Aiutatemi x favore....è urgentee
devo rispondere ad alcune domande sull'iliade...e una dice: Nel poema dove trovi equità??? (minimo 10 righe)
ma cosa vuol dire??? heeeeeeelp----ma nel senso che Omero non parla "male" dei troiani e quindi c'è equità??? bo....
ma cosa vuol dire??? heeeeeeelp----ma nel senso che Omero non parla "male" dei troiani e quindi c'è equità??? bo....
Risposte
ok...grazie
magari puoi usarlo come spunto e integrarlo con del tuo....
grazie....cmq come poxo rispondere alla domanda??? xk noi abbiamo fatto questo passo si Simon Weil....quindi nn poxo copiarlo.... xDxD
La straordinaria equità che ispira l’Iliade ha forse esempi a noi sconosciuti, ma non ha avuto imitatori. A ma-lapena ci si accorge che il poeta è greco e non troiano. Il tono del poema sembra portare testimonianza di-retta dell’origine delle parti più antiche, la storia forse non ci darà mai chiarimenti su questo punto. Se si cre-de con Tucidide che ottant’anni dopo la distruzione di Troia gli Achei soffersero a loro volta una conquista, ci si può chiedere se quei canti, dove il ferro non è nominarlo che raramente, non siano i canti di quei vinti, tra i quali alcuni forse presero la via dell’esilio. Costretti a vivere e morire «ben lungi dalla patria», come i Greci caduti dinanzi a Troia, perdute come i Troiani le loro città. ritrovavano se stessi così nei vincitori, che erano i loro padri, come nei vinti la cui miseria somigliava alla loro: la verità di quella guerra ancora vicina poteva mostrarsi loro attraverso gli anni, non velata dall’ebrietà dell’orgoglio né dall’umiliazione. Potevano figurarse-la insieme da vinti e da vincitori e conoscere in questo modo ciò che mai né vincitori né vinti hanno conosciu-to, gli uni e gli altri essendo accecati. Tutto questo non è che un sogno; non si può che sognare su tempi tanto remoti.
Sia come sia, questo poema è una cosa miracolosa. In esso l’amarezza verte sull’unica giusta causa di a-marezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa su-bordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade, così come nessuno vi si sottrae sulla terra. E nessuno di coloro che vi soc-combono è per questo considerato spregevole. Tutto ciò che all’interno dell’anima e nei rapporti umani sfug-ge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso. Tale lo spirito della sola autentica epopea che l’occidente possieda. L’Odissea non sembra essere che un’eccellente imitazione, ora dell’Iliade ora di poemi orientali; l’Eneide è un’imitazione che, brillante fin-ché si vuole, è disabbellita dalla freddezza, dalla declamazione, dal cattivo gusto. Le chansons de geste non seppero raggiungere la grandezza per mancanza di equità; la morte di un nemico non è sentita. dall’autore e dal lettore della Chanson de Roland, come la morte di Rolando.
La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e di Sofocle, è la vera continuazione dell’epopea. Il pensiero del-la giustizia la illumina senza mai intervenirvi; la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre accompa-gnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa né colui che la soffre; l’umiliazione dell’anima sotto gli effetti della forza non vi è né mascherata né avvolta di pietà facile, né proposta al di-sprezzo; più di un essere ferito dalla degradazione della sventura è offerto all’ammirazione. Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade è la prima; lo spirito della Grecia vi traspa-re non soltanto nel fatto che esso comanda di ricercare, ad esclusione di ogni altro bene, «il regno e la giu-stizia del nostro Padre celeste», ma anche perché vi è esposta la miseria umana, e questo in un essere divi-no al tempo stesso che umano. Le sequenze della Passione mostrano che uno spirito divino, unito alla car-ne, è alterato dalla sventura, trema dinanzi alla sofferenza e la morte, si sente, nel fondo del suo abbandono, separato dagli uomini e da Dio. Il sentimento della miseria umana dà loro quell’accento di semplicità che è il marchio del genio greco e che è tutto il pregio della tragedia attica e dell’Iliade. Certe parole rendono un suono stranamente affine a quello dell’epopea, e l’adolescente troiano inviato alla case di Ade, sebbene rilut-tante a partire, torna alla mente quando il Cristo dice a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti menerà dove tu non vuoi». Tale accento non è separabile dal pensiero che ispira il Vangelo; infatti il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercè, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uo-mini fa nascere l’illusione che vi siano tra di loro specie distinte cui non è dato comunicare. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare.
