La morte in kierkegaard
la morte in kiekegaard
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a speculazione sul concetto di morte nel Novecento raccoglie e rielabora l’eredità di Kierkegaard, che proprio alla vigilia della Prima guerra mondiale comincerà a essere letto e apprezzato. In Kierkegaard non c’è alcuna concezione oggettivizzata della morte (come per esempio era presente in Hegel, per il quale la morte dell’individuo è sempre e comunque inscritta all’interno del processo del genere in cui l’individuo si trova collocato), perché il suo interesse è di tipo esistenziale: al filosofo danese interessa analizzare il percorso attraverso il quale il singolo, 'gettato' nel mondo dallo 'scacco ontologico' costituito dalla nascita, realizza la propria autenticità attraverso l’infinito ventaglio di possibilità che appunto la sua condizione di essere gettato nel mondo gli offre. La morte, per Kierkegaard, non è concettualizzabile: è un evento singolo, individuale, è qualcosa che riguarda me e soltanto me e, in quanto tale, è inconcepibile e irrapresentabile. L’ineluttabilità della morte e, contemporaneamente, l’inconoscibilità del momento in cui essa giungerà, fa sì che il pensiero di essa debba essere sempre presente in qualsiasi cosa che facciamo: la morte rappresenta il limite, l’aporia della nostra condizione umana e, allo stesso tempo, l’orizzonte di senso nel quale sfugge alla disperazione e si pone come momento di passaggio, carico di speranza, verso l’annullamento in Dio.
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