Odissea
ciao a tutti,
qualcuno sa dirmi la parafrasi del libro IX dell'odissea dal verso 170 al verso 470.
grz
qualcuno sa dirmi la parafrasi del libro IX dell'odissea dal verso 170 al verso 470.
grz
Risposte
io ho cercato ma non mi pare ci sia proprio quello...magari riprovaci tu!
ciaoooooo
Nada
ciaoooooo
Nada
Guarda qui
https://www.skuola.net/ricerca/forum/odissea/pagina-5.html
tra i forum e gli appunti c'è di sicuro
Eve
https://www.skuola.net/ricerca/forum/odissea/pagina-5.html
tra i forum e gli appunti c'è di sicuro
Eve
Non iscagliò nessun, com’Elatréo.170
Laodamante, il real figlio egregio,
Nel pugile severo ebbe la palma.
Fine al diletto de’ certami posto,
Parlò tra lor Laodamante: Amici,
Su via, l’estraneo domandiam di queste175
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon taglio e’ mi sembra; e, dove ai fianchi,
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi
Guardisi, e al fermo collo, una robusta
Natura io veggio, e non mi par, che ancora180
Degli anni verdi l’abbandoni il nerbo.
Ma il fransero i disagi all’onde in grembo:
Chè non è, quanto il mar, siccome io credo,
Per isconfigger l’uom, benchè assai forte.
Laodamante, il tuo parlar fu bello,185
Eurialo rispondea. Però l’abborda
Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l’invita.
Come d’Alcinoo l’incolpabil figlio
Questo ebbe udito, si fe’ innanzi, e, stando
Nel mezzo, Orsù, gli disse, ospite padre,190
Tu ancor ne’ giochi le tue forze assaggia,
Se alcun mai ne apparasti a’ giorni tuoi,
E degno è ben, che non ten mostri ignaro:
[p. 205]
Quando io non so per l’uom gloria maggiore,
Che del piè con prodezza, e della mano,195
Mentre in vita riman, poter valersi.
T’arrischia dunque, e la tristezza sgombra
Dall’alma. Poco il desiato istante
Del tuo viaggio tarderà: varata
Fu già la nave, e i remigi son pronti.200
Ma così gli rispose il saggio Ulisse:
Laodamante, a che cotesto invito,
Deridendomi quasi? Io più, che giochi,
Disastri volgo per l’afflitta mente,
Io, che tanto patii, sostenni tanto,205
E or qui, mendico di ritorno, e scorta,
Siedomi, al Re pregando, e al popol tutto.
Il bravo Eurialo a viso aperto allora:
Uom non mi sembri tu, che si conosca
Di quelle pugne, che la stirpe umana210
Per suo diletto esercitar costuma.
Tu m’hai vista di tal, che presso nave
Di molti banchi s’affaccendi, capo
Di marinari al trafficare intesi,
Che in mente serba il carico, ed al vitto215
Pensa, e ai guadagni con rapina fatti:
Ma nulla certo dell’Atleta tieni.
Mirollo bieco, e replicogli Ulisse:
[p. 206]
Male assai favellasti, e ad uom protervo
Somigli in tutto. Così è ver, che i Numi220
Le più care non dan doti ad un solo,
Sembiante, ingegno, e ragionar, che piace.
L’un bellezza non ha, ma della mente
Gl’interni sensi in cotal guisa esprime,
Che par delle parole ornarsi il volto.225
Gode chiunque il mira. Ei, favellando
Con soave modestia, e franco a un tempo,
Spicca in ogni consesso; e allor che passa
Per la città, gli occhi a sè attrae, qual Nume.
L’altro nel viso, e nelle membra un mostra230
Degl’immortali Dei: pur non si vede
Grazia, che ai detti suoi s’avvolga intorno.
Così te fregia la beltà, nè meglio
Formar saprian gli stessi Eterni un volto:
Se non che poco della mente vali.235
Mi trafiggesti l’anima nel petto,
Villane voci articolando: io nuovo
Non son de’ giochi, qual tu cianci, e credo
Anzi, ch’io degli atleti andai tra i primi,
Finchè potei de’ verdi anni, e di queste240
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai, tra l’armi penetrando, e l’onde,
Gl’infortunj domaro. E non pertanto
[p. 207]
Cimenterommi: chè mordace troppo
Fu il tuo sermon, nè più tenermi io valgo.245
Disse; e co’ panni stessi, in ch’era involto,
Lanciossi, ed afferrò massiccio disco,
Che quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto di mole soverchiava, e pondo.
