Chi mi riesce a fare un riassunto di questo testo? so di chiedere tantissimo, ma non riesco proprio
Il ripiegamento intimista in Prassitele e Skopas
La Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), la rivalità tra Sparta e Atene ancora negli anni successivi (fra il 390 e il 371 a.C.), la guerra tra Sparta e Tebe (371 a.C.) e l’inizio dell’egemonia di quest’ultima città sulla Grecia continentale, che durò circa un decennio, almeno fi nché visse il condottiero Epaminónda (che morì nel 362 a.C.), crearono un clima di grande instabilità e incertezza. Il terrifi cante fl agello della peste, che colpì Atene nel 430 a.C., si aggiunse ad avvilire gli animi. Come scrisse in pagine famose Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, quel male così misterioso e crudele portò gli uomini dapprima a rivolgersi alle divinità e ad aff ollare i luoghi sacri per avere conforto. Successivamente, con il diff ondersi della malattia, assistendo alla morte di amici e parenti, ritenendo che gli dei fossero insensibili al loro dolore e non trovando in essi consolazione, molti provarono un forte senso di sfi ducia e di abbandono e si lasciarono vincere dal morbo. Mentre gli antichi ideali ellenici cominciavano a
morire, l’appello alla divinità restava senza risposta e iniziava a diff ondersi la sfi ducia nelle leggi divine e in quelle degli uomini, l’artista, allo stesso modo di tutti gli altri esseri umani, non poteva che contare sulle proprie forze. Non gli rimaneva altro, infatti, che contemplare malinconicamente la propria vita rivolgendo i pensieri non più ai grandi problemi e ai grandi ideali, ma alle piccole cose quotidiane e ripiegarsi verso la propria interiorità, alla ricerca della felicità personale. In tali circostanze gli dei che l’uomo sente vicini non sono più le grandi divinità olimpiche, ma quelli che meglio interpretano i suoi sentimenti più intimi e nascosti: la sfera individuale e familiare, dunque, si pone ora al centro del rapporto con il divino.
Prassitele ateniese (400/395-326 a.C.)
Scultore ateniese, Prassìtele è colui che più d’ogni altro artista incarna i modi di sentire del tempo. Benché lavorasse anche il bronzo, a questo materiale preferiva il marmo che, alla fi ne, il pittore Nicia (fi orito tra il 365 e il 315 a.C.) trattava per lui con cere colorate. Tanta era la forza dei sentimenti espressi dalle sue sculture che Diodòro Sìculo scrisse di lui che «mescolò in modo eccellente i sentimenti dell’animo alla natura marmorea dei suoi lavori».
Afrodite Cnidia L’attività più intensa di Prassitele si colloca attorno al 364/363 a.C., quando scolpisce l’Afrodìte Cnìdia Fig. 6.1 , così chiamata perché acquistata dagli abitanti di Cnido (città presso le coste dell’Asia Minore). Questi, affi nché tutti potessero godere della grande bellezza della statua, la collocarono in un tempietto il cui naos era dotato non di una, ma di due aperture lungo lo stesso asse, o forse in un tempietto monoptero ❯ Ant. 30 . Per la prima volta una dea viene rappresentata
nuda mentre, prima del bagno rituale (o subito dopo), appoggia un panno sopra un’anfora (o lo prende). Il corpo sinuoso, a «S» Fig. 6.2 , mostra tutti gli attributi della femminilità tanto che, racconta Plinio il Vecchio, un nobile giovane se ne innamorò perdutamente. L’articolarsi delle membra secondo una linea curva impone, ai fi ni statici, la presenza di un appoggio adeguato, in questo caso costituito dall’anfora con il soprastante panno drappeggiato. Tale elemento, peraltro, è parte attiva dell’intera composizione: le pieghe del drappo, in presenza della luce, generano infatti ombre che contrastano con la morbida, ondeggiante e liscia nudità della dea. Nella leggera inclinazione laterale della testa di Afrodite, che avvicina le ginocchia e copre le proprie parti intime con la mano destra, pare cogliersi l’atteggiamento di stupore di chi è stato sorpreso dall’inaspettato apparire di un estraneo o dall’improvviso sopraggiungere dell’atteso amato. È questo un evidente espediente dell’artista per avvicinare le reazioni della divinità a quelle naturali di un essere umano. In tal modo, inoltre, lo spettatore, che si immedesima in colui che è causa dell’espressione e dei gesti della dea, è coinvolto nell’azione. La stessa composizione sinuosa dell’Afrodite, con le membra che si articolano attorno a un asse obliquo e non più verticale, come, invece, abbiamo veduto sempre verifi carsi nelle sculture di Policleto ❯ par. 5.4 , ritornerà anche nell’Apollo sauroctònos e nell’Hèrmes con Diòniso bambino.
Apollo sauroctonos Risalente al 360 a.C., la statua dell’Apollo sauroctonos ritrae Apollo nell’atto di uccidere una lucertola (dal greco sàuros, lucertola, e ktèinein, uccidere) Fig. 6.3 . Il dio, ancora fanciullo e dalle membra molli, acerbe, quasi femminee, si appoggia con morbido abbandono a un tronco d’albero (necessario per reggere la statua). La sua testa è ruotata verso sinistra e appena reclinata in avanti Fig. 6.4 . Il piede sinistro, accostato al tallone destro, fa sì che la gamba sinistra sia completamente rilassata e quasi disarticolata, accrescendo il senso di cedevolezza del tenero corpo flessuoso. Il giovane dio, dallo sguardo un po’ distratto, è colto nell’attimo in cui sta per trafiggere con uno stilo (che occorre immaginare tenuto nella mano destra) una lucertola arrampicatasi sul tronco. È, quindi, un dio che sta giocando (per quanto crudele possa essere il suo gioco): un’attività che nessuno scultore delle età precedenti avrebbe mai pensato di attribuire a un essere divino.
