Saggio breve Giolitti (prima prova 2000)
Mi servirebbe lo svolgimento del saggio breve su Giolitti (Prima prova di maturità 2000)..potete aiutarmi?
Miglior risposta
Giovanni Giolitti nacque a Mondovì, nel 1842. Nel 1892, anno del suo primo governo, aveva solo 50 anni e non era certo il solito “reduce mazziniano” che gli Italiani si erano ormai abituati a vedere al governo; era un “uomo nuovo” per uno stato vecchio che chiedeva a gran voce un rinnovamento.
Giolitti era di animo popolare, libero da pregiudizi e sensibile alle necessità delle fasce basse della società.
Prima di divenire Primo Ministro, fu un abile Commissario di Stato, di grandi doti amministrative e scarse capacità retoriche; fu poi Ministro delle Finanze nel governo Crispi.
Il suo primo governo fu quello del 1892, dopo quello di Crispi e la parentesi di Rudinì, ma fu un governo effimero, che lo vide costretto a rassegnare le dimissioni a causa dello scandalo della Banca d’Italia, del quale fu ingiustamente assunto a “capro espiatorio”.
Il suo reale avvento al potere avvenne dopo la definitiva caduta di Crispi e del governo autoritario di Pelloux. Giolitti apparteneva alla sinistra costituzionale ed era decisamente liberale.
Durante i suoi governi, Giolitti dovette sempre confrontarsi con le maggiori forze politiche dell’epoca.
Cercò da subito di inserire nel sistema politico ogni fascia di popolazione e specialmente i partiti di massa che fino ad allora erano considerati anti-sistema: socialisti, cattolici, nazionalisti e, in seguito, fascisti.
Bisognava immediatamente risolvere il rapporto coi socialisti, partito che copriva ormai con le sue sezioni ogni regione d’Italia e che aveva raggiunto un notevole grado di omogeneità ideologica e maturità politica dalle quali non si poteva più prescindere. I socialisti erano inoltre affiancati da un robusto movimento giovanile e da propri organi di stampa.
Definì quindi la politica del “non-intervento”, anticipazione del “diritto di sciopero”, che rappresentò un allentamento degli attriti tra Stato e sindacati, nel panorama dell’industrializzazione italiana.
Propose poi a Turati di entrare a far parte del suo governo; egli rifiutò, ma tra i due si stabilì un rapporto di collaborazione, nonostante i diversi schieramenti politici; ne scaturirono il diritto di sciopero e la neutralità dello Stato nel rapporto contrattuale tra lavoratori e datori di lavoro, i salari furono garantiti e difesi dalla legge; fu alzata a 12 anni l’età minima per l’istruzione obbligatoria e nacquero l’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA), la CGIL e le Leghe Cattoliche (i primi sindacati).
Giolitti ebbe molto a cuore i rapporti tra Stato e i sindacati, le “Camere di lavoro”: in un suo memorabile discorso al Parlamento afferma come lo Stato, osteggiando queste ultime, commetta un triplice errore: “Un’ingiustizia, poiché manca di imparzialità schierandosi con una fascia di cittadini; un errore economico, perché altera la legge economica della domanda e dell’offerta (lo Stato voleva contenere i salari); e un errore politico, perché rende ostili le classi che sono la maggioranza della popolazione”.
Risolto una prima questione, Giolitti avviò il dialogo con i cattolici, che subivano ancora i postumi del “Non Expedit” di Pio XI: arrivò ad un “patto” con Gentiloni, loro rappresentante, che gli garantì il loro appoggio.
Più difficoltoso fu ingraziarsi i nazionalisti: volevano a tutti i costi l’affermazione del prestigio dell’Italia in Europa, e vedevano come unico mezzo la guerra. Nel 1912 Giolitti “deve” dichiarare guerra alla Libia e farne colonia italiana, con grosse spese e difficoltà. L’impresa libica però servì a Giolitti per capire in quali condizioni versava l’esercito regio: tale esperienza lo farà propendere per il neutralismo due anni dopo, allo scoppio della Grande Guerra.
In ogni caso, a questo punto Giolitti godeva dell’appoggio della maggioranza del Parlamento e di tutti i ceti della popolazione, e poté riformare il sistema elettorale, istituendo il suffragio universale maschile.
Egli riteneva opportuno allargare il diritto di voto per consentire a più persone di sentirsi parte attiva nella partecipazione alla vita politica nazionale.
Non riuscì però a conciliare i fascisti, coi quali dovette fare i conti nel suo quinto governo; nonostante ciò, dopo l’assassinio di Matteotti del 1924 fu uno dei pochi politici a rimanere in Parlamento a contrastare Mussolini. Morì quattro anni dopo, a Cavour.
Giolitti riuscì a rimanere così tanti anni al governo proprio conciliando gli interessi delle diverse forze politiche: il più delle volte lo fece con mezzi ortodossi; ma Giolitti presenta anche un lato dalle tinte fosche: Salvemini, storico meridionale, arrivò a definirlo “ministro della malavita”. Questo perché era solito accattivarsi i deputati del Mezzogiorno mettendo a loro servizio la malavita, assicurando spregiudicatamente impunità, intervenendo con amnistie, consolidando l’uso di violenza e corruzione. Coloro per i quali le attenzioni individuali non sarebbero state “opportune”, continua Salvemini, “cercò di conquistarli con mosse politiche, come riforme che potessero piacere al loro schieramento”.
Proprio per questo molti vedono in lui l’incarnazione del “principe” di Machiavelli: colui che governa come ritiene opportuno utilizzando i mezzi che ritiene più opportuni.