Rotollo in aria, e con la man robusta250
Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,
Que’ naviganti celebri, que’ forti
Remigatori, s’abbattero in terra
Per la foga del sasso, il qual, partito
Da sì valida destra, i segni tutti255
Rapidamente sorvolò. Minerva,
Vestite umane forme, il segno pose,
E all’ospite conversa, Un cieco, disse,
Trovar, palpando, tel potria: chè primo,
Nè già di poco, e solitario sorge.260
Per questa prova dunque alcun timore
Non t’anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i Feaci non fia, che ti raggiunga.
Rallegrossi a tai voci, e si compiacque
Il Laerziade, che nel circo uom fosse,265
Che tanto il favoria. Quindi ai Feaci
Più mollemente le parole volse:
Quello arrivate, o damigelli, e un altro
[p. 208]
Pari, o più grande, fulminarne in breve
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri270
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,
Chi far periglio di se stesso agogna,
Venga in campo con me: poichè di vero
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo275
Laodamante, che ricetto dammi.
Chi entrar vorrebbe con l’amico in giostra?
Stolto, e da nulla è senza dubbio, e tutto
Storpia le imprese sue, chiunque in mezzo
D’un popol stranier con chi l’alberga280
Si presenta a contendere. Degli altri
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,
Come colui, che non mi credo imbelle,
Quale il cimento sia. L’arco lucente285
Trattare appresi: imbroccherei primajo,
Saettando un guerrier dell’oste avversa,
Benchè turba d’amici a me d’intorno
Contra quell’oste disfrenasse i dardi.
Sol Filottete mi vincea dell’arco,290
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma quanti sulla terra or v’ha mortali,
Cui la forza del pane il cor sostenta,
[p. 209]
Io di gran lunga superar mi vanto:
Chè non vo’ pormi io già co’ prischi eroi,295
Con Eurito d’Ecalia, o con Alcide,
Che agli Dei stessi di scoccar nell’arte
Si pareggiaro. Che ne avvenne? Giorni
Sorser pochi ad Euríto, e le sue case
Nol videro invecchiar: poscia che Apollo300
Forte si corrucciò, che disfidato
L’avesse all’arco, e di sua man l’uccise.
Dell’asta poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo,
Non mi vantaggi alcun: chè tra che molto305
M’afflisse il mare, e che non fu il mio legno
Sempre vettovagliato, a me, qual prima,
Non ubbidisce l’infedel ginocchio.
Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose: Forestier, la tua favella310
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto
De’ motti audaci, onde colui ti morse,
La virtù mostrar vuoi, che t’accompagna,
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,
Più biasmata non fia. Ma tu m’ascolta:315
Acciocchè un dì, quando nel tuo palagio
Sederai con la sposa, e i figli a mensa,
E quel, che di gentile in noi s’annida,
[p. 210]
Rimembrerai, possi a un illustre amico
Favellando narrar, quali redammo320
Studi dagli avi per voler di Giove.
Non siam nè al cesto, nè alla lotta egregi:
Ma rapidi moviam, correndo, i passi,
E a maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo sempre il banchettar ci torna,325
Musica, e danza, ed il cangiar di veste,
I tepidi lavacri, e i letti molli.
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio dell’arte della danza avete,
Fate, che lo straniero a’ suoi più cari,330
Risalutate le paterne mura,
Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,
Non che al nautico studio, ed alla corsa,
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu, Pontonoo, per l’arguta cetra,335
Che nel palagio alla colonna pende,
Vanne, e al divin Demodoco la reca.
Sorse, e partì l’araldo; e al tempo stesso
Sorsero i nove a presedere ai giuochi
Giudici eletti dai comuni voti,340
Ed il campo agguagliaro, e dilataro,
Rimosse alquanto le persone, il circo.
Tornò l’araldo con la cetra, e in mano
[p. 211]
La pose di Demodoco, che al circo
S’adagiò in mezzo. Danzatori allora345
D’alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni,
Feano al vate corona, ed il bel circo
Co’ presti piedi percoteano. Ulisse
De’ frettolosi piè gli sfolgoríi
Molto lodava; e non si riavea350
Dallo stupor, che gl’ingombrava il petto.
Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo355
Lor conversar nella superba casa
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla Dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,360
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L’annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un’immortal vendetta
Macchinando nell’anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello365
Nodi, per ambo imprigionarli, ordia
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte
[p. 212]
D’ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto,370
S’avviò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all’alte travi,
Quai fila sottilissime d’aragna,
Con tanta orditi, e sì ingegnosa fraude,375
Che nè d’un Dio li potea l’occhio torre.
Poscia che tutto degl’industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno,
Terra ben fabbricata, e più, che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo380
Marte, che d’oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l’egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione385
Del gran mastro de’ fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturníde onnipossente padre
Nel conjugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò, che posava, e lei per mano390
Prese, e a nome chiamò: Venere, disse,
Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano: altrove, a Lenno
[p. 213]
Vassene, e ai Sintii di selvaggia voce.
Piacque l’invito a Venere, e su quello395
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s’avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s’accorgeano al fine,
Non aprirsi di scampo alcuna via.400
S’avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocchè il Sole spiator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi405
Nell’atrio: immensa ira l’invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell’Olimpo l’udîr gli abitatori:
O Giove padre, e voi, disse, beati
Numi, che d’immortal vita godete,410
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili: Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perchè impedito
De’ piedi son, cuopre d’infamia ognora,
Ed il suo cor nell’omicida Marte415
Pone, come in colui, che bello, e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
[p. 214]
Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? Testimon siate, o Numi,420
Del lor giacersi uniti, e dell’ingrato
Spettacol, che oggi sostener m’è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benchè sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo425
Non si svilupperan d’este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei, ch’io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,430
Ma del proprio suo cor non donna punto.
Disse; e i Dei s’adunaro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il Dio, per cui la terra trema,
Mercurio venne de’ mortali amico,435
Venne Apollo dal grande arco d’argento.
Le Dee non già: chè nelle stanze loro
Riteneale vergogna. Ma i datori
D’ogni bramato ben Dei sempiterni
Nell’atrio s’adunâr: sorse tra loro440
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia:
[p. 215]
Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l’agile arriva.445
Ecco Vulcan, benchè sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d’Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l’arte; onde la multa
Dell’adulterio gli può torre a dritto.450
Allor così a Mercurio il gajo Apollo:
Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all’aurea Venere da presso?455
Oh questo fosse, gli rispose il Nume
Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo,
Fosse, o Sir dall’argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i Numi in me lo sguardo460
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria
Dormire all’aurea Venere da presso.
Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano,
L’inclito mastro, senza fin pregava,465
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t’entro
Mallevador, che agl’Immortali in faccia
[p. 216]
Tutto ei compenserà, com’è ragione.
Questo, rispose il Dio dai piè distorti
Per chi volesse rispondere!
Ciaooooooooooooooooooooooooo!!!!!
Nada
Laodamante, il real figlio egregio,
Nel pugile severo ebbe la palma.
Fine al diletto de’ certami posto,
Parlò tra lor Laodamante: Amici,
Su via, l’estraneo domandiam di queste175
Prove, se alcuna in gioventù ne apprese.
Di buon taglio e’ mi sembra; e, dove ai fianchi,
Dove alle gambe, e delle mani ai dossi
Guardisi, e al fermo collo, una robusta
Natura io veggio, e non mi par, che ancora180
Degli anni verdi l’abbandoni il nerbo.
Ma il fransero i disagi all’onde in grembo:
Chè non è, quanto il mar, siccome io credo,
Per isconfigger l’uom, benchè assai forte.
Laodamante, il tuo parlar fu bello,185
Eurialo rispondea. Però l’abborda
Tu stesso, e il tenta; e a fuori uscir l’invita.
Come d’Alcinoo l’incolpabil figlio
Questo ebbe udito, si fe’ innanzi, e, stando
Nel mezzo, Orsù, gli disse, ospite padre,190
Tu ancor ne’ giochi le tue forze assaggia,
Se alcun mai ne apparasti a’ giorni tuoi,
E degno è ben, che non ten mostri ignaro:
[p. 205]
Quando io non so per l’uom gloria maggiore,
Che del piè con prodezza, e della mano,195
Mentre in vita riman, poter valersi.
T’arrischia dunque, e la tristezza sgombra
Dall’alma. Poco il desiato istante
Del tuo viaggio tarderà: varata
Fu già la nave, e i remigi son pronti.200
Ma così gli rispose il saggio Ulisse:
Laodamante, a che cotesto invito,
Deridendomi quasi? Io più, che giochi,
Disastri volgo per l’afflitta mente,
Io, che tanto patii, sostenni tanto,205
E or qui, mendico di ritorno, e scorta,
Siedomi, al Re pregando, e al popol tutto.