1 rapporti dell’anima umana e del destino, in qual misura ciascun’anima modelli la propria sorte, ciò che una impietosa necessità trasforma dentro un’anima secondo il capriccio della sorte mutevole, ciò che per effetto della virtù e della grazia può rimanere intatto, è una materia in cui la menzogna è facile e seducente. L’orgoglio, l’umiliazione, l’odio, lo sprezzo, l’indifferenza, il desiderio di dimenticare o di ignorare, tutto contri-buisce a offrirne la tentazione. In particolare, nulla è più raro di una giusta espressione della sventura; dipin-gendola, si finge quasi sempre di credere ora che la sconfitta sia una vocazione innata dello sventurato, ora che un’anima possa reggere la sventura senza riceverne il marchio, senza che la sventura ne muti tutti i pensieri in un modo che solo le è proprio. Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a se stessi; ne furono ricompensati e seppero toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. Ma lo spirito che si è trasmesso dall’Iliade al Vangelo, passando per i pensatori e i poeti tragici, non ha valicato i confini della civiltà greca; e, da quando si distrusse la Grecia, non ne restano che riflessi.
Tanto i Romani come gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana, i primi quale nazione pre-scelta dal destino a essere padrona del mondo, i secondi grazie al favore del loro Dio e nella misura esatta in cui gli obbedirono. I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti, i loro sudditi, i loro schiavi; per questo non ebbero né epopea né tragedie. Sostituivano le tragedie con i giochi del circo. Gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato; dunque un motivo legittimo di disprezzo; guardavano i nemici vinti come se Dio stesso li avesse in orrore e li condannasse a espiare delitti, ciò che rendeva lecita e addirittura indi-spensabile la crudeltà. Per questo nessun testo dell’antico Testamento rende un suono paragonabile a quel-lo dell’epopea greca, se non forse talune parti del poema di Giobbe. Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e le parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo.
Inoltre lo spirito del vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Fin dai primi tempi si credette di scorgere un segno della grazia nei martiri per il fatto che essi pativano le sofferenze e la morte con gioia; quasi che gli effetti della grazia potessero arrivare più lontano negli uomini che nel Cristo. Chi pensò che Dio stesso, divenuto uomo, non poté avere davanti agli occhi il rigore del destino senza tremarne di angoscia, avrebbe dovuto comprendere che apparentemente al disopra della miseria umana possono le-varsi solo gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino con il soccorso dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo, che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita. Per averlo troppo dimenticato, la tradizione cristiana non ha saputo ritrovare se non molto di rado quella semplicità che rende lacerante ciascuna frase delle sequenze della Passione. D’altronde, il costume delle conversioni forzate ha velato gli effetti della forza sull’anima di coloro che la ma-neggiano.
Nonostante la breve ebbrezza causata al tempo del Rinascimento dalla scoperta delle lettere greche, il ge-nio della Grecia non é risorto nel corso di venti secoli. Ne traspare qualcosa in Villon, Shakespeare, Cervan-tes, Molière, e una volta in Racine. La miseria umana è messa a nudo, a proposito dell’amore, ne L’ècole des femmes, in Phèdre; strano secolo d’altronde, nel quale, contrariamente all’età epica, non era concesso percepire la miseria dell’uomo se non nell’amore, mentre gli effetti della forza nella guerra e nella politica do-vevano essere sempre circonfusi di gloria. Si potrebbe, forse, fare altri nomi. Ma nulla di quanto hanno pro-dotto i popoli d’Europa vale il primo poema conosciuto che sia apparso presso uno di essi. Ritroveranno for-se il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi non ammirare mai la for-za, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati. E dubbio che ciò sia prossimo ad accadere.