Hermes con Dioniso bambino La realizzazione dell’Afrodite Cnidia metteva in conto il coinvolgimento diretto dello spettatore, trasformandolo nel motore stesso dell’azione. Al contrario, il gioco dell’adolescente Apollo era considerato un evento chiuso in se stesso, tanto il dio era preso dal gioco da non curarsi d’altro, potendo essere, perciò, solo guardato, rubandogli un istante di intimità. Nell’Hermes con Dioniso bambino Fig. 6.5 , infi ne, Prassitele inventa una nuova condizione per l’osservatore. Egli, infatti, raffi gura un momento del mito della nascita di Dioniso, il signore dell’ebbrezza e dell’estasi, e a chi guarda è dato di contemplare la nuova relazione, fatta di spazi, di gesti e di sguardi, che si stabilisce tra i due soggetti divini. Per vendicarsi del tradimento di Zeus che aveva
procreato Dioniso con la mortale Sèmele, la gelosa Hera fa in modo che la madre del bambino muoia
e perseguita tutti coloro che proteggono il piccolo dio. Zeus, allora, impietosito, chiede a Hermes di condurre l’indifeso Dioniso nella selvosa valle di Nisa affi nché siano le ninfe ad allevarlo.
Prassitele mostra Hermes mentre, in una sosta durante il viaggio, si riposa e fa giocare il bambino, forse con un grappolo d’uva che tiene lontano (purtroppo mancante, assieme al braccio destro tenuto sollevato) Fig. 6.6 . In sintonia con il clima del tempo, le due divinità sono rappresentate in un atteggiamento molto dolce e confi denziale: mentre Hermes guarda sorridente il fratellino, questi inclina la testa tendendo la piccola mano sinistra verso l’uva. La scelta stessa di raffi gurare Hermes (dio della giovinezza, protettore dei mercanti e ispiratore dei sogni degli uomini) e Dioniso (dio del vino, dello stordimento e dell’euforia da esso prodotti, ai quali alluderebbe appunto il grappolo d’uva mancante) è indicativa della precisa volontà di avvicinare il più possibile gli dei alla realtà e alle passioni più semplici, più comuni, non eccezionali e meno impegnative. Anche in questo gruppo scultoreo, databile tra il 340 e il 330 a.C., la dolcezza e la grazia dipendono dalla sinuosità del corpo di Hermes che poggia sul vicino tronco d’albero. L’accurata levigatezza del marmo (che lascia
pensare di essere in presenza di un originale, in quanto la statua venne scoperta durante gli scavi presso le rovine dell’Heraion di Olimpia, nel 1877, lì dove, per l’appunto, l’aveva vista Pausània – Guida della Grecia, V, 17, 3 – nel II secolo d.C.), e la morbida trattazione dei particolari anatomici Fig. 6.7 consentono di parlare di «eff etto pittorico» e di «sfumato» in relazione a quest’opera di Prassitele perché, al pari di un dipinto, essa prende vita proprio dai passaggi delicati dal chiaro allo scuro e dagli addensamenti d’ombra o di luce. Notevole è, inoltre, il contrasto tra il forte chiaroscuro del drappo dalle pieghe realistiche e l’ampio corpo morbido del dio.
Skopas di Paro (417?-340 a.C.)
Nativo di Paro, una delle isole Cicladi, Skòpas, che si dedicò più al marmo che al bronzo, porta alle estreme conseguenze la ricerca formale di Prassitele, approfondendo l’espressività. La cronologia delle opere di Skopas ❯ Ant. 31 ha un punto fermo: la partecipazione dell’artista nel 350 a.C. al ciclo scultoreo del Mausoleo di Alicarnasso, dove scolpì un’Amazzonomachia sul lato orientale ❯ Itin., p. 171 . Una certa composizione squadrata della testa, gli
occhi rivolti verso l’alto e la bocca dischiusa sono tra le caratteristiche dello stile dello scultore di Paro.