Il bravo Eurialo a viso aperto allora:
Uom non mi sembri tu, che si conosca
Di quelle pugne, che la stirpe umana210
Per suo diletto esercitar costuma.
Tu m’hai vista di tal, che presso nave
Di molti banchi s’affaccendi, capo
Di marinari al trafficare intesi,
Che in mente serba il carico, ed al vitto215
Pensa, e ai guadagni con rapina fatti:
Ma nulla certo dell’Atleta tieni.
Mirollo bieco, e replicogli Ulisse:
[p. 206]
Male assai favellasti, e ad uom protervo
Somigli in tutto. Così è ver, che i Numi220
Le più care non dan doti ad un solo,
Sembiante, ingegno, e ragionar, che piace.
L’un bellezza non ha, ma della mente
Gl’interni sensi in cotal guisa esprime,
Che par delle parole ornarsi il volto.225
Gode chiunque il mira. Ei, favellando
Con soave modestia, e franco a un tempo,
Spicca in ogni consesso; e allor che passa
Per la città, gli occhi a sè attrae, qual Nume.
L’altro nel viso, e nelle membra un mostra230
Degl’immortali Dei: pur non si vede
Grazia, che ai detti suoi s’avvolga intorno.
Così te fregia la beltà, nè meglio
Formar saprian gli stessi Eterni un volto:
Se non che poco della mente vali.235
Mi trafiggesti l’anima nel petto,
Villane voci articolando: io nuovo
Non son de’ giochi, qual tu cianci, e credo
Anzi, ch’io degli atleti andai tra i primi,
Finchè potei de’ verdi anni, e di queste240
Braccia fidarmi. Or me, che aspre fatiche
Durai, tra l’armi penetrando, e l’onde,
Gl’infortunj domaro. E non pertanto
[p. 207]
Cimenterommi: chè mordace troppo
Fu il tuo sermon, nè più tenermi io valgo.245
Disse; e co’ panni stessi, in ch’era involto,
Lanciossi, ed afferrò massiccio disco,
Che quelli, onde giocar solean tra loro,
Molto di mole soverchiava, e pondo.
Rotollo in aria, e con la man robusta250
Lo spinse: sonò il sasso, ed i Feaci,
Que’ naviganti celebri, que’ forti
Remigatori, s’abbattero in terra
Per la foga del sasso, il qual, partito
Da sì valida destra, i segni tutti255
Rapidamente sorvolò. Minerva,
Vestite umane forme, il segno pose,
E all’ospite conversa, Un cieco, disse,
Trovar, palpando, tel potria: chè primo,
Nè già di poco, e solitario sorge.260
Per questa prova dunque alcun timore
Non t’anga: lunge dal passarti, alcuno
Tra i Feaci non fia, che ti raggiunga.
Rallegrossi a tai voci, e si compiacque
Il Laerziade, che nel circo uom fosse,265
Che tanto il favoria. Quindi ai Feaci
Più mollemente le parole volse:
Quello arrivate, o damigelli, e un altro
[p. 208]
Pari, o più grande, fulminarne in breve
Voi mi vedrete, io penso. Ed anco in altri270
Certami, o cesto, o lotta, o corso ancora,
Chi far periglio di se stesso agogna,
Venga in campo con me: poichè di vero
Mi provocaste oltre misura. Uom vivo
Tra i Feacesi io non ricuso, salvo275
Laodamante, che ricetto dammi.
Chi entrar vorrebbe con l’amico in giostra?
Stolto, e da nulla è senza dubbio, e tutto
Storpia le imprese sue, chiunque in mezzo
D’un popol stranier con chi l’alberga280
Si presenta a contendere. Degli altri
Nessun temo, o dispregio, e son con tutti
Nel dì più chiaro a misurarmi pronto,
Come colui, che non mi credo imbelle,
Quale il cimento sia. L’arco lucente285
Trattare appresi: imbroccherei primajo,
Saettando un guerrier dell’oste avversa,
Benchè turba d’amici a me d’intorno
Contra quell’oste disfrenasse i dardi.