[url=http://209.85.135.104/search?q=cache:22YJgYri884J:www.lamerlettaia.it/weil.htm+equit%C3%A0+iliade&hl=it&ct=clnk&cd=6&gl=it]tratto da qui[/url]
Sia come sia, questo poema è una cosa miracolosa. In esso l’amarezza verte sull’unica giusta causa di a-marezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, vale a dire, in fin dei conti, alla materia. Questa su-bordinazione è la stessa in tutti i mortali, sebbene l’anima la porti diversamente secondo il grado di virtù. Nessuno vi si sottrae nell’Iliade, così come nessuno vi si sottrae sulla terra. E nessuno di coloro che vi soc-combono è per questo considerato spregevole. Tutto ciò che all’interno dell’anima e nei rapporti umani sfug-ge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente per quel pericolo di distruzione continuamente sospeso. Tale lo spirito della sola autentica epopea che l’occidente possieda. L’Odissea non sembra essere che un’eccellente imitazione, ora dell’Iliade ora di poemi orientali; l’Eneide è un’imitazione che, brillante fin-ché si vuole, è disabbellita dalla freddezza, dalla declamazione, dal cattivo gusto. Le chansons de geste non seppero raggiungere la grandezza per mancanza di equità; la morte di un nemico non è sentita. dall’autore e dal lettore della Chanson de Roland, come la morte di Rolando.
La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e di Sofocle, è la vera continuazione dell’epopea. Il pensiero del-la giustizia la illumina senza mai intervenirvi; la forza vi appare nella sua fredda durezza, sempre accompa-gnata dagli effetti funesti ai quali non sfugge né colui che la usa né colui che la soffre; l’umiliazione dell’anima sotto gli effetti della forza non vi è né mascherata né avvolta di pietà facile, né proposta al di-sprezzo; più di un essere ferito dalla degradazione della sventura è offerto all’ammirazione. Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade è la prima; lo spirito della Grecia vi traspa-re non soltanto nel fatto che esso comanda di ricercare, ad esclusione di ogni altro bene, «il regno e la giu-stizia del nostro Padre celeste», ma anche perché vi è esposta la miseria umana, e questo in un essere divi-no al tempo stesso che umano. Le sequenze della Passione mostrano che uno spirito divino, unito alla car-ne, è alterato dalla sventura, trema dinanzi alla sofferenza e la morte, si sente, nel fondo del suo abbandono, separato dagli uomini e da Dio. Il sentimento della miseria umana dà loro quell’accento di semplicità che è il marchio del genio greco e che è tutto il pregio della tragedia attica e dell’Iliade. Certe parole rendono un suono stranamente affine a quello dell’epopea, e l’adolescente troiano inviato alla case di Ade, sebbene rilut-tante a partire, torna alla mente quando il Cristo dice a Pietro: «Un altro ti cingerà e ti menerà dove tu non vuoi». Tale accento non è separabile dal pensiero che ispira il Vangelo; infatti il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore. Colui che ignora fino a qual punto la volubile fortuna e la necessità tengono ogni anima umana alla loro mercè, non può considerare suoi simili né amare come se stesso quelli che il caso ha separato da lui con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uo-mini fa nascere l’illusione che vi siano tra di loro specie distinte cui non è dato comunicare. Non è possibile amare né essere giusti se non si conosca l’imperio della forza e non lo si sappia rispettare.