Lisippo, nato a Sicióne, località del Peloponneso nei pressi di Corinto, attorno al 390 a.C., fu attivo fra il 365 e il 305 a.C. Egli arrivò alla corte macedone quando Alessandro aveva circa 16 anni e ne divenne in seguito lo scultore preferito. Plinio tramanda che Lisippo, interrogato su quale artista prendesse a modello, rispondesse, indicando la folla che lo circondava, che non un artista bisognasse imitare, ma la natura ❯ Ant. 33 . Questo vuol dire che più che un modello ideale – come era codifi cato nel canone policleteo – l’oggetto della rappresentazione dovesse essere solo ciò che si vede. Ma sappiamo che gli uomini non sono tutti ugualmente proporzionati né, tantomeno, tutti atletici o belli. È chiaro, allora, che per Lisippo chiunque, anche un essere non bello, vecchio o deforme, poteva costituire un modello degno da rappresentare. Questo è un fatto totalmente nuovo e, anzi, rivoluzionario, un radicale cambiamento nel modo di concepire la fi gura umana. La realtà viene accettata per la prima volta quale essa è, in tutte le sue infi nite manifestazioni. Il ritratto, inteso come raffi gurazione realistica di un soggetto, è conseguenza diretta di tale atteggiamento e numerosi furono proprio i ritratti eseguiti da Lisippo per Alessandro Magno e la sua corte Fig. 6.14 . Plinio scrive che Lisippo contribuì al progredire della statuaria. Infatti, facendo alle sue statue la testa più piccola e il corpo più snello e asciutto rispetto agli artisti precedenti, esse sembravano più alte. Lisippo amava dire che i suoi predecessori avevano rappresentato gli uomini come sono; egli, invece, li rappresentava quali essi appaiono. C’è dunque nell’artista sia la volontà di rendere un soggetto non nella sua realtà oggettiva, ma quale appare alla vista, sia quella di introdurre un motivo di soggettività, cioè la personale percezione di quanto viene veduto e raffi gurato. Lisippo, pertanto, è il creatore di un nuovo canone compositivo che si sostituisce a quello di Policleto. Considerando l’insieme delle sue opere è possibile indicare i caratteri del suo stile nella predilezione per: le gambe lunghe e sottili Fig. 6.15, a , i fi anchi stretti b , il busto allungato c , la testa piccola d , i capelli mossi e , gli occhi piccoli, infossati e accostati f , il naso sottile e dalle narici strette g , la bocca piccola e dalle labbra lievemente dischiuse h .
Alessandro Magno e l’Ellenismo
Con le sue conquiste in Oriente e nell’Africa settentrionale, Alessandro Figg. 6.19 e 6.20 aveva creato un grande impero che si frantumò alla sua morte, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C. Ancora incerto è il luogo della sua sepoltura, nonostante la testimonianza delle fonti antiche. Nuove speranze ha recentemente suscitato la scoperta ad Anfìpoli (Macedonia) di una grande tomba a tumulo, cioè ricoperta da un tumulo (o cùmulo) di terra, che ha già rivelato l’esistenza di più camere, e svelato mosaici, sfi ngi e cariatidi Fig. 6.21 . Dopo la scomparsa di Alessandro l’impero si divise in numerosi regni cosiddetti «ellenistici», retti dai suoi generali (i diàdochi). Questi, a loro volta, furono gli iniziatori di nuove dinastie. Per Ellenismo si intende, dunque, l’ellenizzazione dei territori conquistati: il vincitore greco porta al vinto la sua cultura (in particolare l’arte e la lingua), ma dal vinto eredita altri valori. L’integrazione di diverse culture, pertanto, dà vita anche a un gusto e a un nuovo linguaggio artistico comuni, in greco koinè. Mentre al tempo della libertà delle poleis ogni
monumento (che fosse pittura, scultura o architettura) aveva la funzione di celebrare e glorifi care l’intera città, cioè l’insieme di tutti i cittadini che in esso si riconoscevano, in età ellenistica i committenti delle grandi opere sono i regnanti, i potenti o i ricchi. Carattere distintivo dell’arte ellenistica è perciò la celebrazione del singolo. Allo stesso modo, agli antichi ideali della polis si sostituiscono quelli delle più vaste e nuove entità statali. Con l’ampliamento dei confi ni del mondo ellenico, gli artisti viaggiano sempre più: il cosmopolitismo, cioè la formazione culturale internazionale, ne è una conseguenza.
Esperienze della scultura ellenistica Tra diffusione, citazione e sperimentazione
La scultura ellenistica si presenta con la caratterizzazione fi sionomica secondo un canone non più solo stilistico e proporzionale, proprio degli artisti del V secolo. Dopo le aperture di Lisippo, infatti, l’uomo viene considerato per quello che è, un individuo con una propria fi sionomia, e non soltanto una tipologia che risponde a una generalizzazione somatica. Il nuovo canone, che rispetta le attitudini proprie di ciascuno, sia nel modellato sia nelle dimensioni, è quello della “verità” (alètheia). L’artista non cerca più di rappresentare solo l’èthos dell’uomo (cioè la nobiltà d’animo) attraverso gli schèmata (l’espressione del viso e l’attitudine dei corpi, cioè il modo in cui le membra rispondono al modo in cui una statua è atteggiata), ma fa un passo oltre: vuole raffi gurare anche l’anima, i sentimenti, le passioni: il pathos. Molti furono i modi attraverso i quali gli scultori tra III e I secolo a.C. cercarono di esprimere le nuove tendenze artistiche in un mondo ormai ellenizzato e dai confi ni mai prima immaginati. Un mondo nel quale le ricerche dei maggiori artefi ci dell’arte greca, a partire da quelli d’età classica (Policleto e Fidia, in primo luogo) per fi nire con le esperienze di Prassitele, Skopas e Lisippo, continuavano a essere attuali. A fi anco delle fi orenti botteghe di artisti emergenti e innovativi, del resto, ve ne erano tantissime altre specializzate esclusivamente nelle riproduzioni di opere dei grandi mae stri, al fi ne di accontentare una clientela di collezionisti sempre più esigenti, sparsa in un vastissimo territorio e tendente a crescere ulteriormente dopo la conquista della Grecia da parte di Roma. È grazie a tale quasi frenetica attività di copia, attuata anche traducendo la scultura in bronzo nel meno costoso e meglio lavorabile marmo, che si deve oggi la possibilità stessa di conoscere alcuni dei grandi capolavori dell’antichità, i cui originali sono andati perduti. All’Afrodite Cnidia di Prassitele e all’avvitamento tipico di Lisippo si devono i risultati dell’Afrodite accovacciata di Doidalsas, mentre l’anonimo ma raffi natissimo maestro della Nike di Samotracia guarda con ogni evidenza agli eff etti dei complessi panneggi di derivazione fi diaca.
