediti ai piaceri del cibo. Primo fra tutti, La Mettrie, il più materialista dei materialisti, che addirittura morì per indigestione di paté di fagiano. Perfino Kant si dice essere stato amante del buon cibo. Non era avvezzo a cibi molto elaborati, piuttosto prediligeva quelli poveri ma sostanziosi e amava dedicare tempo al piacere del cibo. Nietzsche pare seguisse una dieta assolutamente eccessiva e squilibrata, accostando salsicce a uova, noci e formaggi, prediligendo evidentemente cibi “poco puri”. “La cucina piemontese è la mia preferita” afferma in Ecce Homo. Altri, come Hegel e Marx, erano molto attenti al bere più che al cibo. Amanti l'uno più del vino l'altro della birra, arrivando a sfruttare questo vezzo per esplicare meglio le loro teorie (per render conto del passaggio dalla religione alla filosofia all’interno del suo sistema, Hegel spiega che è un po’ come con lo champagne, quando nel calice la schiume si fonde con vino… ).
Appare evidente quanto sia forte il nesso tra i precetti dati da determinate scuole di pensiero o religioni per salvaguardare la salute dei discepoli in base al tempo in cui vivono e la realtà delle cose. Onestamente non credo che Nietzsche mangiando salsicce in una Torino di fine Ottocento, o Hegel degustando un buon vino, fossero più infelici di sciami di parchi e morigerati vegetariani contemporanei che inseguono nelle diete oscuri precetti per salvare non solo il pianeta ma spesso anche il Sé.
Anzi, mi verrebbe da dire che se l'essenza delle cose si trova tra travagli e difficoltà in un mondo refrattario e bulimico, almeno il cibo con il suo piacere, finché si ha la possibilità di goderne, solleva e aiuta a sorridere. Il cibo e la dieta restano una scelta soggettiva, oggi troppo spesso indotte dalla società, dal mercato che richiede, più che dal corpo che esige. Con ciò non sostengo in prima persona né l'abuso né l'utilizzo insulso del cibo e del vizio. Credo debba essere piuttosto la risposta ad un corpo, ad un essere che richiede, pertanto difficilmente teorizzabile e ancor più difficile da comprendere.
Appunto per alimentazione avevo intenzione di portare anoressia e bolumia ma ero indeciso ,ma il problema è diritto e cucina (diritto avevo in idea di porta l invalida del contratto mentre cucina non so come fare!!magari la birra non so.....
male di vivere, spiegati meglio
Aggiunto 3 minuti più tardi:
alimentazione, potresti parlare dei disturbi alimentari, tipo anoressia e bulimia
Aggiunto 1 minuto più tardi:
oppure segui questo discorso: il cibo, da sempre, è stato al centro di diverse considerazioni filosofiche. Ancora oggi uno studio ha dimostrato come l’utilizzo di cibo spazzatura amplifichi lo stato di depressione in chi lo consuma, mentre diete varie a base di cibi ricchi di antiossidanti siano un toccasana contro il male di vivere. La scelta sarebbe evidente, visto l’esito dello studio, ma il cibo e la dieta restano comunque una scelta soggettiva.
Aggiunto 3 minuti più tardi:
alimentazione, potresti parlare dei disturbi alimentari, tipo anoressia e bulimia
Aggiunto 1 minuto più tardi:
oppure segui questo discorso: il cibo, da sempre, è stato al centro di diverse considerazioni filosofiche. Ancora oggi uno studio ha dimostrato come l’utilizzo di cibo spazzatura amplifichi lo stato di depressione in chi lo consuma, mentre diete varie a base di cibi ricchi di antiossidanti siano un toccasana contro il male di vivere. La scelta sarebbe evidente, visto l’esito dello studio, ma il cibo e la dieta restano comunque una scelta soggettiva.