Sol Filottete mi vincea dell’arco,290
Mentre a gara il tendean sotto Ilio i Greci:
Ma quanti sulla terra or v’ha mortali,
Cui la forza del pane il cor sostenta,
[p. 209]
Io di gran lunga superar mi vanto:
Chè non vo’ pormi io già co’ prischi eroi,295
Con Eurito d’Ecalia, o con Alcide,
Che agli Dei stessi di scoccar nell’arte
Si pareggiaro. Che ne avvenne? Giorni
Sorser pochi ad Euríto, e le sue case
Nol videro invecchiar: poscia che Apollo300
Forte si corrucciò, che disfidato
L’avesse all’arco, e di sua man l’uccise.
Dell’asta poi, quanto nessun di freccia
Saprebbe, io traggo. Sol nel corso io temo,
Non mi vantaggi alcun: chè tra che molto305
M’afflisse il mare, e che non fu il mio legno
Sempre vettovagliato, a me, qual prima,
Non ubbidisce l’infedel ginocchio.
Ammutolì ciascuno, e Alcinoo solo
Rispose: Forestier, la tua favella310
Sgradir non ci potea. Sdegnato a dritto
De’ motti audaci, onde colui ti morse,
La virtù mostrar vuoi, che t’accompagna,
Virtù, che or da chi tanto o quanto scorga,
Più biasmata non fia. Ma tu m’ascolta:315
Acciocchè un dì, quando nel tuo palagio
Sederai con la sposa, e i figli a mensa,
E quel, che di gentile in noi s’annida,
[p. 210]
Rimembrerai, possi a un illustre amico
Favellando narrar, quali redammo320
Studi dagli avi per voler di Giove.
Non siam nè al cesto, nè alla lotta egregi:
Ma rapidi moviam, correndo, i passi,
E a maraviglia navighiamo. In oltre
Giocondo sempre il banchettar ci torna,325
Musica, e danza, ed il cangiar di veste,
I tepidi lavacri, e i letti molli.
Su dunque voi, che tra i Feaci il sommo
Pregio dell’arte della danza avete,
Fate, che lo straniero a’ suoi più cari,330
Risalutate le paterne mura,
Piacciasi raccontar, quanto anche al ballo,
Non che al nautico studio, ed alla corsa,
Noi da tutte le genti abbiam vantaggio.
E tu, Pontonoo, per l’arguta cetra,335
Che nel palagio alla colonna pende,
Vanne, e al divin Demodoco la reca.
Sorse, e partì l’araldo; e al tempo stesso
Sorsero i nove a presedere ai giuochi
Giudici eletti dai comuni voti,340
Ed il campo agguagliaro, e dilataro,
Rimosse alquanto le persone, il circo.
Tornò l’araldo con la cetra, e in mano
[p. 211]
La pose di Demodoco, che al circo
S’adagiò in mezzo. Danzatori allora345
D’alta eccellenza, e in sul fiorir degli anni,
Feano al vate corona, ed il bel circo
Co’ presti piedi percoteano. Ulisse
De’ frettolosi piè gli sfolgoríi
Molto lodava; e non si riavea350
Dallo stupor, che gl’ingombrava il petto.
Ma il poeta divin, citareggiando,
Del bellicoso Marte, e della cinta
Di vago serto il crin Vener Ciprigna,
Prese a cantar gli amori, ed il furtivo355
Lor conversar nella superba casa
Del Re del fuoco, di cui Marte il casto
Letto macchiò nefandemente, molti
Doni offerti alla Dea, con cui la vinse.
Repente il Sole, che la colpa vide,360
A Vulcan nunzïolla; e questi, udito
L’annunzio doloroso, alla sua negra
Fucina corse, un’immortal vendetta
Macchinando nell’anima. Sul ceppo
Piantò una magna incude; e col martello365
Nodi, per ambo imprigionarli, ordia
A frangersi impossibili, o a disciorsi.
Fabbricate le insidie, ei, contra Marte
[p. 212]
D’ira bollendo, alla secreta stanza,
Ove steso giaceagli il caro letto,370
S’avviò in fretta, e alla lettiera bella
Sparse per tutto i fini lacci intorno,
E molti sospendeane all’alte travi,
Quai fila sottilissime d’aragna,
Con tanta orditi, e sì ingegnosa fraude,375
Che nè d’un Dio li potea l’occhio torre.
Poscia che tutto degl’industri inganni
Circondato ebbe il letto, ir finse in Lenno,
Terra ben fabbricata, e più, che ogni altra
Cittade, a lui diletta. In questo mezzo380
Marte, che d’oro i corridori imbriglia,
Alle vedette non istava indarno.
Vide partir l’egregio fabbro, e, sempre
Nel cor portando la di vago serto
Cinta il capo Ciprigna, alla magione385
Del gran mastro de’ fuochi in fretta mosse.