Nike di Samotracia
Scoperta nel 1863 su un promontorio dell’isola di Samotracia e condotta in Francia, la Nike Fig. 6.37 fu sistemata al Louvre nel 1867. Nel 1884 venne completata con il basamento rostrato (conformato, cioè, a prua di nave), frutto di una successiva campagna di scavo. Restaurata più volte, a partire dal 1880/1883 Fig. 6.38 e fi no al 2013-2014, la statua, già attribuita a Pitòcrito di Rodi, e di recente (2014) a un artista che successivamente avrebbe collaborato alla realizzazione del grande fregio dell’Altare di Pergamo ❯ par. 6.3.3 , proviene dall’isola di Rodi e venne realizzata verosimilmente per celebrare le vittorie della fl otta dei Rodii, alleati di Roma e di Pergamo, contro Antioco III re di Siria. La Nike, che si specchiava nell’acqua di un ninfeo in prossimità del santuario dei Cabìri, è protesa verso il cielo, mentre atterra sulla prua di una nave Fig. 6.39 , e si mostra ad ali spiegate Figg. 6.40 e 6.41 in un dinamismo e in una vitalità prorompenti. Il vento modella il suocorpo, contro cui si incolla la veste leggera che quasi si dissolve, mettendo quindi in evidenza i seni turgidi, le curve morbide del ventre e il leggero infossamento dell’ombelico. Allo stesso tempo il vento torce l’abito che si avviluppa nello spazio fra le due gambe tenute scostate (la destra è più avanzata della sinistra) sottolineandone la tensione e procurando anche il necessario contrasto chiaroscurale a quelle parti del corpo che risultano, invece, appena velate e in piena luce.
La tensione spaziale, che scaturisce dalle conquiste di Lisippo e che colloca la Nike fra le più affascinanti creazioni ellenistiche, si arricchisce della trattazione del panneggio di evidente ispirazione fidiaca, che la pone in relazione anche con gli altorilievi di Pergamo ❯ oltre .
La posizione della statua, con il sicuro appoggio sulla prua di una nave, segna, a propria volta, il punto d’arrivo di una ricerca inerente alle Nikai, che aveva già visto un punto fermo nella Nike dei Messeni e dei Naupatti Fig. 6.42 , realizzata da Paiònios di Mende (attivo nella seconda metà del V secolo a.C.) attorno al 420 a.C. per celebrare la vittoria di Sfactèria sugli Spartani del 425 a.C.
Laocoonte Dall’ambiente ròdio (relativo, cioè, all’isola di Rodi) proviene, invece, il gruppo del Laocoónte Fig. 6.60 , rinvenuto a Roma nei pressi della Domus Aurea ❯ par. 8.3.5 nel 1506. L’opera illustra uno dei capitoli di maggior partecipazione emotiva della mitica guerra di Troia, così come era narrata nel poema ciclico dell’Ilioupèrsis (e come sarebbe stata poi cantata nell’Enèide da Virgilio). Laocoonte, sacerdote troiano di Apollo, aveva cercato invano di impedire che il cavallo di legno, costruito dagli Achei e abbandonato di fronte alle mura della città, fosse introdotto a Troia. Athena, desiderosa di portare a termine la distruzione della città odiata, per punire Laocoonte fece uscire dai fl utti del mare due serpenti che stritolarono i due fi gli del sacerdote e il padre stesso, accorso in loro aiuto. Il confronto del possente nudo del sacerdote troiano con lo Zeus della Gigantomachia del grande altare di Pergamo ❯ Fig. 6.48 consente di stabilire evidenti collegamenti di natura compositiva e stilistica tra la scultura rodia e quella della città capitale degli Attalidi. L’opera è, dunque, una testimonianza del clima cosmopolìta degli artefi ci ellenistici e della facilità con cui la cultura artistica si trasmetteva da un centro all’altro.
Laocoonte è colto nel momento di maggior tensione muscolare, con il volto soff erente e angosciato, mentre cerca di liberare se stesso e i propri fi gli dai «grovigli meravigliosi dei serpenti». L’espressione usata da Plinio il Vecchio non è dettata da semplice ammirazione per l’invenzione e la maestria dell’artefi ce. Essa, infatti, individua con chiarezza negli avvolgimenti delle spire dei rettili che allacciano i tre corpi in una stessa, tragica morte, l’elemento formale che non solo lega, ma unifi ca il gruppo delle tre statue Fig. 6.61 . Tale funzione è particolarmente signifi cativa e necessaria in quanto ciascuno dei personaggi componenti il gruppo scultoreo è dovuto ad artisti diversi, dotati di differente sensibilità e padronanza tecnica, ma operanti nella stessa bottega: Agèsandros, Athenòdoros e Poly`doros ❯ Ant. 35 .