1 rapporti dell’anima umana e del destino, in qual misura ciascun’anima modelli la propria sorte, ciò che una impietosa necessità trasforma dentro un’anima secondo il capriccio della sorte mutevole, ciò che per effetto della virtù e della grazia può rimanere intatto, è una materia in cui la menzogna è facile e seducente. L’orgoglio, l’umiliazione, l’odio, lo sprezzo, l’indifferenza, il desiderio di dimenticare o di ignorare, tutto contri-buisce a offrirne la tentazione. In particolare, nulla è più raro di una giusta espressione della sventura; dipin-gendola, si finge quasi sempre di credere ora che la sconfitta sia una vocazione innata dello sventurato, ora che un’anima possa reggere la sventura senza riceverne il marchio, senza che la sventura ne muti tutti i pensieri in un modo che solo le è proprio. Il più delle volte i Greci ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a se stessi; ne furono ricompensati e seppero toccare in ogni cosa il più alto grado di lucidità, di purezza e di semplicità. Ma lo spirito che si è trasmesso dall’Iliade al Vangelo, passando per i pensatori e i poeti tragici, non ha valicato i confini della civiltà greca; e, da quando si distrusse la Grecia, non ne restano che riflessi.
Tanto i Romani come gli Ebrei si credettero sottratti alla comune miseria umana, i primi quale nazione pre-scelta dal destino a essere padrona del mondo, i secondi grazie al favore del loro Dio e nella misura esatta in cui gli obbedirono. I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici, i vinti, i loro sudditi, i loro schiavi; per questo non ebbero né epopea né tragedie. Sostituivano le tragedie con i giochi del circo. Gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato; dunque un motivo legittimo di disprezzo; guardavano i nemici vinti come se Dio stesso li avesse in orrore e li condannasse a espiare delitti, ciò che rendeva lecita e addirittura indi-spensabile la crudeltà. Per questo nessun testo dell’antico Testamento rende un suono paragonabile a quel-lo dell’epopea greca, se non forse talune parti del poema di Giobbe. Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, imitati negli atti e le parole, citati tutte le volte che c’era da giustificare un crimine durante venti secoli di cristianesimo.
Inoltre lo spirito del vangelo non si trasmise puro alle successive generazioni cristiane. Fin dai primi tempi si credette di scorgere un segno della grazia nei martiri per il fatto che essi pativano le sofferenze e la morte con gioia; quasi che gli effetti della grazia potessero arrivare più lontano negli uomini che nel Cristo. Chi pensò che Dio stesso, divenuto uomo, non poté avere davanti agli occhi il rigore del destino senza tremarne di angoscia, avrebbe dovuto comprendere che apparentemente al disopra della miseria umana possono le-varsi solo gli uomini che mascherano ai propri occhi il rigore del destino con il soccorso dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo, che non è protetto dalla corazza di una menzogna, non può patire la forza senza esserne colpito fino all’anima. La grazia può impedire che questa percossa lo corrompa, ma non può impedire la ferita. Per averlo troppo dimenticato, la tradizione cristiana non ha saputo ritrovare se non molto di rado quella semplicità che rende lacerante ciascuna frase delle sequenze della Passione. D’altronde, il costume delle conversioni forzate ha velato gli effetti della forza sull’anima di coloro che la ma-neggiano.
Nonostante la breve ebbrezza causata al tempo del Rinascimento dalla scoperta delle lettere greche, il ge-nio della Grecia non é risorto nel corso di venti secoli. Ne traspare qualcosa in Villon, Shakespeare, Cervan-tes, Molière, e una volta in Racine. La miseria umana è messa a nudo, a proposito dell’amore, ne L’ècole des femmes, in Phèdre; strano secolo d’altronde, nel quale, contrariamente all’età epica, non era concesso percepire la miseria dell’uomo se non nell’amore, mentre gli effetti della forza nella guerra e nella politica do-vevano essere sempre circonfusi di gloria. Si potrebbe, forse, fare altri nomi. Ma nulla di quanto hanno pro-dotto i popoli d’Europa vale il primo poema conosciuto che sia apparso presso uno di essi. Ritroveranno for-se il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quindi non ammirare mai la for-za, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati. E dubbio che ciò sia prossimo ad accadere.
[url=http://209.85.135.104/search?q=cache:22YJgYri884J:www.lamerlettaia.it/weil.htm+equit%C3%A0+iliade&hl=it&ct=clnk&cd=6&gl=it]tratto da qui[/url]
Per il tema che devi svolgere e il seguente quesito prova a guardare negli appunti:
https://www.skuola.net/letteratura-italiana-classica/
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