Ritornata di poco era la diva
Dal Saturníde onnipossente padre
Nel conjugale albergo; e Marte, entrando,
La trovò, che posava, e lei per mano390
Prese, e a nome chiamò: Venere, disse,
Ambo ci aspetta il solitario letto.
Di casa uscì Vulcano: altrove, a Lenno
[p. 213]
Vassene, e ai Sintii di selvaggia voce.
Piacque l’invito a Venere, e su quello395
Salì con Marte, e si corcò: ma i lacci
Lor s’avvolgean per cotal guisa intorno,
Che stendere una man, levare un piede,
Tutto era indarno; e s’accorgeano al fine,
Non aprirsi di scampo alcuna via.400
S’avvicinava intanto il fabbro illustre,
Che volta diè dal suo viaggio a Lenno:
Perocchè il Sole spiator la trista
Storia gli raccontò. Tutto dolente
Giunse al suo ricco tetto, ed arrestossi405
Nell’atrio: immensa ira l’invase, e tale
Dal petto un grido gli scoppiò, che tutti
Dell’Olimpo l’udîr gli abitatori:
O Giove padre, e voi, disse, beati
Numi, che d’immortal vita godete,410
Cose venite a rimirar da riso,
Ma pure insopportabili: Ciprigna,
Di Giove figlia, me, perchè impedito
De’ piedi son, cuopre d’infamia ognora,
Ed il suo cor nell’omicida Marte415
Pone, come in colui, che bello, e sano
Nacque di gambe, dove io mal mi reggo.
Chi sen vuole incolpar? Non forse i soli,
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Che tal non mi dovean mettere in luce,
Parenti miei? Testimon siate, o Numi,420
Del lor giacersi uniti, e dell’ingrato
Spettacol, che oggi sostener m’è forza.
Ma infredderan nelle lor voglie, io credo,
Benchè sì accesi, e a cotai sonni in preda
Più non vorranno abbandonarsi. Certo425
Non si svilupperan d’este catene,
Se tutti prima non mi torna il padre
Quei, ch’io posi in sua man, doni dotali
Per la fanciulla svergognata: quando
Bella, sia loco al ver, figlia ei possiede,430
Ma del proprio suo cor non donna punto.
Disse; e i Dei s’adunaro alla fondata
Sul rame casa di Vulcano. Venne
Nettuno, il Dio, per cui la terra trema,
Mercurio venne de’ mortali amico,435
Venne Apollo dal grande arco d’argento.
Le Dee non già: chè nelle stanze loro
Riteneale vergogna. Ma i datori
D’ogni bramato ben Dei sempiterni
Nell’atrio s’adunâr: sorse tra loro440
Un riso inestinguibile, mirando
Di Vulcan gli artifici; e alcun, volgendo
Gli occhi al vicino, in tai parole uscia:
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Fortunati non sono i nequitosi
Fatti, e il tardo talor l’agile arriva.445
Ecco Vulcan, benchè sì tardo, Marte,
Che di velocità tutti d’Olimpo
Vince gli abitator, cogliere: il colse,
Zoppo essendo, con l’arte; onde la multa
Dell’adulterio gli può torre a dritto.450
Allor così a Mercurio il gajo Apollo:
Figlio di Giove, messaggiero accorto,
Di grate cose dispensier cortese,
Vorrestu avvinto in sì tenaci nodi
Dormire all’aurea Venere da presso?455
Oh questo fosse, gli rispose il Nume
Licenzïoso, e ad opre turpi avvezzo,
Fosse, o Sir dall’argenteo arco, e in legami
Tre volte tanti io mi trovassi avvinto,
E intendessero i Numi in me lo sguardo460
Tutti, e tutte le Dee! Non mi dorria
Dormire all’aurea Venere da presso.
Tacque; e in gran riso i Sempiterni diero.
Ma non ridea Nettuno, anzi Vulcano,
L’inclito mastro, senza fin pregava,465
Liberasse Gradivo, e con alate
Parole gli dicea: Scioglilo. Io t’entro
Mallevador, che agl’Immortali in faccia
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Tutto ei compenserà, com’è ragione.
Questo, rispose il Dio dai piè distorti
Per chi volesse rispondere!
Ciaooooooooooooooooooooooooo!!!!!
Nada
Scrivi i primi versi del 170 e gli ultimi del 470 in modo da facilitare il compito a chi ti darà una mano.