GRAZIE!!!!
La Guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), la rivalità tra Sparta e Atene ancora negli anni successivi (fra il 390 e il 371 a.C.), la guerra tra Sparta e Tebe (371 a.C.) e l’inizio dell’egemonia di quest’ultima città sulla Grecia continentale, che durò circa un decennio, almeno fi nché visse il condottiero Epaminónda (che morì nel 362 a.C.), crearono un clima di grande instabilità e incertezza. Il terrifi cante fl agello della peste, che colpì Atene nel 430 a.C., si aggiunse ad avvilire gli animi. Come scrisse in pagine famose Tucidide, nella Guerra del Peloponneso, quel male così misterioso e crudele portò gli uomini dapprima a rivolgersi alle divinità e ad aff ollare i luoghi sacri per avere conforto. Successivamente, con il diff ondersi della malattia, assistendo alla morte di amici e parenti, ritenendo che gli dei fossero insensibili al loro dolore e non trovando in essi consolazione, molti provarono un forte senso di sfi ducia e di abbandono e si lasciarono vincere dal morbo. Mentre gli antichi ideali ellenici cominciavano a
morire, l’appello alla divinità restava senza risposta e iniziava a diff ondersi la sfi ducia nelle leggi divine e in quelle degli uomini, l’artista, allo stesso modo di tutti gli altri esseri umani, non poteva che contare sulle proprie forze. Non gli rimaneva altro, infatti, che contemplare malinconicamente la propria vita rivolgendo i pensieri non più ai grandi problemi e ai grandi ideali, ma alle piccole cose quotidiane e ripiegarsi verso la propria interiorità, alla ricerca della felicità personale. In tali circostanze gli dei che l’uomo sente vicini non sono più le grandi divinità olimpiche, ma quelli che meglio interpretano i suoi sentimenti più intimi e nascosti: la sfera individuale e familiare, dunque, si pone ora al centro del rapporto con il divino.
Prassitele ateniese (400/395-326 a.C.)
Scultore ateniese, Prassìtele è colui che più d’ogni altro artista incarna i modi di sentire del tempo. Benché lavorasse anche il bronzo, a questo materiale preferiva il marmo che, alla fi ne, il pittore Nicia (fi orito tra il 365 e il 315 a.C.) trattava per lui con cere colorate. Tanta era la forza dei sentimenti espressi dalle sue sculture che Diodòro Sìculo scrisse di lui che «mescolò in modo eccellente i sentimenti dell’animo alla natura marmorea dei suoi lavori».
Afrodite Cnidia L’attività più intensa di Prassitele si colloca attorno al 364/363 a.C., quando scolpisce l’Afrodìte Cnìdia Fig. 6.1 , così chiamata perché acquistata dagli abitanti di Cnido (città presso le coste dell’Asia Minore). Questi, affi nché tutti potessero godere della grande bellezza della statua, la collocarono in un tempietto il cui naos era dotato non di una, ma di due aperture lungo lo stesso asse, o forse in un tempietto monoptero ❯ Ant. 30 . Per la prima volta una dea viene rappresentata
nuda mentre, prima del bagno rituale (o subito dopo), appoggia un panno sopra un’anfora (o lo prende). Il corpo sinuoso, a «S» Fig. 6.2 , mostra tutti gli attributi della femminilità tanto che, racconta Plinio il Vecchio, un nobile giovane se ne innamorò perdutamente. L’articolarsi delle membra secondo una linea curva impone, ai fi ni statici, la presenza di un appoggio adeguato, in questo caso costituito dall’anfora con il soprastante panno drappeggiato. Tale elemento, peraltro, è parte attiva dell’intera composizione: le pieghe del drappo, in presenza della luce, generano infatti ombre che contrastano con la morbida, ondeggiante e liscia nudità della dea. Nella leggera inclinazione laterale della testa di Afrodite, che avvicina le ginocchia e copre le proprie parti intime con la mano destra, pare cogliersi l’atteggiamento di stupore di chi è stato sorpreso dall’inaspettato apparire di un estraneo o dall’improvviso sopraggiungere dell’atteso amato. È questo un evidente espediente dell’artista per avvicinare le reazioni della divinità a quelle naturali di un essere umano. In tal modo, inoltre, lo spettatore, che si immedesima in colui che è causa dell’espressione e dei gesti della dea, è coinvolto nell’azione. La stessa composizione sinuosa dell’Afrodite, con le membra che si articolano attorno a un asse obliquo e non più verticale, come, invece, abbiamo veduto sempre verifi carsi nelle sculture di Policleto ❯ par. 5.4 , ritornerà anche nell’Apollo sauroctònos e nell’Hèrmes con Diòniso bambino.
Apollo sauroctonos Risalente al 360 a.C., la statua dell’Apollo sauroctonos ritrae Apollo nell’atto di uccidere una lucertola (dal greco sàuros, lucertola, e ktèinein, uccidere) Fig. 6.3 . Il dio, ancora fanciullo e dalle membra molli, acerbe, quasi femminee, si appoggia con morbido abbandono a un tronco d’albero (necessario per reggere la statua). La sua testa è ruotata verso sinistra e appena reclinata in avanti Fig. 6.4 . Il piede sinistro, accostato al tallone destro, fa sì che la gamba sinistra sia completamente rilassata e quasi disarticolata, accrescendo il senso di cedevolezza del tenero corpo flessuoso. Il giovane dio, dallo sguardo un po’ distratto, è colto nell’attimo in cui sta per trafiggere con uno stilo (che occorre immaginare tenuto nella mano destra) una lucertola arrampicatasi sul tronco. È, quindi, un dio che sta giocando (per quanto crudele possa essere il suo gioco): un’attività che nessuno scultore delle età precedenti avrebbe mai pensato di attribuire a un essere divino.