In definitiva Giolitti fu un grande politico: lo stesso Salvemini dovette ritrattare le sue affermazioni, poiché anche lui si inchinò davanti alla genuinità del governo di Giolitti. I suoi metodi talvolta poco ortodossi non possono che essergli perdonati, visto quanto di buono fece per l’Italia, prendendola per mano, come un padre con la giovane figlia, durante il delicato passaggio tra Ottocento e Novecento.
Giolitti era di animo popolare, libero da pregiudizi e sensibile alle necessità delle fasce basse della società.
Prima di divenire Primo Ministro, fu un abile Commissario di Stato, di grandi doti amministrative e scarse capacità retoriche; fu poi Ministro delle Finanze nel governo Crispi.
Il suo primo governo fu quello del 1892, dopo quello di Crispi e la parentesi di Rudinì, ma fu un governo effimero, che lo vide costretto a rassegnare le dimissioni a causa dello scandalo della Banca d’Italia, del quale fu ingiustamente assunto a “capro espiatorio”.
Il suo reale avvento al potere avvenne dopo la definitiva caduta di Crispi e del governo autoritario di Pelloux. Giolitti apparteneva alla sinistra costituzionale ed era decisamente liberale.
Durante i suoi governi, Giolitti dovette sempre confrontarsi con le maggiori forze politiche dell’epoca.
Cercò da subito di inserire nel sistema politico ogni fascia di popolazione e specialmente i partiti di massa che fino ad allora erano considerati anti-sistema: socialisti, cattolici, nazionalisti e, in seguito, fascisti.
Bisognava immediatamente risolvere il rapporto coi socialisti, partito che copriva ormai con le sue sezioni ogni regione d’Italia e che aveva raggiunto un notevole grado di omogeneità ideologica e maturità politica dalle quali non si poteva più prescindere. I socialisti erano inoltre affiancati da un robusto movimento giovanile e da propri organi di stampa.
Definì quindi la politica del “non-intervento”, anticipazione del “diritto di sciopero”, che rappresentò un allentamento degli attriti tra Stato e sindacati, nel panorama dell’industrializzazione italiana.
Propose poi a Turati di entrare a far parte del suo governo; egli rifiutò, ma tra i due si stabilì un rapporto di collaborazione, nonostante i diversi schieramenti politici; ne scaturirono il diritto di sciopero e la neutralità dello Stato nel rapporto contrattuale tra lavoratori e datori di lavoro, i salari furono garantiti e difesi dalla legge; fu alzata a 12 anni l’età minima per l’istruzione obbligatoria e nacquero l’Istituto Nazionale Assicurazioni (INA), la CGIL e le Leghe Cattoliche (i primi sindacati).
Giolitti ebbe molto a cuore i rapporti tra Stato e i sindacati, le “Camere di lavoro”: in un suo memorabile discorso al Parlamento afferma come lo Stato, osteggiando queste ultime, commetta un triplice errore: “Un’ingiustizia, poiché manca di imparzialità schierandosi con una fascia di cittadini; un errore economico, perché altera la legge economica della domanda e dell’offerta (lo Stato voleva contenere i salari); e un errore politico, perché rende ostili le classi che sono la maggioranza della popolazione”.
Risolto una prima questione, Giolitti avviò il dialogo con i cattolici, che subivano ancora i postumi del “Non Expedit” di Pio XI: arrivò ad un “patto” con Gentiloni, loro rappresentante, che gli garantì il loro appoggio.
Più difficoltoso fu ingraziarsi i nazionalisti: volevano a tutti i costi l’affermazione del prestigio dell’Italia in Europa, e vedevano come unico mezzo la guerra. Nel 1912 Giolitti “deve” dichiarare guerra alla Libia e farne colonia italiana, con grosse spese e difficoltà. L’impresa libica però servì a Giolitti per capire in quali condizioni versava l’esercito regio: tale esperienza lo farà propendere per il neutralismo due anni dopo, allo scoppio della Grande Guerra.
In ogni caso, a questo punto Giolitti godeva dell’appoggio della maggioranza del Parlamento e di tutti i ceti della popolazione, e poté riformare il sistema elettorale, istituendo il suffragio universale maschile.
Egli riteneva opportuno allargare il diritto di voto per consentire a più persone di sentirsi parte attiva nella partecipazione alla vita politica nazionale.
Non riuscì però a conciliare i fascisti, coi quali dovette fare i conti nel suo quinto governo; nonostante ciò, dopo l’assassinio di Matteotti del 1924 fu uno dei pochi politici a rimanere in Parlamento a contrastare Mussolini. Morì quattro anni dopo, a Cavour.
Giolitti riuscì a rimanere così tanti anni al governo proprio conciliando gli interessi delle diverse forze politiche: il più delle volte lo fece con mezzi ortodossi; ma Giolitti presenta anche un lato dalle tinte fosche: Salvemini, storico meridionale, arrivò a definirlo “ministro della malavita”. Questo perché era solito accattivarsi i deputati del Mezzogiorno mettendo a loro servizio la malavita, assicurando spregiudicatamente impunità, intervenendo con amnistie, consolidando l’uso di violenza e corruzione. Coloro per i quali le attenzioni individuali non sarebbero state “opportune”, continua Salvemini, “cercò di conquistarli con mosse politiche, come riforme che potessero piacere al loro schieramento”.
Proprio per questo molti vedono in lui l’incarnazione del “principe” di Machiavelli: colui che governa come ritiene opportuno utilizzando i mezzi che ritiene più opportuni.
In definitiva Giolitti fu un grande politico: lo stesso Salvemini dovette ritrattare le sue affermazioni, poiché anche lui si inchinò davanti alla genuinità del governo di Giolitti. I suoi metodi talvolta poco ortodossi non possono che essergli perdonati, visto quanto di buono fece per l’Italia, prendendola per mano, come un padre con la giovane figlia, durante il delicato passaggio tra Ottocento e Novecento.
Miglior risposta