Hermes con Dioniso bambino La realizzazione dell’Afrodite Cnidia metteva in conto il coinvolgimento diretto dello spettatore, trasformandolo nel motore stesso dell’azione. Al contrario, il gioco dell’adolescente Apollo era considerato un evento chiuso in se stesso, tanto il dio era preso dal gioco da non curarsi d’altro, potendo essere, perciò, solo guardato, rubandogli un istante di intimità. Nell’Hermes con Dioniso bambino Fig. 6.5 , infi ne, Prassitele inventa una nuova condizione per l’osservatore. Egli, infatti, raffi gura un momento del mito della nascita di Dioniso, il signore dell’ebbrezza e dell’estasi, e a chi guarda è dato di contemplare la nuova relazione, fatta di spazi, di gesti e di sguardi, che si stabilisce tra i due soggetti divini. Per vendicarsi del tradimento di Zeus che aveva
procreato Dioniso con la mortale Sèmele, la gelosa Hera fa in modo che la madre del bambino muoia
e perseguita tutti coloro che proteggono il piccolo dio. Zeus, allora, impietosito, chiede a Hermes di condurre l’indifeso Dioniso nella selvosa valle di Nisa affi nché siano le ninfe ad allevarlo.
Prassitele mostra Hermes mentre, in una sosta durante il viaggio, si riposa e fa giocare il bambino, forse con un grappolo d’uva che tiene lontano (purtroppo mancante, assieme al braccio destro tenuto sollevato) Fig. 6.6 . In sintonia con il clima del tempo, le due divinità sono rappresentate in un atteggiamento molto dolce e confi denziale: mentre Hermes guarda sorridente il fratellino, questi inclina la testa tendendo la piccola mano sinistra verso l’uva. La scelta stessa di raffi gurare Hermes (dio della giovinezza, protettore dei mercanti e ispiratore dei sogni degli uomini) e Dioniso (dio del vino, dello stordimento e dell’euforia da esso prodotti, ai quali alluderebbe appunto il grappolo d’uva mancante) è indicativa della precisa volontà di avvicinare il più possibile gli dei alla realtà e alle passioni più semplici, più comuni, non eccezionali e meno impegnative. Anche in questo gruppo scultoreo, databile tra il 340 e il 330 a.C., la dolcezza e la grazia dipendono dalla sinuosità del corpo di Hermes che poggia sul vicino tronco d’albero. L’accurata levigatezza del marmo (che lascia
pensare di essere in presenza di un originale, in quanto la statua venne scoperta durante gli scavi presso le rovine dell’Heraion di Olimpia, nel 1877, lì dove, per l’appunto, l’aveva vista Pausània – Guida della Grecia, V, 17, 3 – nel II secolo d.C.), e la morbida trattazione dei particolari anatomici Fig. 6.7 consentono di parlare di «eff etto pittorico» e di «sfumato» in relazione a quest’opera di Prassitele perché, al pari di un dipinto, essa prende vita proprio dai passaggi delicati dal chiaro allo scuro e dagli addensamenti d’ombra o di luce. Notevole è, inoltre, il contrasto tra il forte chiaroscuro del drappo dalle pieghe realistiche e l’ampio corpo morbido del dio.
Skopas di Paro (417?-340 a.C.)
Nativo di Paro, una delle isole Cicladi, Skòpas, che si dedicò più al marmo che al bronzo, porta alle estreme conseguenze la ricerca formale di Prassitele, approfondendo l’espressività. La cronologia delle opere di Skopas ❯ Ant. 31 ha un punto fermo: la partecipazione dell’artista nel 350 a.C. al ciclo scultoreo del Mausoleo di Alicarnasso, dove scolpì un’Amazzonomachia sul lato orientale ❯ Itin., p. 171 . Una certa composizione squadrata della testa, gli
occhi rivolti verso l’alto e la bocca dischiusa sono tra le caratteristiche dello stile dello scultore di Paro.
Lisippo, nato a Sicióne, località del Peloponneso nei pressi di Corinto, attorno al 390 a.C., fu attivo fra il 365 e il 305 a.C. Egli arrivò alla corte macedone quando Alessandro aveva circa 16 anni e ne divenne in seguito lo scultore preferito. Plinio tramanda che Lisippo, interrogato su quale artista prendesse a modello, rispondesse, indicando la folla che lo circondava, che non un artista bisognasse imitare, ma la natura ❯ Ant. 33 . Questo vuol dire che più che un modello ideale – come era codifi cato nel canone policleteo – l’oggetto della rappresentazione dovesse essere solo ciò che si vede. Ma sappiamo che gli uomini non sono tutti ugualmente proporzionati né, tantomeno, tutti atletici o belli. È chiaro, allora, che per Lisippo chiunque, anche un essere non bello, vecchio o deforme, poteva costituire un modello degno da rappresentare. Questo è un fatto totalmente nuovo e, anzi, rivoluzionario, un radicale cambiamento nel modo di concepire la fi gura umana. La realtà viene accettata per la prima volta quale essa è, in tutte le sue infi nite manifestazioni. Il ritratto, inteso come raffi gurazione realistica di un soggetto, è conseguenza diretta di tale atteggiamento e numerosi furono proprio i ritratti eseguiti da Lisippo per Alessandro Magno e la sua corte Fig. 6.14 . Plinio scrive che Lisippo contribuì al progredire della statuaria. Infatti, facendo alle sue statue la testa più piccola e il corpo più snello e asciutto rispetto agli artisti precedenti, esse sembravano più alte. Lisippo amava dire che i suoi predecessori avevano rappresentato gli uomini come sono; egli, invece, li rappresentava quali essi appaiono. C’è dunque nell’artista sia la volontà di rendere un soggetto non nella sua realtà oggettiva, ma quale appare alla vista, sia quella di introdurre un motivo di soggettività, cioè la personale percezione di quanto viene veduto e raffi gurato. Lisippo, pertanto, è il creatore di un nuovo canone compositivo che si sostituisce a quello di Policleto. Considerando l’insieme delle sue opere è possibile indicare i caratteri del suo stile nella predilezione per: le gambe lunghe e sottili Fig. 6.15, a , i fi anchi stretti b , il busto allungato c , la testa piccola d , i capelli mossi e , gli occhi piccoli, infossati e accostati f , il naso sottile e dalle narici strette g , la bocca piccola e dalle labbra lievemente dischiuse h .
Alessandro Magno e l’Ellenismo
Con le sue conquiste in Oriente e nell’Africa settentrionale, Alessandro Figg. 6.19 e 6.20 aveva creato un grande impero che si frantumò alla sua morte, avvenuta a Babilonia nel 323 a.C. Ancora incerto è il luogo della sua sepoltura, nonostante la testimonianza delle fonti antiche. Nuove speranze ha recentemente suscitato la scoperta ad Anfìpoli (Macedonia) di una grande tomba a tumulo, cioè ricoperta da un tumulo (o cùmulo) di terra, che ha già rivelato l’esistenza di più camere, e svelato mosaici, sfi ngi e cariatidi Fig. 6.21 . Dopo la scomparsa di Alessandro l’impero si divise in numerosi regni cosiddetti «ellenistici», retti dai suoi generali (i diàdochi). Questi, a loro volta, furono gli iniziatori di nuove dinastie. Per Ellenismo si intende, dunque, l’ellenizzazione dei territori conquistati: il vincitore greco porta al vinto la sua cultura (in particolare l’arte e la lingua), ma dal vinto eredita altri valori. L’integrazione di diverse culture, pertanto, dà vita anche a un gusto e a un nuovo linguaggio artistico comuni, in greco koinè. Mentre al tempo della libertà delle poleis ogni
monumento (che fosse pittura, scultura o architettura) aveva la funzione di celebrare e glorifi care l’intera città, cioè l’insieme di tutti i cittadini che in esso si riconoscevano, in età ellenistica i committenti delle grandi opere sono i regnanti, i potenti o i ricchi. Carattere distintivo dell’arte ellenistica è perciò la celebrazione del singolo. Allo stesso modo, agli antichi ideali della polis si sostituiscono quelli delle più vaste e nuove entità statali. Con l’ampliamento dei confi ni del mondo ellenico, gli artisti viaggiano sempre più: il cosmopolitismo, cioè la formazione culturale internazionale, ne è una conseguenza.
Esperienze della scultura ellenistica Tra diffusione, citazione e sperimentazione
La scultura ellenistica si presenta con la caratterizzazione fi sionomica secondo un canone non più solo stilistico e proporzionale, proprio degli artisti del V secolo. Dopo le aperture di Lisippo, infatti, l’uomo viene considerato per quello che è, un individuo con una propria fi sionomia, e non soltanto una tipologia che risponde a una generalizzazione somatica. Il nuovo canone, che rispetta le attitudini proprie di ciascuno, sia nel modellato sia nelle dimensioni, è quello della “verità” (alètheia). L’artista non cerca più di rappresentare solo l’èthos dell’uomo (cioè la nobiltà d’animo) attraverso gli schèmata (l’espressione del viso e l’attitudine dei corpi, cioè il modo in cui le membra rispondono al modo in cui una statua è atteggiata), ma fa un passo oltre: vuole raffi gurare anche l’anima, i sentimenti, le passioni: il pathos. Molti furono i modi attraverso i quali gli scultori tra III e I secolo a.C. cercarono di esprimere le nuove tendenze artistiche in un mondo ormai ellenizzato e dai confi ni mai prima immaginati. Un mondo nel quale le ricerche dei maggiori artefi ci dell’arte greca, a partire da quelli d’età classica (Policleto e Fidia, in primo luogo) per fi nire con le esperienze di Prassitele, Skopas e Lisippo, continuavano a essere attuali. A fi anco delle fi orenti botteghe di artisti emergenti e innovativi, del resto, ve ne erano tantissime altre specializzate esclusivamente nelle riproduzioni di opere dei grandi mae stri, al fi ne di accontentare una clientela di collezionisti sempre più esigenti, sparsa in un vastissimo territorio e tendente a crescere ulteriormente dopo la conquista della Grecia da parte di Roma. È grazie a tale quasi frenetica attività di copia, attuata anche traducendo la scultura in bronzo nel meno costoso e meglio lavorabile marmo, che si deve oggi la possibilità stessa di conoscere alcuni dei grandi capolavori dell’antichità, i cui originali sono andati perduti. All’Afrodite Cnidia di Prassitele e all’avvitamento tipico di Lisippo si devono i risultati dell’Afrodite accovacciata di Doidalsas, mentre l’anonimo ma raffi natissimo maestro della Nike di Samotracia guarda con ogni evidenza agli eff etti dei complessi panneggi di derivazione fi diaca.
Nike di Samotracia
Scoperta nel 1863 su un promontorio dell’isola di Samotracia e condotta in Francia, la Nike Fig. 6.37 fu sistemata al Louvre nel 1867. Nel 1884 venne completata con il basamento rostrato (conformato, cioè, a prua di nave), frutto di una successiva campagna di scavo. Restaurata più volte, a partire dal 1880/1883 Fig. 6.38 e fi no al 2013-2014, la statua, già attribuita a Pitòcrito di Rodi, e di recente (2014) a un artista che successivamente avrebbe collaborato alla realizzazione del grande fregio dell’Altare di Pergamo ❯ par. 6.3.3 , proviene dall’isola di Rodi e venne realizzata verosimilmente per celebrare le vittorie della fl otta dei Rodii, alleati di Roma e di Pergamo, contro Antioco III re di Siria. La Nike, che si specchiava nell’acqua di un ninfeo in prossimità del santuario dei Cabìri, è protesa verso il cielo, mentre atterra sulla prua di una nave Fig. 6.39 , e si mostra ad ali spiegate Figg. 6.40 e 6.41 in un dinamismo e in una vitalità prorompenti. Il vento modella il suocorpo, contro cui si incolla la veste leggera che quasi si dissolve, mettendo quindi in evidenza i seni turgidi, le curve morbide del ventre e il leggero infossamento dell’ombelico. Allo stesso tempo il vento torce l’abito che si avviluppa nello spazio fra le due gambe tenute scostate (la destra è più avanzata della sinistra) sottolineandone la tensione e procurando anche il necessario contrasto chiaroscurale a quelle parti del corpo che risultano, invece, appena velate e in piena luce.
La tensione spaziale, che scaturisce dalle conquiste di Lisippo e che colloca la Nike fra le più affascinanti creazioni ellenistiche, si arricchisce della trattazione del panneggio di evidente ispirazione fidiaca, che la pone in relazione anche con gli altorilievi di Pergamo ❯ oltre .
La posizione della statua, con il sicuro appoggio sulla prua di una nave, segna, a propria volta, il punto d’arrivo di una ricerca inerente alle Nikai, che aveva già visto un punto fermo nella Nike dei Messeni e dei Naupatti Fig. 6.42 , realizzata da Paiònios di Mende (attivo nella seconda metà del V secolo a.C.) attorno al 420 a.C. per celebrare la vittoria di Sfactèria sugli Spartani del 425 a.C.
Laocoonte Dall’ambiente ròdio (relativo, cioè, all’isola di Rodi) proviene, invece, il gruppo del Laocoónte Fig. 6.60 , rinvenuto a Roma nei pressi della Domus Aurea ❯ par. 8.3.5 nel 1506. L’opera illustra uno dei capitoli di maggior partecipazione emotiva della mitica guerra di Troia, così come era narrata nel poema ciclico dell’Ilioupèrsis (e come sarebbe stata poi cantata nell’Enèide da Virgilio). Laocoonte, sacerdote troiano di Apollo, aveva cercato invano di impedire che il cavallo di legno, costruito dagli Achei e abbandonato di fronte alle mura della città, fosse introdotto a Troia. Athena, desiderosa di portare a termine la distruzione della città odiata, per punire Laocoonte fece uscire dai fl utti del mare due serpenti che stritolarono i due fi gli del sacerdote e il padre stesso, accorso in loro aiuto. Il confronto del possente nudo del sacerdote troiano con lo Zeus della Gigantomachia del grande altare di Pergamo ❯ Fig. 6.48 consente di stabilire evidenti collegamenti di natura compositiva e stilistica tra la scultura rodia e quella della città capitale degli Attalidi. L’opera è, dunque, una testimonianza del clima cosmopolìta degli artefi ci ellenistici e della facilità con cui la cultura artistica si trasmetteva da un centro all’altro.
Laocoonte è colto nel momento di maggior tensione muscolare, con il volto soff erente e angosciato, mentre cerca di liberare se stesso e i propri fi gli dai «grovigli meravigliosi dei serpenti». L’espressione usata da Plinio il Vecchio non è dettata da semplice ammirazione per l’invenzione e la maestria dell’artefi ce. Essa, infatti, individua con chiarezza negli avvolgimenti delle spire dei rettili che allacciano i tre corpi in una stessa, tragica morte, l’elemento formale che non solo lega, ma unifi ca il gruppo delle tre statue Fig. 6.61 . Tale funzione è particolarmente signifi cativa e necessaria in quanto ciascuno dei personaggi componenti il gruppo scultoreo è dovuto ad artisti diversi, dotati di differente sensibilità e padronanza tecnica, ma operanti nella stessa bottega: Agèsandros, Athenòdoros e Poly`doros ❯ Ant. 35 .
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